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Sul Tibet e sui motivi della propaganda filo tibetana
Edoarda Masi
Il pubblico è oggi sottoposto a un vero bombardamento di notizie sul Tibet da parte dei giornali e di tutti i media. Non è però in grado di valutarne la portata e la correttezza, data l’ignoranza generale sulla storia di quel piccolo popolo in una terra estranea.
A chi vi è interessato andrebbe perciò consigliata la lettura di alcune opere storiche, per le pagine relative appunto al Tibet, a cominciare, di René Grousset, dalla
Histoire de la Chine, Paris, Payot, 1994, e dalla Histoire de l’Asie, Paris, PUF, 1966; di Wolfram Eberhard,
Histoire de la Chine, Paris, Payot, 1952; di Jacques Gernet, Il mondo cinese, Torino, Einaudi, 1978; di E.O. Reischauer e K. Fairbank,
Storia dell’Asia orientale, Torino, Einaudi, 1974.
Ci sarebbe poi un utile opuscolo di Joseph Marchisio, Histoire du Tibet, che riassume la storia dei tibetani, ma purtroppo non è stato ancora pubblicato.
Io posso limitarmi qui a dare un accenno di traccia storica; posso indicare quali sono il carattere e i motivi dei discorsi attualmente diffusi a proposito del Tibet; e quali sono i metodi adottati per conquistare il consenso della pubblica opinione.
Fino agli albori dell’era moderna le regioni dell’Asia centrale, popolate in prevalenza da nomadi allevatori di diversa origine e lingua, hanno fatto da tramite fra la parte orientale e quella occidentale del grande continente euroasiatico. In alcune di esse si sono raggiunti alti livelli culturali, e si sono anche creati veri e propri imperi, fra cui il più vasto e famoso è quello mongolo. Ma si è trattato sempre di costruzioni infine fragili e di durata relativamente breve, senza le solide radici dei grandi stati fondati dai popoli stanziali coltivatori, come i cinesi o i romani; la storia dei popoli europei che è seguita a questi ultimi è approdata alla fondazione degli stati nazionali, che hanno avuto la loro espressione compiuta dopo la rivoluzione francese.
Ai popoli dell’Asia centrale è estraneo il concetto di stato-nazione. Nel corso del medioevo e nell’era moderna del resto, sono coinvolti in un complesso intreccio di lotte, influenzate dalle grandi potenze che si vanno formando intorno ad essi – Iran, Russia, Cina, stati dell’India, di cui diventano a volta a volta tributari o parte integrante, e ad un tempo elemento di disturbo.
Le tribù del Tibet, che da una condizione piuttosto primitiva acquisirono un certo grado di civiltà grazie alla penetrazione del buddhismo dalla Cina nell’VIII secolo, oscillarono a lungo fra sudditanza all’impero cinese e giochi tortuosi di rivalità e alleanze con altre popolazioni. Fino alla grande conquista di gran parte dell’Asia da parte dei mongoli. L’imperatore mongolo Kubilai nel 1264 diede al monaco tibetano Phags-pa autorità di governo sulle tre province tibetane: i monaci tibetani acquistano grande prestigio alla corte sino-mongola; vi fu perfino un tentativo di sostituire l’alfabeto mongolo, di origine uigura, con un nuovo alfabeto, di imitazione tibetana.
Dalla metà del XIII secolo, nonostante alti e bassi legati alle vicende complesse dell’impero cinese e dei suoi rapporti con i popoli della steppa, il Tibet resta parte integrante dello stesso impero – naturalmente non nelle forme giuridiche dell’Europa moderna.
I tentativi di staccare il Tibet dalla Cina cominciano nel secolo XIX, con la decadenza della dinastia Qing (manchu) e con l’inizio di quello che fu definito “il grande gioco” fra le potenze europee colonialiste, Inghilterra e Russia – entrambe confinanti col Tibet (la Russia direttamente, l’Inghilterra attraverso l’India) e desiderose di controllarlo, principalmente per l’importanza strategica della sua posizione geografica. Non sto a riassumere la storia del “grande gioco”, con la parte avuta in esso dalle diverse fazioni tibetane e della dinastia Qing.
