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La
Conquista di Gerusalemme
Sara
Montagnani
«…the paradoxical fate, which history
had decreed for a people of becoming
“the victim of the Victims”»
(E.W.Said)
«Combatta qui chi di campar desia»
(T. Tasso, Gerusalemme Liberata)
I
Guardo
Gerusalemme
antica comprimersi stretta in un breve giro di mura, schiacciata dal
peso di un cielo millenario spettatore muto di tutti i massacri
compiuti per conquistare quel piccolo dedalo di strade. Dentro, i
profili stanchi di cupole, campanili, minareti e una moltitudine di
case, ammassate le une sopra le altre, si affollano senza tregua.
Fuori, le linee feroci delle nuove costruzioni violano lo spazio sacro
della sua storia, incessantemente. In alto sul Monte degli Ulivi,
neppure i morti di un enorme cimitero ebraico, schierato su territorio
occupato, danno pace ai vivi. Le antiche mura, più volte distrutte e
ricostruite, eternamente insufficienti a difendere la città dai tempi
di babilonesi, romani o crociati, niente possono di fronte agli ultimi
conquistatori.
Fin dal piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite nel 1947,
alla fine del mandato britannico, Gerusalemme gode di uno statuto
speciale che la sottrae alla sovranità sia dello Stato di Israele che
di un futuro ipotetico Stato palestinese. Ma l’obbiettivo che la
Conquista israeliana persegue illegalmente, a partire dall’occupazione
del 1949 della parte occidentale della città, alla cosiddetta
riunificazione del ’67 (così gli israeliani continuano a
chiamare
l’occupazione dell’intera città durante e dopo la Guerra dei Sei
Giorni), all’attuale politica aggressiva di espropri, demolizioni e
deportazioni, è l’ebraicizzazione della città santa, destinata
ad
essere capitale unita e indivisibile dello Stato Ebraico.
Sul corpo venerato della città sanguinano numerose le ferite inferte
alle sue antiche pietre e ai suoi abitanti. La lunga battaglia per la
conquista di Gerusalemme conta già sul campo le sue macerie. Sono stati
rasi al suolo interi quartieri, che custodivano nelle loro vie contorte
la testimonianza dell’identità, una trina multipla universale, della
città. La cancellazione della presenza storico-artistica di comunità
non ebree, presenti da secoli nel perimetro delle mura e oltre, non è
solo un piano aberrante, ma anche un concreto ed ininterrotto progetto
urbanistico delle amministrazioni israeliane. Il quartiere marocchino
di El Mughrabi, per suo sventurato destino costruito nel XII
secolo a
ridosso del Muro del Pianto, è stato interamente demolito dopo il ‘67
per consentire la creazione dell’attuale Western Wall Plaza.
Storicamente improbabile, artisticamente insostenibile, la moderna
piazza conficcata nel cuore antico della città è adibita a celebrazioni
religiose e parate politiche. Poco fuori le mura, sotto la moschea di
Al-Aqsa, invece, sono attualmente in corso scavi per portare alla luce
un presunto palazzo di David, la cui presenza è sostenuta da
accreditati archeologi israeliani che si basano sull’indiscusso
criterio scientifico della lettura della Bibbia. Lo scavo non ha
rivelato all’umanità nessuna delle testimonianze cercate; ma perché ciò
accada in futuro, sarà necessario proseguire lo sgombero forzato di un
intero quartiere abitato da palestinesi che, loro malgrado, si trova
impropriamente sopra da secoli. Intanto i negozi del quartiere ebraico
espongono con orgoglio nelle loro vetrine, agli occhi della clientela
appassionata e dei passanti distratti, mappe, dipinti ed acquarelli
raffiguranti il complesso che include la Spianata delle Moschee e il
Muro del Pianto, finalmente libero dall’ingombrante sito musulmano,
secondo il progetto di valorizzazione di ciò che rimane dell’antico
tempio di Salomone. Un po’ come se gli archeologi italiani proponessero
di cancellare le influenze arabe o normanne da molti centri storici
delle città meridionali per ripristinare l’antico paesaggio della Magna
Grecia; o più realisticamente come il folle gesto dei talebani, che,
circa un decennio fa, fece saltare in aria le due gigantesche statue di
Buddha nella valle di Bamiyan per affermare l’inautenticità di tutti le
presenze non islamiche nel paese da loro governato.
