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«Il fedele esercizio innaturale»
La gestione ironica in Salutz e Fortezza di Giovanni Giudic».
Daniele
Visentini
Il lungo percorso
intrapreso da Giovanni Giudici in oltre cinquant’anni di carriera poetica
appare, nel contesto del Novecento italiano, abbastanza variegato e singolare da
scongiurare in apparenza ogni tentativo di reductio ad unum messo in atto
dalla critica.
Nelle opere della giovinezza e della prima maturità che informano la Vita in
versi e Autobiologia, come suggerisce Ottavio Cecchi, «il discorso su
verità effettuale e immaginazione di essa è preparatorio», in quanto «Giudici sa
che la poesia è uno strumento scordato, e ce lo dice in versi»1. Già
in raccolte quali Il male dei creditori e Lume dei tuoi misteri,
rinunciando in parte alla propria disposizione al realismo, il poeta si
inoltrerà verso i territori di una fictio più elaborata e dal tono
maggiormente sostenuto, serbando comunque come saldo appiglio alla contingenza
una reiterata, spesso parossistica mimesi del parlato. Infine i libri degli anni
Ottanta, Salutz e Fortezza, rappresentano l’abbrivio a una
scrittura in apparenza assai lontana da tutte le precedenti esperienze di
Giudici: qui le composizioni (che l’autore stesso, nelle note a Fortezza,
chiama significativamente «sezioni»2) parrebbero non sussistere da
sole, ma servire invece un disegno generale unitario e programmatico; sia
l’evocazione del privato, sia la volontà d’interazione col pubblico sembrano
annichilirsi, desertificate come desertificato appare lo scenario complessivo di
questa poesia, scevro al tutto di presenze tangibili e colori vividi. Si
potrebbe parlare, per Fortezza e ancor di più per Salutz, di una
poesia vistosamente bidimensionale, intendendo tale aggettivo nella sua
originaria connotazione neutra: una scrittura, insomma, su carta e per carta,
definitivamente fissata e raggelata, costretta nel perimetro del foglio come in
una prigione.
Davanti a un cambiamento stilistico siffatto, non solo è lecito, ma decisamente
necessario stabilire fino a che punto Giudici smentisca le proprie inclinazioni
iniziali o se, invece, due libri come Salutz e Fortezza possano
essere considerati in linea con il pensiero espresso dal poeta fino agli anni
Settanta, risolvendosi nell’ottica di un complesso polimorfismo espressivo
piuttosto che in quella di una radicale svolta poetica e ideologica.
In merito a tale questione, i giudizi di volta in volta espressi dai critici
possono essere ricondotti a due diverse linee interpretative. Da una parte v’è
l’idea, espressa già nel 1960 da Franco Fortini3 e ribadita poi da
Berardinelli, di un Giudici «umile, umiliato membro del “nuovo ceto” italiano
anni Sessanta»4 e in grado di rinnovare l’esperienza poetica dei
crepuscolari, Gozzano su tutti, tramite l’evocazione di un mondo privato
straniato e misero e l’utilizzo insistito dei dialoghi. Partendo da questo punto
di vista, il Giudici degli anni Ottanta e Novanta è letto come un Giudici
minore, interessato inspiegabilmente (questo, ad esempio, il parere di Giuseppe
Leonelli) al «recupero di una dimensione “alta” della lirica»5.
Un’opinione diversa sulla parabola letteraria dell’autore, invece, è stata
espressa da Costanzo Di Girolamo, il quale in un articolo apparso sulla rivista «Linea d’Ombra» rimarca, sì, la differenza sostanziale intercorrente tra i primi
lavori licenziati dal poeta e Salutz, ma soltanto per evidenziare il
carattere positivo di quest’ultima raccolta e proporre, retroattivamente, una
correzione all’«enfasi posta dalla critica sulle componenti “realistiche”,
neocapitalistiche, urbane o impiegatizie della precedente produzione di Giudici»6.
In realtà entrambe le letture, benché antitetiche, condividono un vizio
d’analisi identico: esse, infatti, formulano un giudizio complessivo sulla
poesia di Giovanni Giudici a partire da una prospettiva microtestuale; leggono,
cioè, i versi con i versi, senza dare il giusto peso alla volontà complessiva
dell’autore e rischiando, così, un approccio d’acchito, superficiale, al senso
dei componimenti. Si giunge, per questa via, a due speculari eccessi: da un lato
si decreta l’esistenza non di uno, ma di due Giudici, uno “maggiore” e uno “minore”; dall’altro, come fa Di Girolamo, si rischia di sorpassare le
indicazioni di lettura fornite dal poeta stesso nelle note a Salutz per
garantire in ogni modo unitarietà alla sua vicenda letteraria7. Tra
l’altro, va puntualizzato che se in generale può ritenersi sconsigliabile tra
testi novecenteschi un confronto limitato alla sinossi, non dialettico in quanto
non improntato a una considerazione d’insieme dei fattori teorici e storici in
gioco nella composizione poetica, un simile metodo d’analisi risulta addirittura
esiziale per una personalità complessa come quella di Giudici, il quale fu non
solo uno dei maggiori traduttori del nostro Novecento, ma anche un costante e
assai acuto teorico della poesia – attività , quest’ultima, cui forse ad oggi non
s’è conferito ancora un rilievo adeguato.
