di una possessione violenta»
(F.T. Marinetti, Abbasso il tango e Parsifal)
Voglia mi prende d’una buona ragazza
Docile, che non faccia tante storie,
Di bianche cosce e di poppe tranquille.
Quando soffia la stufa e nel camino
Fa lume rosso il fuoco e fuori è sera
Sulla neve dei boschi e dei paesi
E piano piano filano i torrenti
Io guarderei le braccia tonde e i gomiti
Svincolando le sottovesti e oh bella
Con qualche riso la treccia che cade!
Di me contenta, io contento di lei,
Mi direbbe con una voce saggia:
«Stai un po’ buono» - e anche vorrei
Che parlasse senese o perugino.
Molte cose mi dimenticherei
Se avessi con me quella buona ragazza spogliata
Con le due braccia lisce sul cuscino
Un poco addormentata e un poco sveglia.
La buona voglia è
stata scritta nel 1944, probabilmente “da lontano”, cioè durante
l'esilio di Fortini in Svizzera; quindi è stata pubblicata nella
prima edizione di Foglio di via e altri versi (1946). La
posizione assunta all'interno del corpus è interessante: La
buona voglia va infatti a collocarsi nella terza e ultima sezione
del libro, intitolata appunto «Altri versi», a testimonianza del
carattere spurio del testo rispetto al tono predominante di Foglio
di via, raccolta in cui a risuonare con forza è il sofferto
rovello interiore del poeta, fra eticità privata e azione politica,
di fronte al magma storico della Resistenza italiana al nazifascismo.
In questo quadro La buona voglia si presenta a tutta prima
come estroso capriccio erotizzante o scherzo manieristico con cui si
fa scopertamente il verso a certa poesia italiana due-trecentesca2.
Il testo consta di diciotto
versi divisi in cinque strofe: tre quartine e due terzine. Il verso
prevalente è l'endecasillabo, con due eccezioni che però sono
funzionali all'individuazione di una struttura, visto che si
collocano significativamente ai limiti della poesia (primo e
penultimo verso), e sono collegati tra loro anche dalla ripresa del
sintagma «buona ragazza». Le rime non sono né frequenti né
regolari, ma ciò non di meno vengono adoperate. Siamo di fronte ad
una lampante esemplificazione di ciò che Mengaldo, a proposito di La
città nemica, ha definito come sistema di rime «a reti
larghe»3.
Nel nostro caso è soprattutto nella seconda parte del componimento
che affiorano alcune rime, prevalentemente interstrofiche: perugino
(v. 14) – cuscino (v. 17) con ripresa del lontano camino
(v. 4); e poi le rime facili, anche di tipo grammaticale/morfologico:
lei (v. 11) – vorrei (v. 13) – dimenticherei
(v. 15). Nel sistema metrico fortiniano complessivo, che per Mengaldo
è caratterizzato, rispetto alla metrica classica, da un sapiente
contrappunto di «abbandoni e compensi», tali rime, così come
quelle identiche, assumono dunque il ruolo compensativo di
«iperequivalenze»4.
Nelle terzine si osserva invece come un movimento di introversione
per cui dalle rime si passa alle assonanze (ragazza : faccia,
vv. 1-2), oppure al pudore di un richiamo interno, nascosto al centro
dei versi, per di più in rima imperfetta, ancorché ricca (braccia
: treccia, vv. 8-10). Suggella la poesia l'allitterazione finale
fra spoGLIAta (v. 16) e sveGLIA (v. 18), con cui si
riprende la parola centrale del testo voGLIA. Globalmente ci
troviamo all'interno di quella che Mengaldo ha definito «allusione»
alla metrica classica, poiché dei «tre fattori» principali di cui
essa si compone Fortini ne manterrebbe uno e mezzo5.
Ed infatti l'isostrofismo è di certo pronunciato, ma già la
simmetria versale è quasi perfetta, e le rime decisamente lasche. È
evidente infine che l'impaginazione strofica, con l'alternanza di
terzine e quartine, indica una parentela con la veneranda
forma-sonetto. La quartina finale, con cui si eccede la misura dei
tradizionali quattordici versi, ha infatti un carattere
sostanzialmente riassuntivo.
Dal punto di vista dello
svolgimento tematico del testo si possono distinguere tre momenti
principali. Il primo è contenuto nella terzina d'apertura. Qui viene
enunciato a chiare lettere il prorompente desiderio del poeta di
possedere una ragazza «buona» e accondiscendente, che appunto «non
faccia tante storie» (v. 2). Da questa premessa così schiettamente
brutale si passa, con un brusco salto stilistico e tematico al
secondo momento del testo, articolato in undici versi decisivi (vv.
