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Commento a Una sera di nebbia... di Franco Fortini
Commento a Una sera di nebbia... di Franco Fortini
Andrea Gibellini
Una sera di nebbia apparvero ombre di diavoli
nella foresta francese di querce e di olmi.
«Signori», disse il cardinale di Retz a Turenne e Brion
«che iddio e la Santa Vergine ci guardino».
E sguainate le spade spronarono.
A galoppo i cavalli sulle foglie di castagno. Le dame
urla dalla carrozza. Ma non erano diavoli, era
una processione spaurita
di carmelitani nel bosco nebbioso.
Non fu una processione di esseri spauriti
erano ombre di diavoli veramente
quello che i nostri occhi abusati hanno veduto
quello che hanno saputo le nostre menti.
- È una poesia inclusa nel libro uscito nel 1984 intitolato Paesaggio
con serpente e
presente nella sezione Di
seconda intenzione.
Questa poesia può essere l'imitazione o la traduzione di una poesia
o una poesia scritta su di un racconto storico meditato da Fortini.
Penso a quest'ultima ipotesi. Nella stessa sequenza Di
seconda intenzione altre
due composizioni sono affini per l'aspetto drammatico del tema
svolto a Una
sera di nebbia..:
Monologo
del Tasso a Sant'Anna
e Nota
su Poussin.
Una composizione poetica centrata sul racconto letterario derivante
dallo studio-osservazione di un quadro o da una narrazione avente
per soggetto una situazione storica si può chiamare di seconda
intenzione.
La prima intenzione è il risultato di un legame di tipo
esistenziale del poeta con i temi articolati all'interno della sua
poesia. Quasi sempre Fortini esplicita i propri motivi dentro una
propria poesia, li dichiara mettendoli in risalto, fino in fondo. E
il fondo è quel cerchio buio dove resiste una materia non
completamente espressa, una sopravvivenza della parola che
nonostante l'esercizio della mente mai si può del tutto dire. Ma
ogni poeta si definisce costantemente nel proprio lavoro. E uno dei
generi letterari più lavorati da Fortini è la traduzione. La
struttura, lo scheletro di una poesia viene rinsaldato, ricostruito
fino a far diventare la poesia in traduzione una poesia propria, un
organismo autonomo nello stile del poeta-traduttore. È
lo stesso poeta a desiderare una complicità in una sorta di
trasfusione sintattico-linguistica. L'occasione più evidente -
oltre alle traduzioni di Brecht - è la traduzione (o imitazione?)
dell'ottava conclusiva dell'elegia pastorale Lycidas
di
Milton, dallo stesso Fortini splendidamente commentata. Non è di
certo casuale l'interesse di Fortini per Milton, per un poeta e
letterato impegnato nella politica di Cromwell nell'Inghilterra
della metà del 1600. In Paesaggio
con serpente abbiamo
un Traducendo
Milton
(sempre nella sezione Di
seconda intenzione)
sulla
falsariga del Sereni di Stella
variabile che
intitola una sezione del libro con la suite Traducevo
Char. La
natura di Milton si trasforma in una natura di tipo pittorico,
immaginifica, come neoclassica. Una ricreazione fatta con versi
atemporali, ossidati, di Fortini. La sintonia ritrovata da Fortini
con poeti da lui studiati e tradotti (spesso in Fortini lo studio
sull'autore si accompagna a una sua immediata traduzione: Brecht,
Eluard, Proust per fare qualche esempio) si calamita per trasfusione
intellettuale nei suoi versi. Non conosco casi di poeti cosiddetti
forti che non totalizzano la traduzione poetica con la materia del
proprio suono, innanzi tutto. In Fortini il concetto di traduzione
e di imitazione
è molto similare, quasi a specchio, alcune delle
imitazioni-traduzioni di Fortini a volte paiono sue poesie e
viceversa. L'invasione stilistica è totalizzante. Per imitazioni
- come
nelle imitations
del
poeta americano Robert Lowell - si intendono quelle poesie prossime
a una traduzione oggettiva. Prossime non solo per un distacco dalla
lingua straniera preliminare, l'estraneità da una lingua non aiuta
il farsi di una poesia altra, ma per una caratteristica
ultra-personale del poeta e traduttore (come nelle Imitazioni
di
Attilio Bertolucci) nel modificare geneticamente nella propria
lingua d'arrivo l'essere vivente poetico.