Se la demolizione degli edifici procede incessante, la Conquista non
trascura neppure la pulizia etnica della città. Attualmente la politica
dell'amministrazione israeliana a Gerusalemme continua ad avere a tutti
gli effetti le caratteristiche di una vera e propria deportazione dei
palestinesi residenti nella parte orientale. Attraverso la revoca dei
permessi di soggiorno ai cittadini arabi, divieti di costruzione o
ampliamento delle loro abitazioni, l’amministrazione mira a
sterilizzare la parte araba della città, così da renderne
indiscutibile
la futura annessione allo Stato di Israele. Tra le leggi israeliane in
vigore per gli abitanti palestinesi l’absentee law stabilisce
che, nel
caso un residente di Gerusalemme lasci la sua casa per un periodo
superiore a tre anni, perderà ogni diritto sulla sua abitazione, oltre
a quello di rientrare a Gerusalemme. Così dal ’67, da quando cioè la
legge, che riguarda esclusivamente i residenti arabi, è entrata in
vigore, 70.000 palestinesi di Gerusalemme est hanno perso le loro case
e i loro status. Ad oggi vivono nella città santa 500.000 israeliani e
250.000 palestinesi. Finché la città non sarà completamente
sterilizzata.
II
La
distanza che separa la Porta di Damasco da Sheikh Jarrah è
percorribile a piedi. Le vie confuse di Gerusalemme est inghiottiscono
le piccole mura orlate del centro storico e si aprono alla vista delle
fattezze possenti del Monte Scopus. Ai suoi piedi Sheikh Jarrah
scivola disordinato lungo la sua strada principale, nella luce
polverosa del tramonto. I quartieri abitati dagli arabi si riconoscono
subito. Dissestati, malmessi e pure, in questo mite agosto, listati di
lucine e festoni per il Ramadan. Una ragnatela scompigliata e continua
di pali, cavi, fili elettrici sostenta i fiochi lumicini che popolano
le sere degli arabi. Sopra la calca dei tetti staziona ovunque uno
stormo di cisterne nere. Qui non ci sono allacciamenti per la
fornitura
di servizi cittadini, si affretta a precisare il nostro amico
palestinese. La distribuzione delle risorse idriche è sotto il
controllo israeliano; per le forniture elettriche invece gli abitanti
si arrangiano come possono. Intorno rifiuti e sacchetti di plastica che
rotolano, eternamente animati da un flebile alito di vento.
Da un piazzale sterrato, sospeso sulla conca del quartiere, intanto, un
gran numero di piccole sentinelle annuncia rumoroso il nostro arrivo.
Giocano intorno alla carcassa di un’auto abbandonata, ma mollano subito
l’impresa per presentarsi. Scopriamo che sono gli ultimi arrivati tra
gli abitanti di un palazzo fatiscente lì alle porte del quartiere. Un
grande edificio severo, dove ai marmi un tempo gloriosi della facciata
si alternano ora lamiere arrugginite, protezioni di fortuna e panni
stesi. Un alveare di plastica e reti metalliche con un numero
inaccettabile di bambini. Sono i figli delle famiglie che hanno
perso
la casa durante gli ultimi espropri, risponde solerte il nostro
amico
alla domanda muta dei nostri occhi straziati. Profughi non
riconosciuti. Piccoli, sporchi, scuri, tantissimi. Ci scortano fin
dentro la strada principale, fino alla casa della famiglia Al-Kurd, per
poi disperdersi dietro un pallone sfatto e lercio; ma conteso e difeso
valorosamente.
