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sovrano (Establishing a sovereign bantustan)
La creazione di un bantustan sovrano
(Establishing a sovereign bantustan)
Jalal
Abukhater*
Riflessioni
sulla richiesta unilaterale di riconoscimento di uno Stato palestinese
avanzata dall’ANP all’Assemblea delle Nazioni Unite in programma il 20
settembre 2011. L’opinione di un giovane blogger palestinese.
(Traduzione Sara Montagnani)
foto di Motaz Abuthiab
La
nostra non è una battaglia per il riconoscimento di uno Stato
simbolico; è una lotta per ottenere i diritti fondamentali che ci sono
negati. Da oltre sessanta anni infatti stiamo lottando per il nostro
diritto al Ritorno, per il diritto a vivere nella terra dei nostri
padri, il diritto ad essere trattati come cittadini uguali agli altri,
il diritto a vivere una vita dignitosa. Ma i nostri rappresentanti ora
stanno rischiando tutto per ottenere il riconoscimento di uno Stato
sovrano su una piccolissima porzione della nostra ben più grande terra.
Si tratta di una mossa disperata che ci condurrà a ciò che
letteralmente è espresso con il termine bantustan.
Come scrive Virginia Tilley, non è un’esagerazione sostenere che
questo progetto, ben noto a molti, arrechi al Movimento Nazionale
Palestinese il danno più evidente di tutta la sua storia, ricacciando
le aspirazioni dei palestinesi in un vicolo cieco dal quale sarà
impossibile tornare indietro. “L’ironia della sorte è che,
attraverso questa manovra, l’Autorità Nazionale Palestinese sta facendo
sua esattamente la stessa formula fatale contro la quale l’African
National Congress ha combattuto così aspramente per decenni, perché la
leadership dell’ANC vedeva chiaramente che si trattava di un disastro.
Questa formula può essere facilmente riassunta in una parola:
Bantustan”.
Se non impariamo dalla storia recente, che cosa spereremo di
ottenere? Ci stanno trascinando in una trappola dove i diritti di
milioni di profughi cacciati dalle loro terre sono a rischio. Ma chi
sta veramente ascoltando le nostre legittime preoccupazioni? Pochi mesi
fa ho posto la questione a diversi gruppi della sinistra israeliana
contrari all’occupazione e chiesto loro di appoggiare la proposta di un
unico stato democratico, come unica soluzione che ponga fine alla lotta
e garantisca giustizia ed uguaglianza per entrambe le parti. Se avessi
imparato qualcosa dalle discussioni delle ultime settimane, userei lo
stesso tono, se non più duro, per affrontare questo argomento:
smettiamola di parlare in modo generico di speranza e muoviamoci nella
direzione di una reale comprensione del significato delle azioni e
delle conseguenze della creazione di uno Stato palestinese sovrano.
Se vedessimo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza immediatamente
liberate non appena le Nazioni Unite ci riconoscessero come uno Stato,
io non mi preoccuperei molto perché poi la leadership palestinese
sarebbe a mala pena capace di occuparsi della più grande questione
riguardante i profughi. Ma la realtà dice ancora altro. Ali Abunimah,
in un editoriale per la versione in inglese di Al Jazeera, faceva
notare che “il Libano è membro delle Nazioni Unite dal 1945, ma questa
sua posizione non ha impedito ad Israele di occupare la zona
meridionale del suo territorio dal 1978 al 2000. L’occupazione
israeliana del Libano non è finita per merito di una qualche pressione
internazionale, ma soltanto perché la Resistenza libanese ha cacciato
Israele e le sue milizie collaborazioniste. Allo stesso modo, dal 1967
Israele continua ad occupare le alture del Golan, che appartengono alla
Siria (anch’essa membro delle Nazioni Unite dal 1945). Non c’è
praticamente nessuna resistenza armata sulle alture del Golan, né ci
sono state pressioni internazionali perché Israele sia estromesso o i
profughi siriani possano ritornare nelle loro case”. Per quale ragione
la situazione nel presunto Stato palestinese dovrebbe essere diversa?