Al momento della rivoluzione del 1911, 14 province su 18 proclamarono la loro indipendenza dalla dinastia Qing; ad esse si associò il dalai-lama per il Tibet. Il 1° gennaio 1912 Sun Yat-sen, eletto presidente della Repubblica cinese, prese come bandiera i cinque colori che rappresentavano le principali cinque popolazioni della repubblica: Han, Hui, Manchu, Mongoli, Tibetani. La sovranità cinese sul Tibet fu riconosciuta anche sotto la successiva presidenza di Yuan Shikai, nonostante i tentativi inglesi di distaccarne una parte di territorio, manovrando una fazione tibetana pro-inglese.
Del successivo periodo di caos dominato dai signori della guerra, di guerra civile, di debolezza del governo del Guomindang, e infine di occupazione giapponese, approfittarono nuovamente gli inglesi, che cercarono ripetutamente di trasformare il Tibet in una loro “zona d’influenza”, o protettorato informale, arrivando a vietare l’ingresso nella regione di europei ad essi non graditi. Gli americani fino al 1948 rifiutarono qualsiasi riconoscimento a rappresentanze tibetane (manovrate dagli inglesi) che non fossero accompagnate dall’ambasciatore cinese. La cosa cambiò dopo il 1949, con la caduta del governo Guomindang e la fondazione della Repubblica popolare.
L’esercito popolare nel completare la liberazione delle diverse province cinesi raggiunse nel 1950 anche il Tibet (che non era uno stato indipendente ma, appunto, una provincia cinese non ancora liberata dal vecchio regime). La provincia fu occupata senza spargimento di sangue, e l’esercito popolare, che rispettava le famose 3 regole di disciplina e le 8 raccomandazioni, più il rispetto per le tradizioni religiose dei tibetani, fu bene accolto dalla maggioranza della popolazione. Il 14° dalai-lama, di soli 16 anni di età, lasciò Lhassa con gli inglesi recandosi verso il confine indiano, ma vi rientrò nel 1951, accettando l’accordo in 17 articoli proposto da Pechino. Clausole principali: le forze imperialiste sarebbero state cacciate dal Tibet; il governo cinese ne avrebbe assunto la difesa e gli affari esteri; il Tibet avrebbe conservato il suo regime sotto il dalai-lama, il panchen-lama e il Kashag (sorta di organo politico); Il Tibet avrebbe intrapreso una riforma sociale per accordo fra i suoi dirigenti e la popolazione senza intervento del governo centrale.
I governi cinesi imperiale e Guomindang non si erano occupati delle condizioni sociali del Tibet. La società era rimasta quella codificata nel XVII secolo: divisa in 3 classi e 9 gradi. La prima classe: i nobili e i grandi Buddha viventi; la seconda classe, i loro amministratori, i lama, i funzionari; la terza classe (circa il 90% della popolazione): le donne, gli artigiani, i macellai, i fabbri; al di sotto, i servi. Questi erano classificati dopo le terre, gli edifici, gli animali, gli utensili: “animali da soma parlanti”, proprietà del padrone dei loro genitori, che poteva venderli, batterli, mutilarli, ucciderli. Chi ha visitato il Tibet nella prima metà del XX secolo (se si escludono i sognatori come James Hilton, autore di
Orizzonte perduto) parlano di spaventosa miseria della stragrande maggioranza, sporcizia estrema, ignoranza e superstizioni infantili.
Benché il governo centrale si sia mosso con grande prudenza e abbia lasciato che fossero gli stessi tibetani a realizzare le riforme, la dirigenza tibetana si divise, e una parte dei nobili e dei governanti filo-inglesi iniziarono un’opposizione larvata e presero contatto con agenti americani, in particolare con la CIA.
Le riforme cominciarono con la scuola e la sanità. Furono aperte a tutti scuole elementari gratuite, con i lama per insegnanti – già 70 nel 1957. Vennero poi create scuole secondarie.
A Lhassa fu costruito il primo ospedale moderno, un centro di produzione di vaccini, un istituto veterinario; nel 1957 c’erano 3 ospedali, 12 cliniche, 10 centri medici itineranti. Le cure venivano fornite gratuitamente.
Nel 1954 l’esercito popolare aveva già costruito strade di collegamento col Sichuan e col Qinghai per oltre 4600 chilometri.
Furono via via cancellati i debiti, soppresse le corvées. Come risposta, i padroni di servi organizzarono forme di sabotaggio alle vaccinazioni e all’istallazione di radiotrasmittenti, e fino ad atti terroristici sulla strada per il Sichuan. L’ordine fu ristabilito in breve, senza misure repressive.