La casa degli Al-Kurd è una costruzione ad un piano con un cortile
interno, posizionata a ferro di cavallo. Vi si accede da un cancello
divelto e un povero giardino. Da quando l’ala davanti della loro casa è
stata occupata con la forza da un gruppo di coloni ortodossi, la
famiglia è costretta ad una coabitazione tesa e violenta con giovani
settlers che, a rotazione, si succedono nell’impresa. Sotto il
medesimo
tetto, quello della famiglia Al-Kurd. Alle finestre che si affacciano
sulla strada sono appese numerose piccole bandiere israeliane, come una
lunga funesta ghirlanda a celebrare con arroganza l’occupazione in
corso. Le mura del giardino invece sono state sporcate con spray di
vernice nera. Fuck Palestine, Death to arabs, stelle di
David e il logo
della Jewish Defende League. Entriamo nel vialetto che conduce
sul
retro. Accanto, sdraiati sprezzanti su alcuni divani piazzati davanti
alla porta principale, i coloni piantonano la casa. Per i membri della
famiglia Al-Kurd il vialetto accanto ai coloni è l’unico
pericolosissimo accesso a ciò che è rimasto della loro proprietà. Alla
nostra vista, i giovani pionieri scattano sul piede di guerra e
azionano efferati una raffica di insulti. Fanno eco alle note violente
di questo concerto i loro cani feroci, aizzati contro il signor Al-Kurd
che ci viene incontro. Con la cortese ospitalità del buon padrone di
casa, ripete Salam ad ognuno dei nostri visi sgomenti. Sono
cani
spaventosi i migliori amici degli occupanti. Li hanno portati da
qualche mese per alzare il livello dello scontro. Ci spiega il
signor
Al-Kurd con i suoi modi inspiegabilmente pacati, mentre ci fa strada
verso il cortile che divide le due ali della casa. Quella occupata dai
coloni e quella difesa dalla sua famiglia. Sediamo all’aperto davanti
al sorriso stanco della madre, che ci attende su uno degli sgabelli
preparati per gli ospiti. Alle nostre spalle, separati da una manciata
di metri e una tenda, i cani continuano a digrignare i denti ed i
coloni ad inveire feroci. Il signor Al-Kurd inizia composto il suo
racconto; ma per noi la violenza del contatto ravvicinato coi settlers
è una realtà agghiacciante.
Il primo tentativo di espulsione nel 2008. La polizia israeliana ha
fatto irruzione nella casa nel cuore della notte. A volto coperto e
armati, hanno buttato giù la porta di ingresso e riempito l’abitazione;
circondato e chiuso militarmente il vicinato. Mohammed Al-Kurd, il
padre, da anni confinato su una sedia a rotelle, viene sbattuto con la
moglie sul marciapiede davanti alla sua abitazione. A causa del trauma
il cuore malato di Mohammed cede; ma la polizia che sigilla l’intero
quartiere ne blocca l’accesso all’ambulanza chiamata dai vicini. La
madre in silenzio annuisce al racconto; non conosce l’inglese ma ogni
singola parola di quel dolore. He passed away after suffering a
second
heart attack. Poi sono arrivati i coloni. Hanno portato i mobili in
strada per il saccheggio e dato fuoco ad alcune suppellettili. Identica
la tattica delle altre incursioni: all’improvviso, durante la notte e
sempre accompagnati da uno schieramento di soldati armati e dalla
chiusura militare dell’area.
Nel 1956 la famiglia Al-Kurd, come gli Al-Ghawi, gli Hanoun e altre
ventotto famiglie di profughi palestinesi della guerra del 1948, riceve
dall’ UNRWA (United Nation Refugee Work Agency) e dal governo giordano
(all’epoca responsabile di Gerusalemme Est) l’assegnazione della terra
dove sorge la loro casa a Sheikh Jarrah; ma non i diritti di proprietà,
più volte annunciati ma solo promessi alle famiglie dei profughi. Così
nel ‘67, il Comitato della Comunità Sefardita e la Knesset rivendicano
la proprietà di quella terra. Producono documenti dell’era ottomana che
ne sanciscono il possesso ebraico a partire dalla fine del XIX secolo.