Partendo da tali presupposti, è lecito tentare una lettura di Salutz e
della sezione centrale, omonima, di Fortezza, che faccia perno sugli
scritti teorici di Giudici, con lo scopo di comprendere almeno in parte e senza
forzature critiche quali furono le intenzioni poetiche sottese a una scrittura
tanto inedita e apparentemente enigmatica.
A tale scopo, è indispensabile indagare subito la breve prosa intitolata La
gestione ironica, apparsa sulle pagine dei «Quaderni piacentini» nel 1964,
ossia un anno in anticipo rispetto alla prima raccolta complessiva di Giudici.
All’interno del breve saggio l’autore fornisce con estrema chiarezza e notevole
efficacia argomentativa alcuni fondamenti teorici che rappresenteranno, negli
anni a venire, alcune fra le costanti della sua esperienza poetica.
La novità di tale scritto si ravvisa già nella laconica considerazione
d’apertura, tramite la quale Giovanni Giudici prende le distanze dal Gruppo 63,
di recente formazione, ma probabilmente anche dal suo amico e privilegiato
interlocutore Andrea Zanzotto. Il poeta, infatti, afferma l’esistenza di alcune
analogie singolari tra il fare poetico e il fare politico, le quali si
riscontrano a partire da un’identica disposizione della scrittura poetica e
dell’azione politica alla progettualità : «conoscere poetico e prassi politica»,
chiosa Giudici, «operano entrambi in un senso contrario all’entropia: dove
questa è tendenza all’indifferenziato, quelli tendono ad organizzare e
distinguere. E altrettanto si dica in rapporto all’alienazione, concetto che,
mutuato dall’economia come l’altro dalla termodinamica, esprime una tendenza per
molti aspetti similare: una tendenza contraria all’intenzione, al progetto»8.
Pur essendo il conoscere poetico un’impresa che, a differenza della prassi
politica, rientra obbligatoriamente nell’alveo delle operazioni intellettuali,
Giudici assicura quindi che un ulteriore, problematico punto di saldatura tra
politica e poetica consiste nel rischio comportato, in ambo i casi, da un
necessario rapporto con le forme istituzionali pregresse. Si tratta, per dirlo
in altre parole, dell’impasse consustanziale al bipolo
tradizione/innovazione, che la stessa natura progettuale della poesia richiede
al poeta di risolvere in maniera cosciente, scegliendo un conveniente approccio
verso il passato. A questo punto, Giudici prevede due possibilità divergenti di
rapportarsi alla tradizione: in un primo caso «il peso delle forme poetiche
prevale sul progetto poetico, al punto che questo [...] finisce per allinearsi in
esse»; in un secondo, invece, «le stesse forme istituzionali vengono assunte
dallo scrittore di versi in una misura puramente strumentale, casseforme
provvisorie, semplici simulacri di strutture, talché il risultato ne fuoriesce
indenne, servendosene e non servendole»9. Argomentando questa seconda
possibilità , certamente auspicabile rispetto all’altra, l’autore conclude:
Egli [il poeta] può infatti trovarsi nell’impossibilità di innovare o,
meglio, può essere portato dal suo progetto ad esercitare l’atto innovatore in
altra direzione, rovesciandolo: a innovare cioè non la forma istituzionale, ma
il suo proprio atteggiamento nei riguardi della medesima, attribuendogli un
ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir menzognero,
ossia ironico, equivalente insomma a una sospensione o negazione di
riconoscimento10.
Il poeta insomma, per portare avanti il proprio progetto senza cedimenti alle
“istituzioni”, deve ricorrere a quella che viene definita «gestione ironica
della forma istituzionale». Tale atteggiamento garantisce l’assunzione della
tradizione in toto come «risibile liturgia, logoro supporto» e consente
pertanto al discorso poetico di compiersi «con una intensità quasi integra, con
dispersione minima, concentrato sul fine, indifferente al mezzo»11.
Ciò che Giudici suggerisce, già nel 1964, è perciò un esorcismo dell’immobilità
sistemica che passi attraverso l’accettazione ironica – ergo, solo superficiale
– di tale immobilità , per poi ribaltarla a livello sostanziale.
Come si vede, questo discorso preliminare vale a fornire una sorta di griglia
interpretativa alla poesia di Giovanni Giudici; griglia che sinora è stata, sì,
utilizzata, ma soltanto per chiarire i nodi fondamentali delle sue prime
raccolte (lo ha fatto ad esempio Boselli per La vita in versi12,
con particolare attenzione ai due mezzi espressivi più utilizzati dal Giudici
degli anni Sessanta e Settanta, ovvero la citazione e la mimesi del dialogo).