Fortini è un poeta direi unico nel nostro Novecento per la sua capacità intellettuale di riempire di luce la poesia attraverso l'esercizio incessante della ragione. In Fortini esiste una totalità di aspettative nei confronti della poesia che sconcerta. Ti mette sempre in allarme, ti fa sentire a rileggerlo sempre un po' in debito sul tuo fare poesia. Nella poesia di Fortini si condensano le migliori ragioni dello scrivere poesia. Se nel saggista può esserci una idea da svolgere in maniera dialettica, nella poesia il contatto, l'attachament, si fa più indifeso, alle volte misterioso; il che per un autore come Fortini è tutto dire. Non tutto si razionalizza all'interno di un contesto poetico, restano silenzi, incontri nel bosco inquietanti, avvertiti da una sensibilità poetica altra non legata alla ragione ma come misterica e pressoché inconoscibile.
Una sera di nebbia... è inserita in un paesaggio fremente di oscurità e di tentazioni liriche legate alla visione del paesaggio. Il destino della poesia di Fortini con Paesaggio con serpente e poi con Composita Solvantur si apre a nuova stagione poetica. Lo stimolo incisivo della politica entrante nella poesia lascia lo spazio a interventi tematici diversi. Voglio sottolineare il fatto che i versi diventano maggiormente duttili, flessibili nel captare sollecitazioni poetiche da autori in apparenza lontani come Umberto Saba. Rimangono costanti a livello di percezione stilistica l'enunciazione filosofica, assertiva, d'ispirazione cinese. La mediazione culturale di Edoarda Masi fa scoprire, o riscoprire, a Fortini l'aspetto più specificatamente poetico della Cina. Il poeta Lu Hsun, vissuto tra Otto e Novecento e morto negli anni trenta, coglie l'importanza di non essere esclusivamente un poeta dalla tradizione millenaria ma di essere contemporaneo ad altre vite letterarie e poetiche come quella europea che bene conosce. Fortini studia Lu Hsun attraverso gli scritti compresi nel volume La falsa libertà, saggi e discorsi, 1916-1936, usciti da Einaudi nel 1968 e curati da Edoarda Masi. Sono i documenti esistenziali di un poeta che si rivolge a un popolo in modo perfino elegiaco nel dichiarare le sue intenzioni comunitarie. La solitudine del poeta e la sua funzione sociale. Una delle contraddizioni che sicuramente interessano Fortini. Un poeta quando è tale sviluppa una considerazione sociale della sua scrittura. Lu Hsun argomenta la condizione dello scrittore dentro la politica dell'Impero con una raffinatezza stilistica che gli permettere di usare la lingua come uno strumento musicale dalle infinite modulazioni. Non una lingua ma lingue diverse tengono insieme la forza della sua scrittura. La poesia di Fortini circola come sangue di idee in altri fiumi spesso inaspettati in un progetto di libro concepito come l'allegoria della vita di un intellettuale italiano tra la metà e la fine del secolo scorso. Credo che sia importante definire la temporalità di Paesaggio con Serpente: uscito per Einaudi nel 1984, Sereni (morirà nel 1983) e Zanzotto richiamati (rievocati) come compagni di viaggio a costituire altri temi e intrecci, ampliando l'organismo della poesia di Fortini con un pulsare sempre più frequente di nuove cose. Dopo tanti anni che si è letto più di una volta questo libro si resta sempre avvinti a una nuova lettura. Si vuole dire che quello spazio-mondo non termina mai. Spesso il libro di poesia lavora nell'inconscio di chi legge creando piste da seguire, altri boschi da esplorare. -
William
Hazlitt in un celebre articolo intitolato On Landscape of
Nicholas Poussin scrive che «La sua arte è una seconda
natura», «His art is a second nature». Poco prima Hazlitt
entrando nelle immagini di Poussin spiega che il pittore francese:
«At his touch, words start up into images, thoughts become things».