La CIA fornì clandestinamente armi ai padroni di servi, che formarono un esercito clandestino. Nel marzo 1959 questo organizzò una rivolta, si impadronì del dalai-lama e lo trasferì verso sud. La rivolta fu domata in due giorni; furono recuperate molte armi americane. Alla fine di marzo il dalai-lama si trasferì in India, dove chiesero asilo politico anche 11.500 tibetani, in maggioranza monaci. I residui della rivolta furono domati. A fine marzo Zhou Enlai dichiarò dissolto il vecchio organismo di governo (Kashag), i cui poteri vennero trasferiti al Comitato preparatorio della Regione autonoma, in assenza del dalai-lama diretta dal vice-presidene, il panchen-lama.
Iniziò allora la riforma sociale. Fu soppressa ogni forma di servitù. Donne e uomini sopra i 18 anni assunsero la piena cittadinanza. I proprietari di servi che non avevano preso parte alla rivolta conservarono il 20% dei prodotti delle loro terre, mentre il resto veniva distribuito fra gli ex servi: i proprietari conservarono anche il 20% delle terre, mentre l’80% veniva riscattato dallo stato per 60 milioni di yuan; vennero annullati i debiti anteriori al 1958. I proprietari di servi che avevano partecipato alla rivolta persero terre e prodotti, oltre ai crediti. Si crearono associazioni di contadini per la distribuzione delle terre coltivate. Data la scarsa superficie di queste, fra la popolazione liberata furono promossi artigianato e industria.
La Regione autonoma fu creata il 9 settembre 1965.
Si è molto parlato del saccheggio di monasteri e delle distruzioni durante la rivoluzione culturale. Queste cose avvennero in Tibet come nelle altre province della Repubblica popolare. Si tratta di distruzione di simboli (spesso opere d’arte) che hanno sempre accompagnato le rivoluzioni (vedi, per esempio, l’amputazione massiccia di sculture durante la rivoluzione inglese del XVII secolo). Comunque si voglia giudicare la cosa, importante è che in questo caso non si tratta per nulla di oppressione della nazionalità ma di lotta di classe: gli oltranzisti erano giovani tibetani (compresi molti lama) e ex servi desiderosi di regolare vecchi conti.
Il Tibet quale lo conosciamo ora è il risultato dell’opera di civiltà dei comunisti.
La crescita del benessere è provata dalla speranza di vita, 36 anni nel 1959, 67 nel 1982. La popolazione, di 1 milione secondo il censimento del 1953, nel censimento del 2004 risulta di 2.736.000, di cui 135.000 Han (4,93%) – a smentire le falsità sulla sinizzazione del Tibet.
La stessa esistenza di giovani in grado di criticare e magari ribellarsi è un prodotto della liberazione di una popolazione che era per il 90% di classi soggette ignoranti e di schiavi. L’attacco alla Cina popolare si è sempre fondato, per quel che riguarda il Tibet, su interessi di classe non su questioni di nazionalità. È quello che l’attuale dalai-lama, seppure un po’ in ritardo, sembra cominci a comprendere.
Veniamo ai motivi della propaganda diffusa sul Tibet.
La penetrazione imperialistica e la colonizzazione hanno assunto forme nuove dalla seconda metà del XX secolo, caratterizzato dalla fine del vecchio colonialismo, per quel che riguarda l’assoggettamento formale dei popoli colonizzati da parte dei colonizzatori. Dura, invece, si aggrava e si estende anche a nuove aree geografiche, la penetrazione e l’assoggettamento economico. Fra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro torna, anche, in forme nuove, l’aggressione armata diretta, da parte del principale nuovo soggetto colonizzatore, gli Stati Uniti, seguiti più o meno dall’Europa.
La nuova colonizzazione si accompagna all’aggressione, diretta o indiretta, verso i paesi troppo potenti o grandi per poter essere colonizzati (vedi Russia, Cina, Iran...) ma troppo indipendenti e di ostacolo all’espansione del più forte. Fra i metodi di aggressione o di colonizzazione c’è quello di trovare tutti i preesistenti motivi di contraddizione e di conflitto all’interno dei paesi che si intendono aggredire, di contribuire a farli maturare, a esasperarli, fino a che l’esplosione non provochi gravi crisi nel paese colpito, fino allo smembramento territoriale. (L’invenzione dello scontro di civiltà mira a questo fine; così l’esasperazione di conflitti religiosi assopiti da secoli – giacché non è più “politicamente corretto” parlare di scontro fra razze.)
