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Vicinanza dello Zapatismo
Vicinanza
dello Zapatismo1
Roberto Bugliani
«Quando
si è stati in Chiapas, non se ne esce più»
José Saramago
«Nelle terre
zapatiste non
comandano le multinazionali, né il Fmi, né
la Banca Mondiale, né l'imperialismo, né
l'impero, né i governi
dell'uno o dell'altro segno. Qui le decisioni fondamentali sono prese
dalle comunità. Non so come si chiama tutto ciò.
Noi lo chiamiamo
zapatismo». Questa dichiarazione del subcomandante insorgente
Marcos
dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (tratta dalla Velocità
del sogno, parte II,
settembre 2004) è costituita da una serie
di
enunciati che in prima istanza ribadiscono le ragioni poste dal
movimento zapatista a fondamento della sua insurrezione e consegnate al
trittico «democrazia, libertà,
giustizia» sul quale «il nuovo Messico
si fonderà, oppure non sarà»
(comunicato del 20 gennaio 1994). In
seconda istanza, la contestualizzazione geografica di tali enunciati
(«le terre zapatiste»; «qui») e
la loro articolazione politica
rimandano alla peculiare concezione del potere propria delllo
zapatismo, e configurano, a partire dalla praxis,
sia l’identità del
nuovo soggetto collettivo detentore del potere decisionale
(«le
comunità»), sia i territori in resistenza in cui
attualmente si
costruisce tale potere, ossia i cosiddetti Caracoles, municipi autonomi
chiapanechi creati nell’agosto 2003 in sostituzione dei
cinque
precedenti Aguascalientes2
e amministrati dalle Giunte di
Buon Governo
«nate per servire tutti, zapatisti e non zapatisti, e perfino
antizapatisti» (Leggere un video,
agosto 2004, parte IV). Da ultimo e
in ultimo, essi non mancano di affrontare la questione della
nominazione, quella del nome da dare a «tutto
ciò», ma nel pensiero
zapatista la necessità d’una siffatta definizione
politica non può che
restare sospesa su un piano di indeterminatezza teorica («non
so come
si chiama»), e se una risposta va opportunamente data, la sua
configurazione passa attraverso la relativizzazione del soggetto
« (noi
lo chiamiamo zapatismo»). Se intendiamo tale indeterminatezza
non già
nel senso di imprecisione o di irresolutezza, bensì come una
sorta di
principio regolatore favorente l’ampliamento del progetto
politico
partecipativo attraverso l’aperto confronto delle differenze,
essa
consente una pluralità di configurazioni relative (mentre,
operando per
approssimazioni concettuali, la sua inconfigurabilità
sostanziale ci
pare possa avere un qualche riscontro con le osservazioni lefortiane
sulla natura della democrazia3)
e ci ricorda ciò che Fidel
Castro disse
al futuro presidente venezuelano Hugo Chávez nel 1994
all'Avana: «Voi
in Venezuela la lotta per la dignità, la lotta per
l'uguaglianza la
chiamate bolivarismo. Qui la chiamiamo socialismo. Ma anche se la
chiamaste cristianesimo sarei d'accordo». Nel suo discorso di
apertura
della II Cumbre delle nazionalità indigene latinoamericane
(Quito,
20-25 luglio 2004) Humberto Cholango, allora presidente
dell'organizzazione indigena della Sierra ecuadoriana Ecuarunari,
è
ricorso allo stesso concetto allorché ha affermato:
«la nostra lotta
per una società veramente plurinazionale che ci comprenda
tutti, basata
sul consenso e la partecipazione diretta, altrove può avere
altri nomi,
come democrazia, socialismo, cristianesimo o altro».
Ora, tutte queste dichiarazioni sono concordi nel riconoscere la
similitudine e la complementarietà di fondo delle diverse
lotte per la
dignità, per la libertà, per la democrazia, per
la giustizia, per la
terra condotte dalle organizzazioni indigene e dai movimenti sociali
che all’alba del XXI secolo hanno reso l’America
Latina un laboratorio
politico di estrema importanza, e nel ritenere le
progettualità
teorico-politiche in cui tali lotte si iscrivono, vale a dire
l’involucro del nome, come variabili dipendenti dal
particolare
contesto storico-culturale che le esprime. Mentre in Europa
è venuta
meno, con la caduta di muri già lesionati da tempo e
l’implosione di
sistemi politico-economici ibridi, la progettualità
unificante
“socialismo”, nell'America centrale e meridionale
hanno invece avuto un
forte sviluppo le lotte indigene e popolari, dagli zapatisti del
Chiapas ai movimenti indigeni e meticci boliviani ed ecuadoriani, dai
Sem Terra del Brasile ai piqueteros argentini, dagli awa colombiani ai
mapuche di Cile e Argentina, che si sono ramificate in flussi crescenti
di resistenze e ribellioni, la cui caratteristica ultima, al di
là
della relatività delle singole contingenze regionali e delle
forme
politiche autoctone assunte (i “nomi”),
è l'opposizione alle politiche
economiche e ai modelli culturali imposti dal centro imperiale alla
periferia dei paesi dominati.
Un aspetto qualificante del levantamiento
zapatista, che è anche una
delle risultanze del suo idioma4,
è di aver instaurato un
dialogo
diretto, ricco di implicazioni teoriche e pratiche, con la
società
civile sia nazionale che internazionale, escludendo con risolutezza dal
suo orizzonte i partiti politici istituzionali. Nella sua forma
originaria le ragioni per cui l’insurrezione zapatista ha
individuato
nella società civile il proprio alleato naturale sono
contenute in
questa contrapposizione dialettica, anche sul piano del parallelismo
sintattico (nella quale la sintesi è la costruzione
dell’«anticamera
del nuovo Messico»; Seconda
Dichiarazione della Selva Lacandona,
12
giugno 1994), che segna il primo dei due tempi politici ad alta valenza
simbolica che qui individueremo.