4-14). In questo ampio spazio lirico si dispiegano le volute della
revêrie e dell'idillio accarezzato quasi in sogno. Ma
giungono infine le parole della ragazza a spezzare questo mondo
fantasticato e la quartina finale chiude la poesia con una sommaria
ricapitolazione dei temi principali. Questo trapasso dalla realtà
all'immaginazione, e viceversa, è accompagnato da scelte formali
precise. Posto che l'intera poesia si attesta su un registro
colloquiale e tendenzialmente prosastico, si può notare come il
lessico della terzina iniziale sia di tipo decisamente basso, quasi
comico-realistico. In particolare sono degni d'attenzione i crudi
riferimenti al corpo della donna desiderata che, andando ben oltre i
noti divieti petrarcheschi, si succedono in un tripudio di cosce
e poppe, appena nobilitato dalla disposizione a chiasmo (v.
3). Nella parte successiva i livelli linguistici si inarcano
leggermente, anche se l'aspetto metaforico rimane castigatissimo, se
non completamente bandito. È invece la dialettica fra sfera del
possibile e reale a continuare a percorrere tutto il testo,
traducendosi in diversi contrasti formali. Si osservi l'uso insistito
dei modi verbali, di prevalenza ottativi – congiuntivo e
condizionale – in contrasto con l'impellenza gridata dell'incipit
all'indicativo («Voglia mi prende»). Oppure si faccia attenzione
alla contrapposizione ritmica che prende corpo nella prima quartina,
tra l'andamento percussivo e spavaldo del verso 5, giambicamente
scandito da cinque accenti, e la pacata distensione dell'anapestico
nei versi che gli stanno immediatamente vicini (ad esempio il
dolcissimo adagio di «Sulla neve dei boschi e dei paesi», che tanto
riecheggia l'incanto ritmico del leopardiano «alla luce del vespro e
della luna», variante questa del Sabato del villaggio,
scartata dal poeta, ma da Fortini addirittura prediletta6).
Tornando al verso 5 – «Fa lume rosso il fuoco e fuori è sera» –
è quasi ovvio rilevare che qui senso e ritmo vengono chiamati a
collaborare. E che l'immagine del fuoco che arde, soffia e si
accende, trasparente allegoria del desiderio erotico, trova nel
martellamento ritmico un alleato espressivo davvero prezioso. Per non
parlare dell'insistita allitterazione di sapore addirittura
fonosimbolico che lega, per i flessuosi sentieri della fricativa, il
verso citato a quello che con soffusa mollezza lo precede: «Quando
soFFia la stuFa e nel camino / Fa lume rosso il
Fuoco e Fuori e sera». Meravigliosa saldatura fra
crepitio di una fiamma tutta mentale e fragorosa amplificazione
fantastica del desiderio. Questa quartina sembra contenere in sé
qualcosa di aurorale, se è vero che riesce a far lievitare anche la
sintassi verso gli spazi aperti e indefiniti del desiderio e
dell'immaginazione. Si pensi all'uso rilevato che vi si fa del
polisindeto, così strettamente implicato con la sensazione
“leopardiana” dell'infinito nell'omonima poesia. E ancora alla
sospensione della subordinata temporale che occupa con le sue
coordinate l'intera quartina, ma non poggia su nessuna frase
principale: sfocato gesto lirico, dalla perspicua trasparenza
semantica, che inaugura in figura di sintassi il momento di una
trasognata revêrie7.
Ma la domanda che il
lettore deve porsi a questo punto è se, al di là delle apparenze,
siamo di fronte ad un vero idillio. E quindi se è corretto
circoscrivere all'interno di questo tipo di affinità liriche il
midollo del leone di Fortini poeta. Dobbiamo sempre ricordare a tal
proposito un passaggio capitale di Mengaldo: «E dal punto di vista
formale proprio l'allegoria (che deve essere sciolta razionalmente e
non si incista nel significante ma lo sovrasta) garantisce quella
tensione – non identificazione alla moderna – fra suono e senso
cui Fortini con Brecht tiene tanto»8.
Ecco dunque che anche in La buona voglia, che si presenta
apparentemente come conciliato e bonario idillio, affiorano delle
discrasie, che testimoniano di un rapporto decisamente inquieto fra
senso e suono, e di uno smottamento psicologico che innerva l'intero
testo. Un primo specimen formale. Nella parte conclusiva si
può ritrovare ancora una volta l'uso dell'allitterazione, che questa
volta è basata sulla sibilante: «Che parlaSSE SeneSE o perugino. /
Molte coSE mi dimenticherei / SE avESSi con me...» (vv. 14-16). La
disseminazione fonica, ossessivamente reiterata fino ai limiti
dell'ecolalia, rinvia ancora una volta al nesso fra pulsione poetica
all'identità di suoni e principio di piacere. Ricordiamo che per
Jakobson la funzione poetica prende corpo nel punto in cui
ripetizione e identità si proiettano dall'asse paradigmatico della
selezione a quello sintagmatico della combinazione. Un principio ben
noto a Fortini, se è vero che su di esso ha costruito
l'originalissimo discorso critico di un saggio cruciale come Opus
servile9.