«Al suo tocco, le parole si attivano in immagini, i pensieri
diventano cose». Mi interessano queste due frasi critiche di
William Hazlitt per la poesia di Fortini perchè ci possono dare una
spiegazione della defininizione della poesia chiamata di seconda
natura e del suo carattere di suprema finzione (in una
formula poetica di Wallace Stevens) nei confronti della realtà
empirica. La natura di Poussin è più vera del vero solo se si
accetta il suo carattere di partecipazione immaginativa, il
principio allegorico proietta i fantasmi su di uno schermo infinito,
in un diorama senza tempo tra verità e illusione. E certamente
l'estrema conoscenza che aveva Fortini per la pittura di Poussin
derivava dal fatto che le figurazioni come i paesaggi del pittore
francese superano l'elemento di realtà (in questo caso si
potrebbero forse pure richiamare La tempesta di Giorgione) in
un lavoro inesausto della mente che raffigura le cose che le ha
attraversate.
Le Memorie del cardinale di Retz escono postume a Parigi nel 1679. Sono di Jean-Francois-Pul de Gondi, cardinale di Retz. L'edizione che con qualche probabilità ha incuriosito e sollecitato l'immaginazione di Fortini è quella uscita nel 1981 con la prefazione di Giovanni Macchia. È una edizione ridotta rispetto a quella originale, che consta più di ottocento pagine; i traduttori storici come nell'edizione italiana del 1946 uscita sempre da Bompiani, sono Domenico Bartoli e Cesare Giardini. Nel 2001 l'editore Laterza ha riproposto le Memories in edizione integrale nella traduzione di Serafino Balduzzi. Il passo a cui si riferisce la poesia di Fortini è a pag. 61; riporto le quattro pagine del racconto del cardinale:
Le conversazioni che dicevo si concludevano abbastanza spesso con passeggiate in giardino. Un giorno madame de Choisy ne propose una a Saint–Cloud, e disse scherzando a madame de Vendôme che una volta bisognava portare a teatro il vescovo di Lisieux. Al buon vecchio piaceva Corneille, e commentò che non vedeva obiezioni, purché non fosse in città e ci fossero pochi spettatori.
Si organizzò la cosa: saremmo stati della partita madre e figlia Vendôme, madame de Choisy, Turenne, Brion, Voiture e io. Brion s’incaricò degli attori e dei violini, io della colazione. Ce ne andammo a Saint–Cloud, dall’arcivescovo.
Gli attori quella sera recitavano a Rueil, dal Cardinale, e arrivarono molto tardi. Lisieux si distrasse coi violini; madame de Vendôme non si stancava di guardare le danze che sua figlia faceva da sola. Ci si divertì così a lungo che al ritorno, sulla discesa dei Bons–Hommes, vedemmo spuntare il primo barlume dell’alba (era mezza estate).
Appunto in fondo alla discesa, la carrozza si fermò di botto. Ero con mademoiselle de Vendôme, accanto a una portiera. Chiesi al cocchiere perché si fermava. Mi rispose con voce spaventata: «E come volete che passi su tutti i diavoli che mi vedo davanti?» Misi fuori la testa, ma ho sempre avuto lo vista debole, e non vidi nulla.
La prima persona dentro la carrozza a vedere ciò che aveva spaventato il cocchiere fu madame de Choisy, seduta presso l’altra portiera accanto a Turenne. I cinque o sei lacché seduti dietro la carrozza già gridavano: «Gesù Maria!» e tremavano di paura.
Quando sentimmo gridare anche la Choisy, Turenne saltò giù da una parte e io dall’altra. Presi la spada di un lacchè e raggiunsi Turenne dalla sua parte: fissava qualcosa nel buio, che io non riuscivo a vedere. Gli chiesi che cos’era. Lui mi prese per il braccio e disse a bassa voce: «Ve lo dirò, ma non bisogna spaventare le signore.» Le quali, ormai, urlavano come ossesse.
Voiture intonò un Oremus. Forse sapete quanto sono acuti gli strilli della Choisy. Mademoiselle de Vendôme recitava il rosario. Sua madre si voleva confessare al vescovo, che le diceva: «Figliola, non vi spaventate: siete nelle mani di Dio.» E Brion si era inginocchiato con i lacchè a recitare compunto le litanie della beata Vergine. Tutto ciò accadde in un attimo, come potete immaginare.