«Quasi tutti i partiti e le organizzazioni politiche grandi e
piccole
del confuso spettro della sinistra messicana sono venuti, in tempi
diversi, a dirci chiaramente che essi ci hanno appoggiato, specificando
nei dettagli tempi e luoghi, quantità e qualità.
Vogliono riscuotere il
pagamento, dalla manifestazione del 12 gennaio fino a tutte le recenti
carovane con gli aiuti umanitari. Ci chiedono di appoggiarli nei loro
diversi regolamenti di conti, in cambio dell’appoggio che ci
hanno
dato. Noi non dobbiamo loro assolutamente nulla. Da soli abbiamo
cominciato, da soli combattiamo, da soli moriamo; era nostro il sangue,
e non loro, che ha illuminato il ’94.
Quasi tutti i senza-partito e senza organizzazione politica, grandi e
piccoli, del confuso spettro della società civile sono
venuti, in tempi
diversi, a dirci chiaramente che non dobbiamo loro nulla, che sono loro
a doverci tutto, che non siamo soli, e di cos’altro abbiamo
bisogno. A
loro dobbiamo tutto, per loro abbiamo cominciato, per loro combattiamo,
per loro moriamo; era nostro il sangue, e anche il loro, che ha
illuminato il ‘94» (La
possente nave
dei senza-partito, la nave di
Aguascalientes, 3 agosto
1994).
A partire dalla fine del XX secolo, il
movimento zapatista ha contribuito, congiuntamente ad altri fattori a
esso esterni, ad avviare un processo di ri-politicizzazione della
società civile (messicana non meno che internazionale), per
dirla nei
termini di Miguel Abensour, il quale, in La Démocratie
contre l’État5,
avanza l’esigenza di una revisione critica della nozione di
società
civile, dopo la storicizzazione hegeliana («la
società civile è
borghese») e in funzione del «riconoscimento del
[suo] significato
politico»6.
La ri-politicizzazione della società civile
comporta anche
la ridefinizione, da un lato, della sua natura e delle sue
caratteristiche, e dall’altro del tipo di rapporto, segnato
da una
crescente conflittualità, tra questo attore composito e
plurale e la
società politica che si identifica con il sistema partitico
istituzionale. Come ha scritto il sociologo e fondatore della
«Universidad de la tierra» di Oaxaca Gustavo
Esteva, «la storia teorica
e politica dell’espressione “società
civile” è molto complessa e
intricata. Negli ultimi venti anni la gente ha abbandonato la
tradizione accademica e politica che aveva segnato questa espressione
per due secoli e ha ridefinito il suo senso e il suo impiego. [Oggi
l’attore non convenzionale “società
civile”] esprime sempre più
l’azione autonoma della gente a partire dalla base sociale
che non
soltanto si differenzia dal capitale e dai suoi amministratori statali,
ma che si contrappone a essi. Diversamente dalla tradizione marxista
[...] la “società civile” mantiene
l’orizzontalità dei diversi che si
definiscono per la loro resistenza e non esige dichiarazioni di fede.
In Messico, l’azione dei dannificati dal terremoto del 1985 e
l’insurrezione zapatista sono stati i momenti-chiave che
hanno dato
nuovo contenuto e nuove prospettive all’impiego
dell’espressione, il
cui significato è oggi una nuova forma di resistenza sociale
e di
organizzazione politica»7.
Secondo l’analista Onesimo
Hidalgo, in
Messico, e a partire dai due «momenti-chiave»
individuati da Esteva, la
società civile è andata progressivamente
occupando «lo spazio in cui
avvengono tutte le battaglie politiche»8.
Fino al punto che,
scrive il
direttore della rivista “Rebeldía”
Sergio Rodríguez Lascano, «fu
possibile fare politica senza bisogno di essere affiliato a un partito
politico o a un’istituzione dello Stato»9.
Con la crisi
della
rappresentanza politica «paradossalmente la sfera del
politico si
amplia, radicandosi nel seno della società
civile», osserva Hernán
Ouviña10,
ed è per l’appunto siffatto ampliamento della
sfera del
politico e l’emergenza in esso di settori eterogenei della
società
civile quali, secondo la caratterizzazione zapatista, «i
cittadini
senza partito, le organizzazioni sociali e politiche, i comitati civili
di dialogo, i movimenti e i gruppi», a rendere possibile
l’acquisizione
e l’estensione di una coscienza sociale caratterizzata,
scrive sempre
Rodríguez Lascano, da «nuove forme di comprensione
della realtà» da
parte di «un movimento senza avanguardia, che però
agisce come una
avanguardia che aiuta a dinamizzare nuovi movimenti sociali»11.
Un
movimento che, prosegue Rodríguez Lascano, «senza
essere politico alle
sue origini, si è trasformato nel più politico
esistente oggi nel
nostro paese»12.
Per proseguire nella disamina di ciò che
abbiamo prima
definito i due tempi dell’azione politica
“formativa” esercitata
dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) sulla
“nebulosa” società civile, diciamo che
nel suo aspetto maturo la
ri-politicizzazione di quest’ultima, che nei suoi termini
“pratici”
concerne la riconfigurazione del rapporto solidario tra zapatismo e
società civile, è riassumibile in quello che il
subcomandante Marcos ha
chiamato «la sindrome di Cenerentola»,
esemplificandolo con l’aneddoto
della scarpetta rosa.