Ora però qui succede qualcosa di veramente diverso. La modulazione
timbrica della sibilante, che parrebbe mimare, dato il contesto
specifico, sensualità ed erotismo, vira bruscamente verso la
congiunzione «se», tipico segnale sintattico del ragionamento
problematico. Il tanto agognato “sì” che chi parla sogna di
ricevere da parte della donna progredisce, quasi in virtù di
un'anamorfòsi sonora, verso il “se” razionale e diurno del
dilemma; e la tensione fra suono e senso finisce per piegare le
ragioni del “melodico” a quelle del logico argomentare. Di tali
discrasie o faglie testuali se ne possono annoverare ancora altre. Si
è già detto sia dei due versi ipermetri (v. 1, v. 16), che
scompaginano la simmetria degli endecasillabi, sia della quartina
finale riassuntiva che nega, ed afferma, il rapporto con la
forma-sonetto. Ma si ponga mente alla divaricazione più che
accennata fra lessico prosastico e «allusione» ad una metrica
nobile, fortemente connotata in senso “classico”. O, restringendo
il campo di focalizzazione, all'improvvisa sfasatura apportata dalla
parola «io» in seno al centralissimo verso 11. In questa sede il
chiasmo di me : contenta = contento : di lei, così
teatralmente soddisfatto della propria specularità, viene in realtà
spiazzato dalla ridondanza del pronome di prima persona, che guasta
ogni simmetria: «Di me contenta, io contento di lei».
Abbandonato in questo scomodo crinale l'io della lirica sembra
lacerarsi sotto la spinta di forze psicologiche contrastanti. Quali
sono queste forze e qual è la loro reale portata semantica? Il primo
elemento su cui soffermarsi è la contrapposizione fra il personaggio
che dice «io» e la ragazza a cui si rivolge. Se il primo si
caratterizza per immoderazione, la seconda lo fa per saggezza. Se il
poeta esprime la sua «voglia» in termini immediati e finanche
brutali – vuole una ragazza «che non faccia tante storie» (v. 2)
– la ragazza sembra collocarsi in spazi morali sicuramente più
semplici, ma comunque più sobri e al limite riflessivi. Ad essa
viene associato per ben due volte l'aggettivo «buona», la sua voce
è definita «saggia», le parole che rivolge al poeta sono un invito
a moderare l'intemperanza («Stai un po' buono», v. 13), la lingua
che adopera si distende su un registro “medio”, non essendo
connotata in senso dialettale. La ragazza è un vero monumento eretto
all'aurea mediocritas, e ci saluta con questa immagine finale,
ancora una volta indecisa e sfumata, in cui è sorpresa «un poco
addormentata e un poco sveglia» (v. 18). E l'uomo invece? La parola
che gli si può associare con pienezza inequivocabile è quella
centrale del testo: «voglia». La troviamo all'inizio della poesia.
E ovviamente nel titolo, in cui si lega all'aggettivo «buona». Ma
possiamo essere sicuri che quest'ultima attribuzione sia
corrispondente al reale pensiero di Fortini? A ben guardare nel testo
l'immediatezza del desiderio erotico non viene mai caratterizzata in
senso positivo, semmai abbiamo visto che è la ragazza ad essere
buona e saggia, specie quando cerca di calmare le intemperanze
maschili cui sembra essere soggetta. È davvero possibile definire
dunque «buona» questa voglia? L'approssimazione ad un testo poetico
di Noventa, che fu particolarmente caro a Fortini, potrebbe
corroborare questa sorta di dubbi. Nella sua antologia I poeti
italiani del Novecento (1977) Fortini inserisce con sincero
entusiasmo i bei versi di Gh'è nei to grandi – oci de ebrea.
Si tratta di un testo di Noventa scritto in Germania – dunque
ancora “da lontano” – nei primi anni trenta. Sicuramente il
giovane Fortini potè conoscerlo presto, dato il rapporto fortissimo
che lo legò per molto tempo, e negli anni Quaranta in particolare, a
colui che riteneva un vero e proprio maestro10.