Resta però da vedere se si possa parlare o meno di gestione ironica anche a
proposito di due libri come Salutz e Fortezza, da sempre giudicati
eterodossi rispetto alla restante opera del poeta13.
Ora, per approfondire la nozione di ironia nell’accezione utilizzata da Giudici
e restituire, di conseguenza, un significato pieno alle pagine succitate, vale
forse la pena di rifarsi a un teorico della letteratura che, sorprendentemente,
pare condividere col poeta ligure alcuni nodi della propria analisi
mitopoietica. Si tratta di Northrop Frye, il quale, tanto nella monumentale
Anatomia della critica, quanto nel saggio sulla Scrittura secolare,
individuò una delle componenti del romance moderno proprio
nell’atteggiamento ironico, descritto come la conseguenza di un vero e proprio
congelamento semantico: nell’impianto ciclico della sua speculazione, lo
studioso associa infatti il modo ironico al cosiddetto «mythos
dell’inverno» e descrive perciò l’ironia come «residuo non eroico della
tragedia, imperniato su un tema di perplessità e di sconfitta», e come tale
tendente a una compromissione degli elementi comici e tragici convenzionali, i
quali progressivamente si intersecano fino a smarrire il senso del loro afflato
primigenio e ad assumere, de facto, il valore di forme mere14.
Una volta premesso ciò, Frye scandisce in sei fasi l’evoluzione che, col medium
della satira, conduce a un progressivo smantellamento delle componenti
realistiche e mimetiche proprie del modo comico. Volendo riproporre tale schema
d’analisi, si può scorgere il senso dell’ironia di Giudici in quelle che il
critico canadese individua come la quinta e la sesta della fasi ironiche, ossia
il momento in cui le componenti comiche del genere satirico lasciano il posto a
un’improvvisa, spiazzante incursione dell’elemento tragico. Ecco come Northrop
Frye descrive questa sesta e definitiva manifestazione del modo ironico:
In tale stadio l’esperienza è vista come se il momento di epifania fosse molto
ravvicinato e ingrandito; e l’idea che predomina è quella espressa nella frase
di Browning «può darsi che ci sia il cielo; ma deve esserci certamente un
inferno». [...] La sesta fase presenta la vita umana in termini di quasi totale
schiavitù senza mitigazione o conforto. Le scene dell’azione sono prigioni,
manicomi, linciaggi di folle scatenate, e luoghi di esecuzione; la differenza
tra questo mondo e l’inferno vero e proprio sta nel fatto che sul piano
dell’esperienza umana la sofferenza ha un termine con la morte15.
Il carattere invernale dell’ironia, sotto questo punto di vista, corrisponde a
una parodia (una tragica parodia) dei modelli letterari tradizionali, la cui
riproposizione è di solito automatica, ma non certo oziosa, poiché di necessità
implica un atteggiamento di programmatico distacco e consapevolezza da parte
dell’autore. Implicitamente o meno, alla base dell’ironia vi è insomma, come per
il Giudici della Gestione ironica, la denuncia di un logoramento delle
istituzioni, quando non di una loro totale sconfitta. Campione significativo di
questa modalità di scrittura è, per Frye, il Kafka che reinterpreta il tema del
peccato originale inoculandolo nei tetri recessi della sua colonia penale. Tale
peculiarità ironica, però, appartiene senza dubbio anche all’ordito di Salutz,
in cui Minne, «bandita / Del suo poeta esclusa dal poema»16, viene
innalzata e allo stesso tempo annichilita entro le due dimensioni del foglio,
vero carcere o fortezza della poesia moderna. È ancora questa stessa ironia che,
permettendo al poeta di contemplare senza mistificazioni o scuse il proprio
stato di carcerazione, unisce tematicamente Salutz e Fortezza. Si
veda, a questo proposito, il modo in cui il poeta descrive la condizione di
prigionia derivante da un inesplicabile eppure evidente peccato originale nella
sezione VI 2 di Salutz, dove Giudici (con rimandi, forse non
inconsapevoli, a certe suggestioni barocche, del Lubrano anzitutto) tenta la
similitudine del poeta con la talpa:
D’ubbidienza la cieca galleria
Allo stesso modo dell’amante di Salutz, il protagonista di Fortezza
è tenuto sotto osservazione da carcerieri privi di misericordia ai quali lui
stesso raccomanda la propria sorveglianza, costretto volontariamente – e qui il
paradosso ironico che vale tanto per la poesia, quanto per il mondo – nella
morsa di un debito occulto:
E lui di essa sia primo architetto
–
Il parallelo tra Salutz-Fortezza e il Kafka di Nella colonia penale
o del Processo, come si osserva, è dunque calzante19 – e,
d’altronde, lo stesso poeta ligure si occupò in più di un caso del grande
romanziere praghese, mostrando un grande interessere in specie per la sua
tecnica compositiva straniante20. Di conseguenza, la stessa
definizione proposta da Frye sembra potersi applicare al Giudici degli anni
Ottanta, avallando così l’ipotesi che, anche nelle due raccolte qui esaminate,
il poeta non abbia smesso di considerare la gestione ironica della forma e del
contenuto come mezzo privilegiato di composizione.