«Adesso dal baule dei ricordi tiro fuori estratti
di una lettera che ho scritto più di 9 anni fa a quelli
della società
civile che giungono nelle comunità: “Noi non vi
rimproveriamo nulla,
sappiamo che rischiate molto per venirci a trovare e portare aiuti
umanitari ai civili di questa parte. Ciò che ci addolora non
è la
nostra carenza, è vedere in altri quello che gli altri non
vedono, la
stessa orfanità di libertà e democrazia, la
stessa mancanza di
giustizia” [...] Dei benefci che la nostra gente ha tratto da
questa
guerra, conservo un esempio di ‘aiuto umanitario”
per gli indigeni
chiapanechi, arrivato alcune settimane or sono: una scarpetta
d’importazione col tacco alto di color rosa, del numero 6 e
mezzo,
senza l’altro paio. La porto sempre nel mio zaino, tra
interviste,
fotografie, reportages
e
presunte attrazioni sessuali, per ricordare a
me stesso ciò che siamo per il paese dopo il 1°
gennaio: una
cenerentola [...] Questa brava gente che con sincerità ci
manda una
scarpetta rosa d’importazione col tacco alto, del numero 6 e
mezzo,
senza l’altro paio, pensando che, siccome siamo poveri,
dobbiamo
accettare qualunque cosa, carità ed elemosina. Come dire a
tutta questa
brava gente di no, che non vogliamo più continuare a vivere
la vergogna
del Messico? [...] No, non vogliamo più vivere
così.
Questo successe
nell’aprile del ’94. Allora pensavamo che fosse
questione di tempo, che
la gente avrebbe capito che gli indigeni zapatisti avevano
dignità e
che non cercavano l’elemosina bensì il rispetto.
L’altra scarpetta rosa
non è mai arrivata e il paio è rimasto
incompleto, e negli
‘Aguascalientes’ si accumulano computer inutili,
medicinali scaduti,
indumenti stravaganti che non sono buoni nemmeno per le
rappresentazioni teatrali e, certo, scarpe spaiate. E continuano ad
arrivare cose di questo tipo, come se quella gente dicesse:
“poverini,
sono molto bisognosi, perciò gli possono servire qualsiasi
genere di
cose, e a me questo avanza”.
Non solo, ma esiste anche una elemosina più sofisticata.
E’ quella
praticata da alcune Ong e da organismi internazionali. Consiste, grosso
modo, nel fatto che costoro decidono di che cosa hanno bisogno le
comunità e senza consultare nessuno impongono non soltanto
determinati
progetti, ma anche i tempi e i modi della loro realizzazione.
Immaginatevi la disperazione di una comunità che ha bisogno
di acqua
potabile e invece le affibbiano una biblioteca, che necessita una
scuola per bambini e invece le propinano un corso di
erboristeria» (La
tredicesima Stele, parte II,
25 luglio 2003).
In queste parole del vocero
dell’Ezln non c’è solo la critica degli
errori in ambito di «aiuti umanitar»i commessi da
formazioni delle
società civili nei loro incontri con le comunità
zapatiste del Chiapas.
Né vengono qui denunciati unicamente gli sbagli commmessi da
alcune
carovane di solidarietà nel calcolare le effettive
necessità materiali
di quelle comunità. C’è molto di
più. C’è il fatto che
l’incomprensione
radicale del tipo e della qualità dell’appoggio
solidario proviene da
una lettura politica errata
dello zapatismo o quantomeno viziata dal
modo di pensare eurocentrico. Difatti, prosegue il documento:
«Chi
appoggia una o varie comunità zapatiste non sta solo
appoggiando il
miglioramento della situzione materiale di un collettivo, sta
appogiando un progetto molto più semplice, ma più
impegnativo: la
costruzione di un mondo nuovo, un mondo che comprende molti mondi, in
cui le elemosine e le compassioni per l’altro appartengono ai
romanzi
di fantascienza... o a un passato dimenticabile e prescindibile [...]
L’appoggio che chiediamo è per la costruzione di
una piccola parte di
un mondo che contenga tutti i mondi. E’, dunque, un appoggio
politico,
non una elemosina».
Il superamento della «sindrome di Cenerentola» che
ha contagiato alcuni
settori delle società civili messicana e internazionale,
auspicata
dagli zapatisti in concomitanza con la morte degli Aguascalientes e la
loro trasformazione nei Caracoles, è dunque parte integrante
della
complessiva ri-politicizzazione in atto della società civile
mediante
le modalità della critica degli errori politici e
dell’autocritica per
aver permesso tali errori, entrambe espresse dalla Tredicesima Stele
in
un momento importante ma delicato della storia dell’Ezln
quale è stato
per l’appunto la nascita dei cinque Caracoles e delle Giunte
di Buon
Governo.
Un’altra esemplificazione di siffatta ri-politicizzazione
(sia ben
chiaro, il termine non ha significato impositivo o coercitivo: non
è
nei cromosomi zapatisti proporre “modelli”
chiapanechi, da loro stessi
definiti più volte inesportabili)
è individuabile in ciò che l’Ezln ha
chiamato «la Otra Campaňa» (l’Altra
Campagna), la cui esposizione
richiede un breve excursus.