La poesia di Noventa mette in scena i dubbi angosciosi di un uomo a
proposito dell'amore che prova verso una donna particolarmente
remissiva e servizievole. Il fatto che la donna si adegui in modo
servile al desiderio erotico del poeta fa nascere in quest'ultimo un
sospetto di sopraffazione: «Mi me credevo – un òmo libero / e
sento nascer – in me el paròn» (Io mi credevo un uomo libero / e
sento nascere in me il padrone). È guardando negli occhi di questa
donna ebrea che Noventa comprende la natura dispotica del suo
rapporto amoroso. Ora è risaputo come questi versi vengano ripresi
da Fortini, o meglio quasi trascritti, in A un'operaia milanese,
poesia del 1943, pubblicata in Poesia e errore (1959): «E te
guardando in noi si umilia un tristo / Schiavo tiranno»11.
Ma l'influenza di Gh'è nei to grandi... a mio parere si
sedimenta così profondamente da riaffiorare ancora. Scrive infatti
Noventa a proposito di questa donna, rincarando la dose: «A le me
vogie – tì ti rispondi, / Come le vogie – mie fusse amor» (Alle
mie voglie tu rispondi / come le voglie mie fossero
amore; corsivi miei). Queste «voglie» non sono, manzonianamente, né
«liete» e né «sante», ma al contrario tolte dall'amore; esse
dunque trasmigrano, col loro carico problematico, nel testo di
Fortini in questione, che con una negazione viene ad intitolarsi,
come per lampante antifrasi, La buona voglia. Qui
ovviamente nulla si vuole concedere ad un davvero improbabile
moralismo ermeneutico. Ciò che si vuole sostenere non è tanto che
la «voglia» fortiniana sia cattiva quanto piuttosto come essa sia,
al di là di ogni concessione all'ironia, irrimediabilmente falsa. Le
varie discrasie formali da cui il testo è punteggiato lo avevano già
fatto sospettare. Ma c'è un punto in cui la falsa coscienza del
personaggio che dice «io» si rivela chiaramente – e stavolta ci
collochiamo al livello patente del contenuto. E cioè quando si
enuncia il desiderio che la ragazza parli il dialetto «senese o
perugino», e quindi, se ne deve dedurre, che provenga da un ambiente
provinciale e socialmente inferiore. Si cade dunque in quella
medesima classista «illusione faustiana» che Fortini addebiterà,
almeno in parte, proprio a Noventa. L'illusione cioè di poter
magnanimamente «scendere fra il popolo e dimenticare momentaneamente
chi si è»12.
I versi su cui Fortini si soffermerà sono quelli in cui l'autore,
riprendendo dei motivi di Goethe, sogna di dimenticare per un attimo
se stesso e quindi di farsi piccolo «co' tuti i picoli» (in Mì
no' so ben parché). Ma con questo noventiano desmentegar
siamo davvero molto vicini a ciò che dice il poeta a conclusione di
La buona voglia, quando quasi ad eco, afferma: «Molte cose mi
dimenticherei / Se avessi con me quella buona ragazza
spogliata» (vv. 15-16; il corsivo è mio) – verso in cui fra
l'altro è da notare come l'aggettivo «buona» acquisti una certa
ambiguità semantica, tra riferimento caratteriale alla bontà e
allusione alla semplicità, anche sociale, della ragazza alla buona,
che appunto non fa tante storie.
Dunque né «liete» né
«sante» le voglie della maschera che parla nel nostro testo13.
Ed invece anti-manzoniane, semmai. Il desiderio di sentire parlare in
dialetto la ragazza, gustando per un attimo la piacevole esoticità
linguistica, sociale e culturale dell'altro, potrebbe rappresentare
un inequivocabile ed ironico rovesciamento del miracolo pentecostale.
Mentre in Manzoni, in virtù di una tensione universalistica
all'uguaglianza degli umili, la parola dello Spirito Santo viene come
simultaneamente tradotta, per cui possono udirla, ciascuno nella
propria lingua, «l'Arabo, il Parto, il Siro», nella voce che ci
parla in La buona voglia prevarrebbe al contrario il senso
della distinzione, assieme ad uno sguardo di tipo signorile che si
volge da paròn verso il sottoposto. Qui, montalianamente,
vale il principio per cui «ognuno riconosce i suoi». È nota la
grande importanza che avranno in seguito i versi della Pentecoste
per Fortini. Ad essi dedicherà nel 1973 uno dei suoi saggi più
sorprendenti e acuminati14.
E ancora ad essi tornerà in modo quasi esplicito in un testo poetico
memorabile come L'animale. Di nuovo si rivela dunque come sia
di tipo eminentemente conflittuale l'approssimarsi fortiniano alla
vitalità ancora inesausta di certi classici. Da Manzoni a Noventa,
un unico urticante tocco di medusa. Un'unica smorfia di salutare,
dolorosa ingratitudine.
Note