A proposito del bisogno di rivolgersi a un destinatario, implicito alla
scrittura stessa, si legga ciò che il poeta scrive nel già citato saggio Fare
i conti con la lingua:
Saranno ormai più di cinquant’anni che mi trovo a dover fare i conti con la
lingua italiana. Ma soltanto in un’epoca relativamente recente ho preso
veramente coscienza di questo particolare rapporto. Eh, sì, un rapporto; e
quando si dice «rapporto» si allude chiaramente a un essere in due: noi stessi e
un altro: un’altra persona, un’altra (comunque) entità viva della quale non
possiamo ignorare la presenza [...]. Durante questi cinquant’anni in molti modi e
in diverse vesti ho dovuto fare i conti con la mia bella, ambigua, misteriosa
lingua, ineguagliabile nella sua capacità di non dire dicendo e di affermare
negando. Li ho fatti da scolaro [...]; da adolescente che tentava le sue prime e
quasi mai spedite lettere d’amore; da giovane cronista [...]; da aspirante
scrittore [...]; e infine da poeta che soltanto a poco a poco è riuscito a capire
che nel fare poesia bisogna, come in amore, essere in due: noi che scriviamo (e
in ciò facendo amiamo) e la lingua della poesia che ama a sua volta noi
di un quasi materno amore, che scrive noi e, in questo suo scrivere noi, ci si
dona, ci possiede, ci ama25.
E al circo, Midons,
La terminologia dantesca, qui, culmina nella definizione di quella «lingua
strana», che tornerà anche in Fortezza come «una specie di lingua non più
lingua»27. Tale connotazione del linguaggio poetico, a ben vedere, è
il portato di una personale meditazione sulle celebri terzine di Paradiso XIV
111-23: come la melodia profusa dalla croce nel quinto cielo di Marte non viene
intesa da Dante nel suo significato proprio, ma comunque sa rapirlo in modo
totale, così la poesia comprende il poeta, senza che quest’ultimo possa
ricambiare appieno. L’autore di Salutz e Fortezza avverte
l’estraneità della lingua poetica al mondo, e reagisce a un simile scacco
fingendo, “chiudendo” ironicamente le forme poetiche e rinunciando, almeno in un
primo tempo, alla possibilità riflettere la realtà sulla pagina in modo
compiuto.
Una poesia che tutti conoscono come L’infinito di Giacomo Leopardi è,
concettualmente parlando, chiarissima; le cose che essa dice e sembra dire
potrebbero essere facilmente volte in prosa da un qualsiasi scolaro, ma noi
sappiamo che a questo punto non ci darebbero più l’emozione leggendaria che ci
suscita il testo del poeta. E ciò significa appunto che L’infinito, e dunque
ogni poesia o poema degno del nome, è qualcosa, anzi molto e moltissimo di più
di quel che dice: è, infatti, e perentoriamente, quel che è 29.
«La cosa chiamata poesia»30 non è quindi un oggetto di speculazione,
bensì un soggetto speculativo che, riflessivamente, si fa, in quanto
frutto di un processo di transustanziazione dal semplice dire all’essere.
E più tenti di uscirne e più vi si chiuda
Proprio a causa di quel diuturno colloquio che si instaura tra poeta e poesia,
l’auto-segregazione dell’autore si riversa automaticamente sulla forma della
scrittura, la quale, corrispondendo l’animo umano, si nutre di se stessa e in se
stessa si chiude.
Di rabbia in rabbia in rabbia
Si tratta della stessa gabbia da cui l’esarca di Fortezza, con una messa
in scena straordinaria nella sua amarezza, vuole distogliere lo sguardo del
poeta, illudendolo che esista una via di fuga reale:
Prima e più d’ogni altra
Giovanni Giudici, apparentemente mai stato tanto lontano dal realismo, riesce
qui per vie inconsuete a proporre uno dei più incisivi e inquietanti ritratti
dell’uomo contemporaneo, totalmente spersonalizzato e autotrofo, vivo solo nella
mortificazione di se stesso, prigioniero virtuale e, proprio perciò, lontano da
ogni speranza di riscatto.