Resa nota il 1° luglio 2005 dopo che l’Ezln
aveva effettuato una consultazione interna, la Sesta dichiarazione
della Selva Lacandona
è un documento di notevole spessore
teorico e di
forte impatto politico, col quale gli zapatisti annunciano di voler
intraprendere una «nuova iniziativa politica»
sviluppando e articolando
la lotta contro il neoliberismo capitalista su un duplice livello:
nazionale e internazionale, perché, scrivono,
«è arrivata l’ora di
rischiare un’altra volta e di fare un passo pericoloso, ma
che ne vale
la pena». Al termine del bilancio degli ultimi undici anni di
storia
dell’Ezln che occupa la prima parte della VI Dichiarazione
(«Ciò che
siamo» e «Dove siamo adesso»), gli
zapastisti fanno sapere che «siamo
arrivati a un punto in cui non possiamo andare oltre», per
cui «un
nuovo passo nella lotta indigena è possibile solo se
l’indigeno si
unisce ai lavoratori della città e della
campagna». L’appello a
costruire sul piano nazionale un «fronte ampio»,
frutto dell’«accordo
con persone e organizzazioni di sinistra, perché pensiamo
che esista
solo nella sinistra politica l’idea di resistere contro la
globalizzazione neoliberista e di costruire un paese in cui vi siano
per tutti giustizia, democrazia e libertà», non
è nuovo a livello
strategico, ma nella VI Dichiarazione viene rilanciato con forza
proprio nel momento in cui gli zapatisti parevano concentrati
unicamente a realizzare le loro forme di autonomia, e dunque
“ripiegati” a consolidare amministrativamente i
territori da loro
conquistati, applicando unilateralmente gli Accordi di San
Andrés sulla
cultura e i costumi indigeni sanciti nel febbraio 1996 durante il
dialogo di pace condotto dalla commissione dell’Ezln e da
quella
governativa, ma mai riconosciuti dai governi federali messicani da
allora succedutisi.
Sul piano della proposta politica, la
Sesta Dichiarazione parrebbe
riprendere motivi già presenti nella Prima
Dichiarazione della Selva
Lacandona del gennaio 1994,
nella quale lo Ya basta!
zapatista invitava
il popolo messicano a ribellarsi per abbattere il malgoverno centrale e
costituire un governo libero e democratico. Ma, oltre alla scomparsa
nella Sesta
Dichiarazione
dell’impostazione fortemente militarista
presente nella Prima,
nella
quale l’Ezln dichiarava guerra all’esercito
messicano e lanciava la consegna di avanzare in direzione della
capitale del paese, la novità della Sesta
Dichiarazione consiste da un
lato nel diverso contesto politico nazionale e internazionale in cui
è
maturata e con cui si è misurata nel fornire strumenti di
analisi
teorica e indicazioni pratiche in un’ottica esclusivamente
civile13
della resistenza e della lotta, e dall’altro nella
volontà zapatista di
rimettersi in gioco in modo radicale dopo i risultati positivi ottenuti
nella costruzione dell’autonomia. A differenza, dunque, della
Prima
Dichiarazione, in cui la
prospettiva di lotta politica (in quel
caso di
tipo insurrezionale) era costretta entro i confini nazionali, nella
Sesta
il livello della lotta
politica nazionale viene costantemente
articolato e raffrontato con quello internazionale, mentre la stessa
analisi storica e politico-economica dell’attuale congiuntura
mondiale
si presenta più approfondita e adotta una terminologia
più adeguata,
anche nell’impiego di parole come globalizzazione e
neoliberismo: «Il
neoliberismo è la teoria, il progetto della globalizzazione
capitalista» (parte III, «Come vediamo il
mondo»), a cui il documento
ricorre per interpretare la fase attuale del dominio capitalistico
mondiale.
Ora, la svolta zapatista annunciata dalla Sesta Dichiarazione
e proseguita dall’”Altra Campagna”
è iniziata a ridosso delle elezioni
presidenziali messicane tenute nel 2006 e si è svolta
parallelemente
alle campagne elettorali dei principali partiti politici: il Partito
rivoluzionario istituzionale (Pri), che fino al 2001 aveva governato il
Messico instaurando per oltre settant’anni una
«dittatura perfetta»; il
Partito di azione nazionale (Pan), di orientamento conservatore, che
aveva candidato Felipe Calderón a sostituire il presidente
uscente
panista Vicente Fox, il quale con la sua storica vittoria del 2001
aveva risvegliato le speranze di molti messicani che vedevano in lui
un’opportunità di rinnovamento che mai si
concretizzò; infine il
Partito rivoluzionario democratico (Prd), di centro-sinistra, il cui
candidato, Andrés Manuel López Obrador, ex
sindaco di Città del
Messico, è stato uno dei fondatori dello stesso Prd.
Con il nome di
Delegato Zero, perché, spiegano gli zapastisti,
«uno Zero, a sinistra,
per il mondo dei potenti, non vale niente, e questo vogliamo essere,
per cui abbiamo nominato il Sub delegato per essere uno zero in basso e
a sinistra», il subcomandante Marcos, assieme ad altri
comandanti
dell’Ezln, ha percorso in varie tappe e fasi, tra il 2006 e
il 2007,
tutti i 32 stati della Confederazione messicana, incontrando
organizzazioni indigene e meticce, gruppi di base, collettivi
universitari e artistici e attivisti sociali, ossia tutti coloro che
avevano deciso di partecipare agli incontri raccontando agli zapatisti
il mosaico di lotte, ribellioni e resistenze di cui si compone la
situazione odierna del Messico profondo.
Proprio in quanto diversa e autonoma rispetto alla campagna elettorale
condotta dai partiti messicani, l’”Altra
Campagna” ha posto al centro
della sua prassi politica l’ascolto.