Mentre l’occupazione israeliana della Cisgiordania continuerà ad
avanzare anche dopo il 20 settembre, i nostri rappresentanti continuano
ad insistere che ora è tempo di dichiarare la costituzione di uno
Stato, ignorando le conseguenze di questa azione. La delegazione
palestinese presso le Nazioni Unite è stata avvertita che la loro
iniziativa metterà a rischio i diritti dei palestinesi della Diaspora
del 1948 e che “porrà fine allo status giuridico di osservatore presso
l’assemblea dell’ONU, attualmente detenuto dall’OLP”, secondo quanto
sostiene l’esperto di diritto internazionale dell’Università di Oxford
Guy Goodwin-Gill. Nel suo documento di sette pagine Goodwin-Gill,
membro del team che nel 2004 ottenne dalla Corte Internazionale di
Giustizia la sentenza di condanna, sebbene non vincolante, del Muro
israeliano, fa luce sui rischi legali impliciti nel riconoscimento di
uno Stato palestinese: “milioni di rifugiati potrebbero perdere la loro
rappresentanza presso le Nazioni Unite”. Il legale continua affermando
che “molti palestinesi rivendicano il diritto di partecipare alle
scelte dei propri rappresentanti. Personalmente credo che le iniziative
in corso per assicurare il riconoscimento dello Stato non riflettono
pienamente il ruolo del popolo palestinese come principale parte in
causa nella soluzione dei problemi del Medio Oriente”. “Occorre che
l’Autorità Nazionale Palestinese cerchi una soluzione condivisa
che garantisca i diritti di tutti i palestinesi che intende
rappresentare” conclude Goodwin-Gill.
Ogni qual volta che qualcuno parla della richiesta del riconoscimento
dello Stato palestinese in calendario per settembre all’ONU, senti
pronunciare la parola “veto”. Tutti sembrano certi che gli Stati Uniti
useranno il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza per fermare
qualsiasi tentativo unilaterale di cercare una dichiarazione di uno
Stato palestinese entro i confini del 1967. Qualcun altro dice che la
delegazione alle Nazioni Unite cercherà altre vie per evitare il voto
del Consiglio di sicurezza; altri ancora dicono che la dichiarazione
all’ONU sarà la fine di un percorso.
Gli interessi del popolo palestinese sono a rischio di pregiudizio e
frammentazione, a meno che non si compiano reali passi avanti per
assicurare la loro rappresentanza attraverso OLP, l’Organizzazione per
la Liberazione della Palestina, ad oggi l’unico rappresentante
effettivo di tutti i palestinesi. Il mantenimento del ruolo di
osservatore dell’OLP si renderà necessario finché al suo posto
non ci sarà uno Stato competente e pienamente capace di assumersi
queste responsabilità nei confronti della stragrande maggioranza del
popolo palestinese. Molti attivisti non palestinesi, associazioni per i
diritti umani e avvocati internazionali stanno esprimendo le loro
preoccupazioni, ma non tutti sono capaci di contestare la decisione
della leadership palestinese perché ritengono che questo sia un compito
esclusivo dei palestinesi.
Tuttavia, purtroppo, non molti palestinesi sono perfettamente
consapevoli dei rischi e gli oltre 6.5 milioni di loro che fanno parte
della Diaspora dovranno fare i conti con le conseguenze di
un’iniziativa intrapresa da un leader per il quale loro non hanno
votato o con cui magari dissentono e che, malgrado ciò, parla al posto
loro. I rappresentanti di Ramallah invece sono perfettamente
consapevoli delle conseguenze, ma la loro iniziativa è il risultato
della collera davanti al fallimento per il processo di pace a cui loro
avevano lavorato per decenni. Questa collera li sta spingendo verso
un’iniziativa irrazionale, che tuttavia continuano in qualche modo a
sbandierare come un successo del loro operato. Questo piano mira a
rompere i legami tra palestinesi di tutto il mondo; la leadership
palestinese dovrebbe saperlo molto bene e cercare piuttosto
un’iniziativa vantaggiosa per tutti. Dal canto loro, se avremo
successo, otterremo il nostro Stato. Secondo la mia opinione, se
falliremo, eviteremo le conseguenze di aver avuto successo e potremo
cercare un’altra soluzione. Questo è irrazionale, ne sono consapevole.
Ma la maggior parte dei palestinesi è pronta ad accogliere
positivamente il risultato dell’iniziativa di settembre. Il primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dal canto suo invece, si oppone
alla richiesta perché beneficia dell’appoggio dei coloni degli
insediamenti illegali della Cisgiordania. Netanyahu vuole
mantenere il controllo delle aree strategiche e delle risorse idriche.
Mira a conservare il nostro status quo, costituito da molte prigioni a
cielo aperto separate le une dalle altre e sparse per la Cisgiordania. Ma io non vedo la ragione secondo la quale il Presidente Obama si
opporrebbe. Personalmente, io dubito che gli Stati Uniti useranno il
loro potere di veto. Con questa soluzione, gli USA potrebbero porre
fine a sessantaquattro anni di lotte ininterrotte e favorire il piano
del Sionismo.
La soluzione dei due stati causerà la frammentazione dei
palestinesi, una maggiore separazione tra gli abitanti della
Cisgiordania e quelli della Striscia di Gaza, coloro che vivono in
Israele e quelli della Diaspora. Sottrarrà cioè con la forza i diritti
di milioni di persone.
* L’autore è un giovane blogger palestinese di 17 anni, che risiede a
Gerusalemme e studia a Ramallah, Cisgiordania. La versione
originale di questo articolo è apparsa per la prima volta sul blog
Electronic
Intifada poche settimane fa.
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