Tortuosamente prono
Scavai come la più diritta via
Al mai-saper-dov’è vostro perdono:
Nero del nero, buio
Del buio – il mio peccato
Voi decideste, penitenziaria
Di tutto e tutto tutto in che ho fallato 17
Prigione non nel senso stretto
La sua più che del corpo
Dell’intelletto:
Sbarre serrature bastano
A farle via un po’ di plastico
Pazienza di lima piedi di porco –
Ma chi è carceriere di se stesso
Ha un bel prendersi su capello per capello
A tirarsene fuori 18
Partendo da tale spunto interpretativo, inoltre, si comprende come la lettura
incrociata delle due raccolte sia funzionale a un migliore inquadramento di
entrambe: il luttuoso dramma “recitato” dal prigioniero di Fortezza, in
effetti, fa emergere quell’ironia tragica che in Salutz è implicita e,
perciò, fraintendibile; nel contempo, Salutz getta luce sul carattere
iperletterario e certamente meta-poetico di Fortezza, che a un primo
esame rischierebbe d’essere trascurato.
D’altronde, il periodo di composizione delle due raccolte coincide: più breve
nel caso della prima, che venne stesa tra il 1984 e il 1986, più lungo per
Fortezza, le cui poesie ordinate cronologicamente occupano l’arco temporale
che va dal 1984 al 1989. Molte, poi, sono le somiglianze tra i due libri anche a
livello formale: in un caso e nell’altro, i componimenti di Giudici divengono
brevi, quando non brevissimi; i versi doppi o comunque superiori al
tredecasillabo, tanto frequenti sino a Lume dei tuoi misteri (1984),
tendono a scomparire in Salutz, come anche in Fortezza, per
lasciare il posto a versi più contenuti e veloci, quali il frequente novenario e
gli endecasillabi danteschi a ritmo sostenuto, non di rado frantumati da cesure
irregolari e alternati a settenari o senari; la prosodia, in ambo i casi, si
orienta verso una maggiore regolarità e le rime stesse sono più frequenti anche
al mezzo; inoltre la lingua, da quella «“fanghiglia” del linguaggio»21
cui accennò Walter Pedullà nel ’69, si fa dinamica, cruda e d’asciutta eleganza;
infine, va ripetuto che il disegno complessivo di Salutz e Fortezza
è unitario, tendente cioè a quella forma poetica che Giudici stesso, a partire
dai primi anni Ottanta, definì col termine di «poema»22.
Ora, fatte queste premesse (indispensabili, in qualche modo, a giustificare
l’accostamento dei due libri) e accertata la presenza di una componente ironica
nel Giudici degli anni Ottanta, è però necessario utilizzare quanto finora detto
come chiave di lettura a Salutz e Fortezza, così da proporre un
chiarimento circa il «progetto» – per utilizzare un’espressione cara al poeta – innervante i due libri.
Per quanto riguarda Salutz – di cui Giudici stesso sottolineava l’ironia
nel saggio Fare i conti con la lingua, del 199223– va
precisato subito che gli elementi essenziali ai fini di una comprensione globale
sono due: innanzitutto, il recupero della forma metrica chiusa, pre-petrarchesca
e mutuata tra l’altro da una tradizione non autoctona come quella dei trovatori
e dei Minnesà¤nger; in secondo luogo – ed è questo il punto su cui ci si deve
soffermare – la myse en abà®me, forse data per scontata dalla critica ma
mai analizzata nel suo profondo significato ironico, che del rimando continuo da
un micro-cosmo artato come quello della rappresentazione a un macro-cosmo reale
come quello dell’esperienza poetica fa una potente denuncia: ciò che Giudici
mette in scena è una volontaria fuga dal rappresentabile, unica strada a
consentire la possibilità di rivolgersi a un destinatario, benché fittizio, e
sfondare così le alte, strette mura che circondano la “fortezza”. Su questa
finzione di presenza – proprio poiché si tratta di una messa in scena
programmatica, dunque non fine a se stessa – 24 è opportuno indagare
in maniera approfondita, al fine di comprendere la vera natura, assieme
scardinante e rimodellante, dell’ironia di Giudici.
Ecco spiegato, allora, il paradosso di una poesia che riflette su se stessa,
autospecula non per rinunciare alla realtà fattuale riducendosi ad appagato,
seppur melanconico, gioco enigmistico, ma al contrario col fine ultimo di
tradurre il dialogo tra poeta e poesia o, viceversa, il dolore che sta alla base
di una sofferta, avversata divaricazione tra scrittura e mondo. Il poeta, in
breve, rinuncia all’innovazione formale per riscoprire la poesia solo
dall’interno, realizzando una vera e propria meta-poesia, utile in primis a
recuperare l’aspetto più vitale (e, con Giudici, si direbbe soggettivo)
di una lingua poetica differente, per sua natura, da qualsivoglia lingua della
comunicazione.
Il poeta, rivolgendosi alla sua «Minne», «Domna» o «Midons» che sia, si
abbandona a un dialogo tanto fitto e affermativo, quanto intimamente
travagliato, con la poesia stessa. Ciò appare scopertamente in II 1, dove «il
fedele esercizio innaturale» cui il poeta è costretto a sottoporsi è questo
continuo tentativo di realizzare la propria ispirazione poetica:
Quando in coppia agivamo – e quale
Non fabbricai prodigio!