«La Commissione della Sesta
[Dichiarazione] ascolterà e così
imparerà; conoscerà e valuterà la
reale situazione del paese. Al contrario di quello che fanno i
candidati dei partiti che si trascinano dietro un mucchio di gente
prezzolata e fanno discorsi demagogici, promesse che tutti sanno non si
realizzeranno mai, il subcomandante Marcos ascolterà
soltanto. Questo è
un altro modo di fare politica», è espressamente
annunciato nel
comunicato di presentazione dell’”Altra
Campagna” (2005).
Contemporaneamente, prendendo posizione in merito alla campagna
elettorale ufficiale, gli zapastisti non hanno lesinato critiche
circostanziate anche molto dure al candidato della sinistra
istituzionale Andrés Manuel López Obrador in
quanto rappresentante di
un partito di sinistra colpevole di aver firmato nel 2001, assieme al
Pan e al Pri, la cosiddetta «legge indigena», che
ha snaturato gli
Accordi di San Andrés dando il colpo di grazia al dialogo
tra governo
ed Ezln, e accusato di perseguitare, nei municipi chiapanechi dove
è al
potere, le comunità indigene zapatiste, in ciò
non differenziandosi
minimamente dal Pri e dal Pan. «Quando ci riferiamo ai
birboni e agli
svergognati che sono nel Prd, parliamo e parleremo di coloro che hanno
sequestrato il partito, di coloro a cui non importano le idee
né i
principi, che utilizzano il Prd per interessi personali», ha
precisato
Marcos nella lettera dell’8 agosto 2005 indirizzata a Benito
Rojas
Guerrero, un lettore che aveva espresso la sua dissidenza verso
l’”Altra Campagna” sulle pagine del
quotidiano La
Jornada. Non senza
aggiungere: «Sono questi birboni e svergognati che dirigono
il Prd e
circondano López Obrador. E sono loro i responsabili della
nostra
situazione attuale, perché, oltre quanto da Lei segnalato,
noi
aggiungiamo le aggressioni che hanno promosso contro di noi».
Malgrado
Marcos abbia più volte chiarito che
l’”Altra Campagna” non promuove
l’astensionismo, bensì l’uso della
ragione e il dialogo tra le diverse
opzioni politiche della società civile, le accuse zapatiste
contro
López Obrador hanno innescato una serie di prese di
posizione, di
polemiche e di attacchi all’”Altra
Campagna” da parte di intellettuali
vicini al Prd che sono scesi in campo dichiarando il loro appoggio al
candidato presidenziale della sinistra istituzionale in nome della
politica del meno peggio. Intervenendo in proposito, in un articolo
apparso sulla Jornada
del 16
agosto 2005, Marco Rascón ha osservato:
«L’appello a votare per il “meno
peggio” è in fondo un cedimento e una
posizione cinica di abbandono delle proprie convinzioni. E’
un atto di
complicità con coloro che sostengono che per giungere al
potere (che è
così vicino) bisogna spogliarsi dei principi e delle
convinzioni, ossia
cessare di essere. Il trionfo del meno peggio sarà possibile
soltanto
se si smette di lottare per il meglio». E in un articolo
sucessivo
l’analista politico Carlos Fazio ha fatto notare, in
riferimento a un
presunto governo popolare che si sarebbe delineato con la vittoria di
López Obrador: «Non può esserci governo
popolare se l’appoggio non
viene strutturato dal basso. Se cioè non ci si appoggia alla
gente e
non si dà alla gente alcuna possibilità di
rendere effettivo tale
appoggio. Si tratterebbe dunque di completare tutto ciò con
l’altra
campagna dell’Ezln,
nella prospettiva di un altro progetto di
Nazione,
della rifondazione del Messico e di un altro modo di far
politica» (La
Jornada, 29 agosto 2005).
La vittoria per solo mezzo punto percentuale del candidato del Pan,
Felipe Calderón, su López Obrador avvenuta il
1° luglio 2006 - vittoria
ottenuta in sospetto di brogli elettorali, dagli zapastisti denunciati
nel corso di un’intervista concessa da Marcos a Radio
Insurgente il 4
luglio: «Noi non c’entriamo con l’agone
elettorale, ma per una
questione etica e morale, come zapatisti, se vediamo qualcosa di mal
fatto dobbiamo dirlo, e quello che vediamo è che
là in alto hanno
compiuto una frode elettorale» -, e dal candidato del Prd mai
riconosciuta (in risposta López Obrador si è
proclamato «presidente
legittimo» e ha dato vita a un movimento di protesta e di
lotta e a una
sorta di governo-ombra parallelo a quello di Calderón), ha
favorito il
manifestarsi e l’acuirsi di contraddizioni che erano latenti
nella
società civile messicana relative al tipo di democrazia da
perseguire e
al programma politico da condividere.
Se la posizione di netta estraneità
all’«agone elettorale» assunta
dall’“Altra Campagna” ha implicato, da un
lato, la perdita di consensi
da parte di un certo numero di esponenti della società
civile messicana
appartenenti al ceto intellettuale (del resto, già nelle
precedenti
elezioni presidenziali del luglio 2000, dove in gioco era la nefasta
permanenza al potere del Pri, il partito-Stato, gli zapatisti avevano
espresso in modo netto la loro posizione dichiarando: «Questa
non è la
nostra ora»), dall’altro si tratta di una perdita
fisiologica di
consenso in quanto la ri-politicizzazione della società
civile non è
affatto un processo indolore né un va-da-sé senza
ricadute in negativo.
L’”Altra Campagna”, insomma, ha esibito
indubbie valenze di novità, ma
all’interno della continuità di un discorso
politico radicalmente altro
com’è quello zapatista: « Come Emiliano
Zapata davanti alla poltrona
presidenziale continueremo a dare le spalle al Palazzo
Nazionale». E
nel far ciò «continueremo a guardare verso il
basso, verso i movimenti
e le tendenze di resistenza e di costruzione di alternative».