Turenne, che aveva uno spadino, lo sfoderò, si girò verso di me con la sua aria imperturbabile – con cui poteva indifferentemente sedersi a pranzo o attaccar battaglia – e mi disse: «Vediamo un po’ questa gente da vicino.» «Ma quale gente?» chiedevo io: mi sembrava che tutti fossero diventati atti. Lui rispose: «Effettivamente potrebbero anche essere dei diavoli.»
Dopo cinque o sei passi verso la Savonnerie, giunti più vicini allo spettacolo, incominciai anch’io a intravedere qualcosa: sembrava una lunga processione di neri fantasmi. In principio non provai più emozione di Turenne, ma poi pensai che avevo sempre desiderato vedere gli spettri, e forse questa era la volta buona. Così feci due o tre salti verso la processione, mentre lui continuava a camminare imperturbato.
La gente della carrozza credette che fossimo venuti alle mani con i diavoli: gettarono un urlo tutti insieme. Ma non furono loro a patire lo spavento più grande. Quei poveri monaci agostiniani riformati scalzi, vulgo cappuccini neri, che erano poi i nostri diavoli, si videro venire addosso due energumeni con le spade sguainate ed ebbero paura di far la fine dei santimartiri. Uno di loro venne avanti e gridò: «Signori, per carità, siamo poveri monaci che non fanno male a nessuno, e siamo andati a bagnarci nel fiumeper la nostra salute!» Potete immaginare le risate con cui Turenne e io ritornammo alla carrozza. Ciascuno di noi due fece le sue osservazioni, e il giorno dopo ce le comunicammo.
Lui mi giurò che l’apparizione dei fantasmi gli aveva dato gioia, mentre aveva sempre pensato che veder cose soprannaturali lo avrebbe spaventato. Io gli confessai che per tutta la vita avevo desiderato vedere spettri, ma al momento buono mi ero emozionato.
Un’altra osservazione che facemmo insieme fu che i resoconti sul comportamento degli uomini, di solito, devono essere completamente falsi.
Turenne mi giurò di non essersi emozionato, ma convenne con me che la fissità dello sguardo e quei movimenti così cauti potevano dare l’idea che fosse perlomeno molto preoccupato. Io confessai che un po’ di paura l’avevo sentita, ma lui giurò che avevo mostrato soltanto coraggio e allegria.
Come fidarsi delle verità dei testimoni oculari? Aveva ragione il presidente de Thou, quando diceva che le sole storie vere sono quelle scritte dal protagonista, se è abbastanza sincero.
Però nel caso mio la sincerità non è nemmeno una virtù. Provo un tal gusto a frugare fra pensieri e sensazioni del passato, e ad avere un’amica cui raccontarli, che il mio culto dell’esatta verità deve più al mio piacere che alla morale razionale.
Mademoiselle de Vendôme concepì un abissale disprezzo per il povero Brion, che in effetti in questa ridicola avventura si era comportato da donnicciola. Me ne parlò quando risalimmo in carrozza. Diceva: «Sento davvero, dall’importanza che dò al coraggio, di essere nipote di Enrico il Grande. Voi non dovete proprio aver paura di niente, a giudicare da come vi siete comportato.»
«Di paura, mademoiselle, ne ho avuta anch’io» risposi. «Ma non sono pio come Brion: perciò la mia paura non ha preso la strada delle litanie.»
«Non ne avete avuta, invece» ribatté lei. «E penso che non crediate al diavolo. Persino Turenne, che è un bel coraggioso, si è emozionato parecchio, e non camminava svelto come voi.»
Confesso che il paragone vantaggioso con Turenne mi andò al cuore, e fece nascere l’idea d’azzardare qualche approccio. Perciò dissi: «Si può credere al diavolo senza averne paura: al mondo ci sono insidie più pericolose.»
«Quali insidie?» chiese lei.
«Sono così pericolose che non si dicono» risposi.
Mi capì benissimo, e in seguito me lo confessò. Ma al momento fece finta di niente e si rivolse alla conversazione generale. Tornammo al palazzo Vendôme, e ciascuno se ne andò per i fatti suoi.