La Cina è entrata nel mercato mondiale, la politica dei suoi dirigenti non è oggi comunista né socialista. Tuttavia quel paese è pure l’erede di una grande rivoluzione liberatrice, grazie alla quale ha riacquistato il ruolo di grande potenza mondiale. La potenza colonizzatrice antagonista eredita, per aggredirla indirettamente, anche il vecchio repertorio della lotta di classe dei conservatori contro i comunisti. E cerca i punti deboli nel grande corpo. Difficile attizzare in Cina conflitti religiosi (il tentativo con la Falongong, diretta dagli Stati Uniti, finora è miseramente fallito; anche se non è certo che non venga ripreso). Le minoranze nazionali – ereditate dai vecchi imperi e grattacapo per gli stati moderni – possono essere terreno fertile. In Cina rappresentano un quoziente irrilevante della popolazione complessiva, ma occupano regioni vaste, di confine e a volte strategicamente importanti. Il Tibet poi, con la sua società schiavistica fino al 1949, col suo buddhismo spurio, con tutte le contraddizioni della storia trascorsa, è un punto buono da sfruttare per seminare disordine e frattura.
Ma un attacco di questo tipo – l’appoggio esterno a strati sociali che è poco definire conservatori – non si conduce senza il consenso largo dell’opinione pubblica.
Il consenso si guadagna in questo caso – come in molti altri – utilizzando in modo distorto i giusti sentimenti di larga parte del pubblico. (Naturalmente l’operazione va condotta per un periodo abbastanza lungo e disponendo della maggior parte dei media).
In questi tempi di guerre, ingiustizia sociale, attacco ai più deboli e alle donne, umiliazione continua e sempre più grave di quanto in noi è umano, la reazione sana è per la pace, la non violenza, la tutela dei diritti umani; accompagnata, nei più volonterosi, dal desiderio di intervenire in qualche modo in aiuto di chi è più oppresso.
Proprio a queste mozioni fa appello, ingannevolmente, chi al contrario promuove le guerre, l’ingiustizia sociale, l’attacco ai più deboli e alle donne, l’umiliazione dell’umano, la violenza, la violazione dei diritti umani.
Così è ormai passata nel senso comune l’idea che quando all’interno di un paese si verifica qualcosa che riteniamo ingiusto, la “comunità internazionale” debba intervenire, anche con truppe armate, eventualmente mercenarie.
La “comunità internazionale” è un’entità indefinita e indefinibile: forse l’ONU (entità mai indipendente, e oggi ridotta anche all’impotenza, ove non obbedisca al più forte)? Forse la NATO, alleanza di parte, già difensiva e oggi trasformata in polizia internazionale al servizio di potenze determinate? Ma l’onesto cittadino, chissà perché, si sente parte di questa inafferrabile “comunità internazionale”, ed è pronto ad avallarne gli interventi a casa altrui.
Quando le superpotenze a dominare il mondo erano due, si era formato a Bandung, a metà anni cinquanta, il Patto dei paesi non allineati (afro-asiatici,
ai quali si aggiunse la Jugoslavia), che proclamò i cinque principi della
coesistenza pacifica. Il perno era la non interferenza negli affari interni di
un altro paese. Principio sempre sacrosanto, giacché la libertà i popoli come
gli individui se la devono conquistare da sé con la propria lotta; quella che
viene dal di fuori non è libertà né democrazia, anche quando ne porta il nome.
Tanto più quando il più grande e forte pretende di liberare il più piccolo e
debole.
La solidarietà fra gli oppressi e l’internazionalismo – che i comunisti
di un tempo praticavano – erano la lotta per un fine comune condotta, anche per
gli altri, da ciascuno nel proprio paese. Ed era la lotta di una parte contro
un’altra, entrambe ben definite. Solo in questo quadro, sconfinamenti temporanei
erano possibili – come quello delle brigate internazionali durante la guerra
civile in Spagna. Ma i combattenti delle brigate internazionali nel paese
colpito non venivano mandati dai rispettivi stati di origine, erano individui
singoli e liberi.
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[24 settembre
2012]
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