Perché se
«le elezioni passano, i governi passano, la resistenza resta
così
com’è, un’alternativa in più
per l’umanità», si legge in La velocità
del sogno (parte II).
Le ragioni teoriche e le modalità pratiche che
hanno guidato l’orientamento politico zapatista nel percorso
che il
Delegato Zero ha compiuto riunendosi con i movimenti di lotta di tutti
gli stati messicani sono state quelle riassunte già da tempo
nel
«camminare domandando» e nel «comandare
obbedendo», riproponendosi
nello specifico attraverso l’ascolto di ciò che
gli zapatisti chiamano
«il fiore della parola», perché il
progetto stesso della democrazia
partecipativa è indissociabile, per dire con
Crépon, «da un ascolto a
monte delle [...] eruzioni (proteste, manifestazioni) » della
parola,
in quanto il «potere dei senza potere» è
«essenzialmente quello della
parola – di una parola alla quale il modello della democrazia
di
equilibrio ha reso, col passare del tempo, le élites
politiche sempre
più sorde»14.
In altri termini, prosegue Crépon, «la
democrazia sarà
partecipativa a condizione di sostituire alla rappresentazione della
parola
la condivisione
dell’idioma»15,
ossia, come dicono
per loro
conto gli zapastisti della Sesta
Dichiarazione, si tratta di
«mettere
d’accordo le nostre lotte che adesso sono sole, separate le
une dalle
altre, e [di trovare] qualcosa come un programma che contenga quello
che vogliamo tutti e un piano per riuscire a far sì che
questo
programma, che si chiama “programma nazionale di
lotta”, si realizzi».
Beninteso, tanto la «condivisione
dell’idioma» quanto la realizzazione
del «programma di lotta» sono possibili mediante
una preliminare
operazione di intermediazione comunicativa (che per gli zapastisti
è
all’ordine del giorno in quanto in uno stesso comunicato
l’Ezln suole
rivolgersi contemporaneamente alle comunità indigene, alla
società
civile nazionale e a quella internazionale) al fine di inquadrare in
uno spazio semantico comune taluni concetti-chiave come quello di
democrazia, talmente intriso di significati politici e culturali propri
della civiltà occidentale da avere poco a che fare con il
pensiero
indigeno16.
A questo proposito l’ecuadoriano Luis Macas, uno
dei
fondatori della Confederazione indigena Conaie, ha detto in un suo
intervento alla II Cumbre delle nazionalità indigene di
Quito: «nelle
comunità esiste il sistema del consenso, che non
è necessariamente la
democrazia in quanto concetto “occidentale”. Per
cui quando parliamo di
forma democratica partecipativa come elemento che regola i rapporti
interindividuali basato sul sistema del consenso assembleare delle
comunità indigene, è un'espressione di
approssimazione politica con cui
cerchiamo di tradurre in termini occidentali la struttura
socio-politica e organizzativa delle comunità
indigene». Ed è appunto
allo scopo di comunicare il più chiaramente possibile
traducendo il
loro pensiero in un linguaggio che tutti, indigeni, meticci,
società
politiche e civili, possano intendere, che gli zapastisti ricorrono
spesso a termini che, almeno secondo i canoni politici occidentali,
sono considerati “semplici” o
“primitivi” (il potere, il potente, il
denaro, il malgoverno, le Giunte di Buon Governo, ecc.), ma
è per
l’appunto la loro modalità espressiva, nella
misura in cui privilegia
un discorso a spiccata valenza simbolica e allegorica, a conferire
valore universale alla loro parola, dacché tali procedure
espressive
hanno costituito il primigenio affresco comunicativo
dell’umanità.
Avviandoci verso la conclusione, diciamo che la critica della
democrazia come spazio colonizzato e piegato interamente agli interessi
di potere della classe politica, funzionante a prezzo di riduzioni e
distorsioni apparentemente contingenti ma in realtà iscritte
«nell’idea
stessa del progetto democratico», per dire con Slavoj Žižek17,
è stato
l’elemento di congiunzione, il ponte su cui si sono
incontrati il
movimento zapatista messicano e i nuovi movimenti antineoliberisti e
anticapitalisti europei. Ma gli zapatisti, da «perversi
scommettitori
dell’impossibile» (La
mela di Newton,
maggio 1996), hanno compiuto quel
passo ulteriore e radicale la cui realizzazione in ambito della praxis
politica europea Žižek pone come opzione a venire, come scelta tra due
scenari: «o si accetta e si sottoscrive questa corruzione
[dell’ordine
politico democratico] in nome di un rassegnato realismo, oppure
si
possiede abbastanza coraggio da formulare un’alternativa di sinistra
alla democrazia»18.