Di trapezio in trapezio e salto in salto
Di lingua in lingua strana
Comedia fosse o gioco di prestigio
Perché splendesse a voi
La luce d’un finale!
Io segreto compare io scolta vostra
Io docile animale
Crescendo alla fatica che ci costa
Il fedele esercizio innaturale –
La più storta la più lunga
Via che a noi mai ci congiunga 26
D’altronde, lo stesso Giudici riutilizzò nelle sue prose critiche proprio
l’aggettivo «strano» per connotare la lingua poetica, percependo quest’ultima
come indipendente dal sistema segnico ordinato che veicola linearmente la
comunicazione tra esseri umani. È lecito credere che tale considerazione sia
stata ripresa soprattutto dalle teorie di Jurji Tynjanov, fondamentale anello di
congiunzione tra formalismo e strutturalismo e autore di un volume, Il
problema del linguaggio poetico, che proprio Giudici tradusse in italiano
nel 1968. Dalla speculazione di Tynjanov, probabilmente, il Giudici poeta ricavò
la dicotomia tra linguaggio letterario e linguaggio pratico e, nel contempo, la
necessità di contestualizzare i processi culturali tramite considerazioni sia
sincroniche, sia diacroniche, evitando così d’incappare in una visione statica,
dogmatica della poesia.
Per confermare questa ipotesi, basta leggere il celebre intervento Come una
poesia si costruisce, proposto nel 1984 in occasione di un ciclo di
conferenze dell’Associazione Culturale Italiana, in cui Giudici sfrutta a piene
mani il concetto tynjanoviano di «lotta» tra significato e significante nella
costruzione del linguaggio poetico, e quello speculare circa l’antagonismo tra
tradizione e innovazione che, di lì a pochi anni, sarebbe stato ripreso e
ampliato dal Lotman di La cultura e l’esplosione. Partendo da questi
presupposti, Giudici non si limita a dichiarare la differenza intercorrente tra
la «normale lingua di comunicazione» e la lingua poetica ma, in ragione di tale
divaricazione sostanziale, perviene a una reificazione della poesia: essa è una
“cosa” «a capire la quale non servono o comunque non bastano i comuni strumenti
intellettuali se non vi sia anche un certo coinvolgimento di facoltà sensorie»28.
Per argomentare il proprio pensiero, il poeta subito aggiunge un esempio
chiarificatore; scrive difatti Giudici:
Da ciò si potrebbe dedurre che, dalla metà degli anni Ottanta, Giovanni Giudici
abbandoni la visione prettamente gnoseologica dei primi scritti critici per
maturare un interesse di tipo più ontologico per la poesia. Nonostante ciò, il
fine ultimo della sua speculazione rimane lo stesso: recuperare la parola
poetica, da intendersi quale sintesi dialettica tra una certa autoreferenzialità
che le è propria e la volontà contestualizzante dell’autore.
«A me sono sempre piaciute più le parole dei fatti, perché in queste faccende
è
più bello vivere nella speranza che nella pratica»31, scriveva
Boncompagno da Signa come giustificazione alla sua Rota Veneris,
«singolare condensa di retorica e letteratura, di mestiere e divertissement»32
che con la tradizione del salutz provenzale, come assicura Garbini33,
conserva notevoli affinità . Per il grande retore bolognese, la scrittura aveva
un andamento in tutto simile al mondo, per cui ogni cosa era intesa come segno
di un’altra in un continuo travaso metaforico il cui risultato finale è quel “sistema espressivo” designabile col termine di transumptio.
È proprio in
ragione di ciò che la scrittura, in un campione della cultura medievale come
Boncompagno, poteva legittimamente sostituire (o, se non altro, rispecchiare e
in molti sensi perfezionare) la realtà esterna.
Nel salutz di Giudici (che è Salutz antonomastico, dunque
consapevolmente ironico), il disincanto del poeta si fa palpabile, per cui la
certezza di questo rispecchiamento non può che essere evocata e basta, non può
che essere “finta”. Nell’ottica alienante della modernità , infatti, il recupero
della poesia implica un estraniamento del poeta dal mondo reale e lo costringe,
per reazione, a un intervento poetico di natura meramente formale. A tale
necessità , però, Giovanni Giudici si conforma solo in apparenza o, appunto,
ironicamente: la parola poetica, lungi dal contare più dei fatti, è da questi
ultimi assai distante in quanto, per dirla di nuovo con Tynjanov, detiene un
plusvalore rispetto al meccanismo logico che nel linguaggio comunicativo lega
significante, significato e senso. Per raggiungere il fondo delle proprie
esigenze espressive, il poeta, accantonati i problemi formali tramite
l’accettazione di un modello precostituito – quello iperletterario del salutz,
non a caso – può, e anzi deve rapportarsi dialetticamente con l’essenza stessa
della parola poetica, la quale è soggetto mascherato da oggetto.