Le Memories del cardinale Gondi, la loro autenticità, o la loro completa fondatezza storica, sono messe in dubbio anche dai suoi stessi contemporanei e da altre narrazioni autobiografiche che mettono in dubbio episodi raccontati da Retz. Come in questo caso. Il cardinale di Retz, prima naturalmente di diventare cardinale, viene avviato suo malgrado alla carriera ecclesiastica, si fa proteggere da Richelieu e dal cardinale Mazzarino, ama i complotti, conosce il potere, e, soprattutto, conosce le debolezze umane. Partecipa a quattro conclavi, cade in disgrazia per un complotto ordito ai danni di Mazzarino; i sicari di Mazzarino daranno la caccia in terra di Francia e di Germania a Retz caduto disgrazia. Morto Mazzarino Gondi riuscirà a farsi di nuovo ad accettare a corte ma sarà isolato e morirà a Parigi quasi in odore di santità.
Il racconto che ci lascia Retz e quasi sicuramente non vero è una specie di teatrino dell'assurdo borghese. Una gita estiva in campagna si trasforma in una sinistra visione di cappuccini che escono dal primo barlume dell'alba. Ironizza Retz anche sull'autenticità del concetto di autobigrafia e sul suo significato. Il racconto si svolge dentro un palcoscenico dove le persone sono maschere senza una moralità definita. E questo è l'episodio letto da Fortini. Egli invece esclude dalla sua poesia l'evento temporale della rappresentazione scenica estiva, la gita in campagna, in sostanza enuclea nel suo micro-racconto tre personaggi, e li inserisce in una vicenda in cui la fuga nella foresta francese anima la vista di immagini che fuoriscono dalla nebbia come diavoli. La distorsione visiva dei partecipanti rimane intatta ma il contesto Fortini lo diversifica, inserendolo in un movimento di fuga e non da un ritorno dalla campgna verso la città. Retz è un fuggitivo, un uomo caduto in disgrazia inseguito dai sicari di Mazzarino, ma in fuga senza meta sono anche gli altri uomini e donne al seguito in un luogo oscuro, decentrato, liminare, quasi infernale. -
La
poesia parla dunque di un viaggio, o di una fuga dentro la foresta
francese. Tre sono i personaggi principali: il cardinale di Retz,
Turenne e Brion. Rappresentano un potere minacciato da qualcosa.
Qualcuno sta scappando da un qualcosa di inaudito e di imprevisto.
La prima parte della poesia si può definire narrativa. È un quadro
di natura con persone in fuga che assistono spaventati. Un quadro
allucinato. Racconta di un incubo fatto ad occhi aperti come se
fosse una storia vera. L'ossessione dello scambio «di una
processione spaurita / di carmelitani nel bosco nebbioso» con
figure diaboliche «di diavoli» disegna tutta la poesia, la rende
tematica. Come il colore scarlatto, autunnale, delle foglie di
castagno comprime visivamente la lattiginosità della nebbia. La
«nebbiosità» schiaccia il vedere, stringe le palpebre dei
cavalieri, aguzza la vista e scatena la visione diabolica. Le
invocazioni del cardinale non servono a nulla, alterano una visione
religiosa delle cose al cospetto di una invece magica e inospitale.
La urla delle «dame» dentro alla carrozza fanno il resto,
accendendo di più verso un moto di agitazione per il non
conosciuto.