Detto per inciso, questo
«coraggio»,
frutto, scrive
sempre Žižek, della combinazione di volontarismo quale
«atteggiamento
attivo di presa del rischio» e di «più
profondo fatalismo»19,
non è
facilmente rintracciabile nei nuovi movimenti del cosiddetto Primo
Mondo, in quanto, se ci riferiamo alla radiografia fatta da
Hernán
Ouviña nel saggio citato Zapatistas,
piqueteros, Sem Terra,
vediamo
come tali movimenti siano «composti da uomini e donne nella
maggioranza
giovani, di buona posizione economica (nuova classe media, vecchia o
tradizionale classe media e in misura minore settori periferici al
mercato del lavoro), con un alto livello di educazione e la perdita di
alcuni benefici dello stato sociale», mentre in America
Latina «buona
parte delle lotte attuali sono animate da movimenti costituiti da
esclusi – siano essi disoccupati, indigeni o lavoratori
rurali – con
scarso o nullo livello educativo». Inoltre, molti dei
movimenti europei
si sono trasformati «in organizzazioni le cui azioni tendono
a
consolidare uno spazio di negoziato e di trasformazione sociale nel
seno dello Stato stesso”, ossia, si potrebbe anche dire, essi
praticano
il conflitto all’interno dello Stato democratico,
considerando il
conflitto stesso nient’altro che uno strumento di mediazione;
al
contrario, in America Latina «lo zapatismo, i Sem Terra e i
piqueteros
non paiono centrare le loro azioni su una vocazione di
governo».
In
attesa, dunque, del «coraggio» auspicato da Žižek,
ovvero della praxis
politica nel centro dell’Impero, la sua odierna mancanza non
ci
impedisce tuttavia di lavorare sulla praxis
teorica, e ritornare
pertanto alla questione della nomin-azione, accennata
all’inizio del
nostro intervento. Per cui, se la nostra democrazia attuale
è bloccata,
conservatrice, autoritaria, escludente, «perché
non tentare un altro
nome, perché non proporre a coloro che continuano a
interrogarsi sulla
vera democrazia il nome di democrazia
insorgente?»20.
Nel
documento Il
mondo: Sette pensieri nel
maggio 2003 il subcomandante Marcos
pare
rispondere a una proposta del genere intesa a ri-orientare il nome (la
teoria) democrazia attraverso le dinamiche delle lotte che sorgono dal
basso, ricordando (e con un tono vagamente althuserriano che fa gioco
al suo dire) che per gli zapatisti «la Teoria»,
ovvero il primo dei
sette pensieri, riguarda in primo luogo il problema degli
«effetti di
una teoria su una pratica e il “rimbalzo” teorico
di quest’ultima», e,
in secondo luogo, l’identità sociale, ovvero
«chi produce questa
teoria» Dopo aver così delimitato il campo della
teoria, Marcos ne
conclude che «le risposte alle domande sullo zapatismo non si
trovano
nelle nostre riflessioni teoriche, ma nella nostra pratica»,
alla quale
la parola zapatista vuole essere conseguente
e, proprio per questo, non
pragmatica (essendo il
pragmatismo una «pratica senza teoria né
principi»). Pertanto, se la metateoria è
«la riflessione teorica sulla
teoria», Marcos ne conclude che «la Metateoria
degli zapatisti è la
nostra pratica».
«La ribellione del Chiapas è qualcosa di
più di un caso di studio che
prova una certa teoria», ha osservato giustamente Mihalis
Mentinis,
sostenendo che nessun approccio teorico già
belll’e pronto è in grado
di «cogliere la totalità
dell’insurrezione zapatista»21.
Per
contro,
gli zapastisti stessi non hanno mai accreditato l’idea che il
loro
“modello”, ivi compresa la loro pratica di
democrazia diretta fondata
sul consenso assembleare, sia esportabile e possa a sua volta fornire
alle società civili internazionali un approccio teorico
pre-confezionato a temi cruciali quali la democrazia, il potere, la
ribellione, supplendo così alla loro insufficienza di
elaborazione
teorica in relazione alla novità di fase costituita dalla
forma attuale
assunta dal capitalismo mondiale. Il che non significa che il loro
pensiero e il loro agire siano da ritenere aprioristicamente non
pertinenti. Semmai crediamo che la “lezione”
zapatista - o, per meglio
dire, l’elemento di rottura che il rapporto tra pratica
zapatista (la
«metateoria») e politica ha introdotto nel concetto
di democrazia
inerente al modello liberal-parlamentare -, possa valere in modo
effettivo da catalizzatore per l’elaborazione di nuovi e
peculiari
strumenti teorici da parte delle società civili europee.
Altrimenti
detto, la posta in gioco è l’individuazione di un
comune punto di
partenza nell’affrontare l’ordito democrazia che
«è oggi il principale
organizzatore del consenso»22.
Nella loro estensione
orizontale, i fili
di questo ordito intrecciano dei principi globali, uno dei quali
è ciò
che Alain Badiou ha chiamato «il principio
dell’omogeneo» che
«garantisce il conservatorismo
del voto, incarnato dall’alternanza»23
e
da cui gli zapatisti, nella loro pratica politica matura, espressa,
come abbiamo visto, dall’”Altra
Campagna”, hanno preso le distanze,
contrapponendovi l’alterità della loro prassi
politica, la quale ci
pare corrispondere a quanto Badiou per suo conto ha definito come
«vero
eterogeneo» che« esprime un’altra idea
della politica, ad esempio
quella d’una politica di emancipazione, una politica decisa
dalla gente
comune e non dai detentori delle poltrone di Stato, una politica
incurante delle elezioni»24.