In questo senso, pertanto, il salutz composto da Giudici non è, come
crede Di Girolamo, il simulacro di un amore perfetto e concluso; tra poeta e
poesia, al contrario, si instaura lo stesso tipo di rapporto che Leo Spitzer,
leggendo in modo innovativo Jaufré Rudel, individuò come costitutivo dell’amor
de loing: si tratta proprio di un paradosso amoroso, scatenato dalla
compresenza di carne e spirito nel corpo dei versi. Parafrasando Spitzer,
l’amore, e così la scrittura poetica, non vuole possedere, ma protrarre il più
possibile quel godimento che s’origina da un mancato stato di possesso34.
E se ciò vale tanto per il salutz provenzale quanto per Salutz di
Giudici, va ribadito che in quest’ultimo caso la frustrazione per il perenne,
fallimentare tentativo di dialogo con la «Midons» assume forti valenze critiche
e veicola, perciò, un messaggio poetico chiaro35.
Da tale frustrazione, infatti, prende piede quel sentimento di prigionia che si
esacerberà al tutto non in Salutz, bensì in Fortezza. Come
sintetizza il componimento 39, il poeta – ma prima ancora del poeta ogni uomo,
poiché detentore di capacità intellettive che tracimano dall’argine della
materia blanda – è per sua natura un prigioniero:
Macina di pensieri
Dove ieri al domani si confonda
Bambino che una storia cattiva inventa
A se stesso, s’imbozzola nelle sue spire 36
E si legga ancora il tentativo di fuga dalla gabbia della poesia che un certo
impeto amoroso ancora lasciava intravedere – ma pallidamente – in Salutz,
VI 8:
All’assalto d’un muro ch’è il mio petto
Tento più astuta via da questa gabbia 37
Usuale cautela tagliargli
Canali vie spiragli di pensiero
Al sospetto che appena un vizio di visione
Dove il nero è più nero
In questa prigione lo chiuda –
Unico lembo di respiro non proibito
Lasciandogli il fatuo infinito
Grembo a cui torna e torna
Stupida bestia a sfidare
L’altro Sé dello specchio nel chiaro aldilà
Altrove del cuore di lei –
E poi subito e sempre ricominciare persuadendosi:
Ma esiste e quasi ci sei 38
Si può aggiungere, tra l’altro, che non fu il solo Giudici, tra la fine degli
anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, a scegliere una strategia poetica di
questo tipo. Per fare un unico, ma significativo esempio, certe affinità
potrebbero essere riscontrate con la via poetica intrapresa dal Caproni del
Franco cacciatore e del Conte di Kevenhüler, del quale Daniele
Santero ha recentemente sottolineato la cosiddetta «sacra ironia»39.
L’atteggiamento ironico di Giorgio Caproni non va inteso come uno sterile,
anarchico strumento di negazione, ma come un mezzo d’interpretazione positivo e
assieme paradossale della realtà ; è, cioè, il fondamento di quella «ateologia»40
culminante nell’assurda espressione di libertà negativa che solo la poesia può
garantire. Come per Giudici, incapace di oltrepassare «le due estremità / del
tratto che gli è permesso»41, per Caproni la rappresentazione del
mondo cede di fronte a quelli che vengono indicati come «luoghi / non
giurisdizionali»42 e diviene, pertanto, una drammatica messa in
scena. In un quadro tout court atemporale e aspaziale, l’«Onoma» (il nome
proprio, simboleggiante il tentativo di definire un’essenza al di là
dell’apparenza) si configura come una bestia in perenne fuga, rappresentazione
simultanea di Dio, della coscienza umana e della poesia. Il senso stesso delle
cose è un oggetto in fuga che sfiora il poeta per poi inabissarsi; e Caproni,
davanti all’assurdità dell’esistenza, tenta di uccidere Dio per renderlo vivo -
proprio come fa Giudici che, nel finale di Fortezza, dichiara a dei muti,
anonimi astanti tutta la contraddittorietà della propria ateologia, gridando: «Sì, ho ucciso Dio / Purché ve ne andate!»43.