Non so se Fortini qui voglia contrapporre e mettere in rilievo come l'essere borghese fuori da schemi sociali sia soggetto a tempeste mentali, allucinazioni non misurabili e, soprattutto, non convertibili in ragione. È un tema, penso, sottinteso a tutta la poesia, anzi il suo tema principale. Nella foresta tutti sono «spauriti»; senza controllo e senza punti di riferimento d'ordine sociale. L'aggettivo «spauriti» si riferisce alla processione dei carmelitani vestiti di nero che per inattesa visione si confondono nella nebbia. Richiama un paesaggio infernale, di dantesca memoria, quello del XXII canto dell'Inferno: «'Se voi volete vedere o udire' / ricominciò lo spaurato appresso». È aggettivo usato da Sereni («uno spaurito scolaro» recita un verso negli Gli strumenti umani), come sinonimo di non essere mai nel posto giusto ma di essere storicamente sempre in ritardo sugli avvenimenti storici in atto. Il termine qui invece vuole significare un senso di paura per l'inconoscibile, una sorta di confusione animale che colpisce gli uomini quando perdono l'orizzonte della loro ragione. Il legame con la storia attraverso il sintagma sereniano può essere riassunto nel volere indicare un qualcosa che sta accadendo, ma di cui gli attori in quel teatro crudele sorpresi e spaventati non si rendano poi del tutto conto. Il dialogo spinge la poesia in una zona in cui l'espressione narrativa accresce la teatralizzazione tra le varie parti, così la metrica nei primi sei versi è unita al fare scenico: un ipermetro ritmicamente cadenzato, racconto di una favola fatta di attesa e spavento. - La natura - come in altre occasioni poetiche fortiniane - è la registrazione visiva e come sonora, «A galoppo i cavalli sulle foglie di castagno», il suono metallico delle spade sguainate, di un evento assoggettato alla sorte degli uomini. Il paesaggio è uno sfondo allusivo in contatto con magie estranee alla realtà. Da infernale stregoneria. Ma questo è il luogo della verità: il vero del paesaggio è il vero luogo della poesia. Dove i destini generali accolgono quelli individuali. La continua definizione delle immagini della natura investe il verso di una sua icasticità quasi atemporale. Per inciso: Fortini mi disse quanto fosse importante per lui restituire in poesia il suo programma poetico. Indicai il nome del poeta e pensatore “imagista” Thomas E. Hulme maestro di Ezra Pound. Fu d'accordo. Mi disse che una poesia riuscita o vera dovrebbe restituire il suo resoconto poetico; o meglio: il poeta dovrebbe attenersi il più possibile ai suoi precetti di poetica. Il foglio scritto in prosa dal poeta con le sue intenzioni di poetica deve corrispondere alla riuscita finale della poesia mostrando il suo contenuto di verità. Ecco, credo che Una sera di nebbia... chiuda il cerchio con quelle lontane parole di Fortini. Le persone in fuga sono figure emblematiche di come la Storia possa infierire su soggetti esposti fisicamente alle sue intemperie. La dame urlano dallo spavento, la paura di essere nel mezzo di una battaglia senz'armi e non difese. Tra natura e storia l'allegoria qui si fa perfetta. Non è spostata su di un piano politico e attuale ma è retrodatata, storicizzata, in una parola, anch'essa di Sereni, «miniaturizzata». Non saprei dire perché la poesia non sia stata ripresa da Fortini. Nei Versi scelti non c'è. Questa poesia, un po' sconosciuta, ha una sua mineralizzazione perfetta: un preciso dispositivo di causa-effetto sull'asse di tensione del significato, un valore di impersonalità lirica nell'oggettivare una storia e il suo principio allegorico. Infatti l''ultimo verso richiama una pluralità: il poeta è coinvolto come chi partecipa in prima persona ad una allucinazione collettiva descrivendo l'accaduto. Il teatro di sagome scure uscite dalla nebbia è ricomposto, è evidente. Le sagome nere dei carmelitani stanno per diventare diavoli della mente.
- I quattro versi che concludono la poesia assumono una dimensione più propria della poesia come genere. La dimensione legata all'incipit narrativo si perde nella nebbia della «foresta francese di querce e di olmi». La presa di coscienza diventa un atto razionale nei confronti di un sortilegio che possiede ora tutti i personaggi sulla scena, compreso colui che ri-racconta l'episodio. Da una incertezza diabolica si passa alla certezza di una processione: «erano ombre di diavoli veramente». L'avverbio rafforza la costituzione di un principio di realtà da parte dello scrivente, i diavoli sono una certezza dentro, come la nebbia e gli alberi, al paesaggio. Gli occhi dei presenti alla scena sono «abusati», cioè troppo normalizzati dalla realtà, non pronti a cogliere l'inaspettato. Sono sguardi usurati dalla normalità del dire. L'ultimo verso si chiude con una parola che ha per Fortini un valore assoluto: la parola è mente, «menti» in questo caso. Un noi tante altre volte usato da Fortini in poesia come nella scrittura saggistica che non ammette ulteriori distinzioni tra realtà e sogno, tra passato e futuro.
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