Vogliamo concludere questa riflessione sullo zapatismo, inevitabilmente
provvisoria e tributaria di un ascolto europeo, ricordando la nascita
al mondo dell’Ezln in quel 1°gennaio 1994 quando, in
un luogo marginale
della geografia mondiale e in una terra abitata da indigeni invisibili
e prescindibili25,
si è prodotto un evento paradossale e
anacronistico26:
l’affermazione di una insurrezione armata
ritenuta
impossibile nell’allora congiuntura storica, che ha prodotto
una
rottura reale nel pensiero politico e una discontinutà nel
corso della
storia (messicana, ma non solo). E a sedici anni di distanza la
fedeltà
all’evento dimostrata dalle comunità ribelli
zapastiste è ciò che fa
questione. «Nelle terre zapatiste», ma nondimeno (o
tanto più) in
quelle europee. Perché c’è una
disciplina, o una pratica, da
interrogare. Ossia: Hic Rhodus, hic
salta.
note
1. In questo articolo daremo per acquisita la cronologia relativa alla nascita dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (1983) e all’affermarsi dell’insurrezione zapatista nello stato messicano del Chiapas a partire dal 1° gennaio 1994, data in cui l’occupazione armata di quattro municipi tra i più importanti del Chiapas da parte dell’Ezln fece emergere dal panorama politico e sociale latinoamericano non meno che mondiale un soggetto a lungo escluso: l’indigeno, con buona pace delle teorie di «finis historiae» allora in auge a seguito della fine del bipolarismo Usa-Urss e dell’avvento del nuovo ordine mondiale monopolare.
2. Prima della nascita dei Caracoles, gli Aguascalientes erano gli spazi destinati all’incontro tra gli zapatisti e le società civili, costituiti all’interno dei Municipi autonomi ribelli zapatisti (Marz)
3. «La caratteristica rivoluzionaria della democrazia», sostiene Claude Lefort, è che il potere non è appannaggio di nessuno, né dello Stato, né del popolo, né delle rappresentanze politiche, per cui «il luogo del potere si rivela inconfigurabile» e «il suo esercizio è sottoposto a una procedura di rimessa in gioco periodica» (C. Lefort, Essais sur le politique, XIXe-XXe siècle, Éditions du Seuil, Paris 1986, pp. 26-7).
4. Intendiamo questo termine nel senso conferitogli da Marc Crépon nel saggio La démocratie en défaut (in M. Crépon e B. Stiegler, De la démocratie participative. Fondements et limites, Éditions Fayard, Mille et une nuits, Paris 2007): «questa parola significa lo scarto, la devianza o più semplicemente la differenza rispetto a ogni formattazione della parola e del pensiero operata dalla lingua comune» (p. 55).
5. Paris, Éditions du Fèlin 2004, p. 14.Paris, Éditions du Fèlin 2004, p. 14.
6. Ivi., p. 15.
7. G. Esteva, Appendice in: Elogio dello zapatismo, Lucca Libri Edizioni, Quaderni della Fondazione Neno Zanchetta, Lucca 2005, p. 32.
8. O. Hidalgo Dominguez, Reflexiones sobre la sociedad civil y el proceso de paz en Chiapas, parte I, in Bollettino elettronico "Chiapas al Día" n. 410, 4 maggio 2004.
9. S. Rodríguez Lascano, Lo nuevo, lo verdaderamente nuevo, articolo apparso sulla rivista messicana “Rebeldía”, n.72, agosto 2010, a p. 9 della edizione web: http://revistarebeldia.org
10. H. Ouviňa, Zapatistas, piqueteros y Sem Terra. Nuevas radicalidades políticas en América Latina, “Cuadernos del Sur” n. 37, Buenos Aires 2004.
11. S. Rodríguez Lascano, Lo nuevo, lo verdaderamente nuevo, cit., p. 12.
12. Ivi, p. 13.
13. «Ci siamo anche accorti che l'Ezln, con la sua parte politico-militare si intrometteva nelle decisioni che spettavano alle autorità democratiche, come si dice "civili". Il problema è che la parte politico-militare dell'Ezln non è democratica, perché è un esercito, ed abbiamo visto che non è un bene che la parte militare stia sopra e la parte democratica sotto [...] allora, per risolvere questo problema abbiamo cominciato a separare la parte politico-militare dalle forme di organizzazione autonome e democratiche delle comunità zapatiste. Così, azioni e decisioni che prima faceva e prendeva l'Ezln, a poco a poco sono state passate alle autorità democraticamente elette nelle comunità» (Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, parte II, «Dove siamo adesso»).
14. M. Crépon, La démocratie en défaut, cit.., p. 48.
15. Ivi, pp. 55-6.
16. «La parola “democrazia” [...] nomina mondialmente il sistema detto anche “occidentale”, vale a dire la civiltà di cui l’esercito americano e i mercenari israeliani sono, come è noto, il baluardo». A. Badiou, Circostances, 1. Kosovo, 11 septembre, Chirac/Le Pen, Éditions Lignes – Léo Scheer, Paris 2003, p. 28.
17. S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi Editore 2002, p. 84.
18. Ibid.
19. Ivi, p. 85.
20. M. Abensour, La Démocratie contre l’État, cit., p. 9.M. Abensour, La Démocratie contre l’État, cit., p. 9.
21. M. Mentinis, Zapatistas, The Chiapas Revolt and What It Means for Radical Politics, Pluto Press, London 2006, p. 10. Cit. da R. van de Wiel, Fidelity to the Radically New. Zapatista, Deleuze, Badiou, in http://www.raymondvandewiel.org/zapatista.pdf
22. A. Badiou, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001, p. 93.
23. Id., Circonstances, 1, cit., pp. 18-9.
24. Ivi, p. 31.
25. «Guardate come vanno le cose: perché ci vedessero, ci siamo coperti il volto, perché ci nominassero ci siamo negati il nome, abbiamo scommesso sul presente per avere un futuro, e per vivere... moriamo» (Subcomandante Marcos, Il fiore perduto, comunicato del 17 marzo 1995).
26.
«Il paradosso anacronistico, la dolce pazzia dei senza
volto» (Discorso del
Subcomandante Marcos alla
Convenzione Nazionale Democratica,
8 agosto 1994).
[24settembre 2009]
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