Le due commissioni iniziano a chiedere il pagamento dell’affitto e a
cercare di sfrattare gli Al-Kurd e le altre famiglie dalle loro case.
Non importa se, alla fine degli anni Novanta, quelle carte si siano
rivelate dei falsi, né che l’avvocato rappresentante delle famiglie
palestinesi sia risultato al soldo dei sefarditi: come accade in ogni
guerra, non esiste nessun codice morale se la battaglia deve essere
vinta. Dopo un lungo assedio legale, nel 2008 i coloni si insediano
violentemente nella parte anteriore della casa. La loro occupazione è
autorizzata, perché l’estensione della casa costruita dal signor
Al-Kurd dichiarata illegale dall’amministrazione israeliana, che nega
strategicamente ogni intervento di ampliamento delle troppo piccole
case arabe. Intanto i coloni riescono ad espugnare altre quattro case
del quartiere; le quattro famiglie e i loro numerosi bambini sono
forzatamente allontanate dalle loro abitazioni dall’intervento
delle autorità israeliane. Alcune di loro, dopo aver perso tutto, hanno
piantato una tenda davanti alla casa occupata e iniziato, per la
seconda volta nella loro vita, la luttuosa esistenza dei profughi. Il
signor Al-Kurd concede una breve tregua al suo racconto. Alza gli occhi
in direzione del tetto della casa di fronte, dove i settlers
hanno
issato bandiere israeliane e un enorme, mostruoso, menorah di
diversi
metri. I conquistatori amano esibire loro vittorie, perché i vinti
continuino ad essere umiliati. Poi indica l’esile e tenace tenda blu
che l’ISM ha sollevato nel cortile della sua abitazione. I coloni hanno
tentato più volte di distruggerla dandogli fuoco. Ma lì, tra le due ali
della sua casa martoriata, ragazzi da ogni parte del mondo mantengono
una presenza costante a protezione della sua famiglia. Sorride
affaticato. È quasi buio a Sheikh Jarrah quando il signor Al-Kurd
sospende il suo racconto. Accanto i coloni e le loro bestie non hanno
mai cessato di inveire. La debole luce rimasta mostra ai nostri occhi
sconvolti l’importanza strategica di Sheikh Jarrah. Sopra il quartiere
incombono le sagome scure delle colline occupate che ospitano da tempo
i grandi prestigiosi complessi della Hebrew University e dell’ospedale
di Hadassah. Per garantire continuità tra Gerusalemme Ovest, questi due
siti importanti per la popolazione ebraica, il Monte Scopus e il
quartiere arabo del centro storico, dove l’occupazione va avanti, si
rende essenziale per l’amministrazione israeliana procedere alla
conquista di Sheik Jarrah che, con Silwan a Sud e il Monte degli Ulivi
a Est, costituirà un sistema di roccaforti israeliane nello
storico bacino arabo che circonda la Città Vecchia. Fino all’obbiettivo
finale della Gerusalemme ebraica.
Esitiamo a congedarci dal signor Al-Kurd davanti al cancello divelto
della sua casa dove nel frattempo ci ha accompagnati. Non è
sopportabile lasciare un essere umano in quella desolazione. Per farci
coraggio ci mostra su un ritaglio di muro le immagini della bandiera
palestinese avvolta nel filo spinato disegnate dai bambini del
quartiere. Si sono salvate e resistono. Intanto l’allegra pattuglia non
ci ha persi di vista. Scendono alla spicciolata tra scoppi di risa e
urla. Mentre la notte avanza a Sheikh Jarrah occupato, le loro esili
vocine intonano nell’aria densa una canzonetta, che qui in Palestina
tutti i bambini sembrano conoscere. Inizia così.
One-two-three-four/occupation no more. E finisce con
l’immancabile
sogno di tutti noi. Free Palestine.
[19 dicembre
2011]
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