Questa breve parentesi conclusiva, più che tentare un vero e proprio
accostamento tra i due poeti, vuole suggerire una possibile applicazione
dell’idea d’ironia anche al di là del corpus di Giovanni Giudici,
evidenziandone in questo modo la validità teorica. È infatti possibile che
questo tipo di «gestione», come la chiama il poeta ligure, sia rintracciabile in
una certa poesia italiana che, alle soglie del XXI secolo, optò per una
programmatica, polemica oscurità . Tale scelta andrebbe pertanto discussa e
compresa nella sua eziologia, anche muovendo da concrete ragioni
storico-culturali: alcuni dei fattori in questione, per esempio, potrebbero
essere la recrudescenza della Guerra fredda, l’imporsi in maniera sempre più
decisiva dei sistemi economici neo-capitalisti o, ancora, il progressivo
perfezionamento dei mezzi di comunicazione di massa. È chiaro che davanti a un
simile scenario di massificazione, dove è vanificato il limite tra il soggetto e
gli oggetti che lo attorniano, quasi protesi del corpo e del pensiero, al poeta
non resta che chiedere asilo alle sue pagine e mostrare, con amarezza, la
propria costrizione alla fuga dal mondo. Per questo motivo, Salutz e
Fortezza andrebbero lette come dolorose, anzi drammatiche testimonianze d’un
forzato esilio. Ed è proprio in tale natura assieme elusiva e documentaria,
ironica e disarmata, che va ricercata la spiegazione del loro buio fascino.
Note:
1. O. Cecchi, Giovanni Giudici, in Il Novecento, vol. IX, Milano,
Marzorati, 1982, pp. 9060-73, a p. 9072.
2. Cfr. le Note dell’autore in G. Giudici, Fortezza, Milano,
Mondadori, 1990, pp. 87-88.
3. Cfr. F. Fortini, La poesia italiana di questi anni, in Id., Saggi
italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 99-100.
4. A. Berardinelli, La musa umile, in Id., Il critico senza mestiere.
Studi sulla letteratura d’oggi, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 115-23, a
p. 118.
5. G. Leonelli, La poesia del pieno e del secondo Novecento, in Storia
della letteratura italiana, dir. da E. Malato, vol. IX (Il Novecento),
Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 1157-1244, a p. 1208.
6. C. Di Girolamo, In alto la lirica!, in «Linea d’ombra», n. 17,
dicembre 1986, pp. 87-89, ora ripubblicato in parte in G. Giudici, Poesie
(1953-1990), vol. II, Milano, Garzanti, 1991, pp. 508-11, a p. 511.
7. Ivi, p. 508.
8. G. Giudici, La gestione ironica, in «Quaderni piacentini», n. 19-20,
ottobre-dicembre 1964, pp. 23-30; ora in Id., La letteratura verso Hiroshima
e altri scritti (1959-1975), Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 207-217.
9. Id., La gestione ironica, in Id., La letteratura verso Hiroshima,
cit., p. 210.
10. Ivi, p. 213.
11. Ivi., pp. 213-14.
12. Cfr. M. Boselli, La gestione dell’ironia in “La vita in versi”, in «Nuova Corrente», 1997, n. 120, pp. 283-290.
13. Va sottolineato, tra l’altro, che evidenti rimandi al significato profondo
della gestione ironica si ritrovano ancora in alcuni scritti teorici di Giudici
risalenti, più o meno, al periodo in cui venne steso il corpus poetico di
Salutz. Rilevante per esempio, nel breve saggio La dama non cercata, è il
riferimento a quello «sperimentalismo involontario di segno rovesciato» che
costituirebbe, secondo lo scrittore, l’essenza stessa dell’autenticità poetica.
Esemplificando tale concetto, Giudici si sofferma ad analizzare i versi di due
autori «legati a una cultura poetica assai meno avanzata della loro poesia» come
Manzoni e Saba, e conclude: «“Tempio di quei che sperano” e “Amo sol
chi in ceppi avvinto” non tolgono nulla, anzi qualcosa aggiungono, alla
palpitante verticalità della Pentecoste e del Canto a tre voci:
l’aulicità , più o meno ingenuamente o consapevolmente assunta, funziona quasi
come un “test” che verifica l’autenticità artistica del testo da cui viene
agevolmente e “ironicamente” riassorbita, riscattata» (G. Giudici, La dama
non cercata, in Id., La dama non cercata, Milano, Mondadori, 1984,
pp. 37-45, a p. 49).
14. N. Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969, p. 299.
15. Ivi, p. 318.
16. G. Giudici, Salutz, Torino, Einaudi, 1986, p. 87, vv.10-11.
17. Ivi, p. 69, vv. 5-12.
18. G. Giudici, Fortezza, cit., p. 53, vv. 1-10.
19. Ad ammetterlo è stato anche Carlo di Alesio il quale, intuendo con grande
acume la convergenza di suggestioni bibliche, schiettamente tragiche e, in
qualche modo, espressionistiche nel prigioniero protagonista della sezione
centrale di Fortezza, descrisse quest’ultimo come un fratello «di Giobbe,
di Amleto e di Joseph K.» (C. Di Alesio, Parlare ‘in linguis’, in
Giovanni Giudici: ovvero la costruzione dell’opera, fascicolo speciale di
«Hortus», 18, II semestre del 1995, pp. 83-84).
20. Nello scritto Kafka e dintorni, steso tra il 1980 e il 1983, le parole con
cui vengono descritti i tratti distintivi dello stile kafkiano ricordano molto
da vicino non soltanto il modello ironico di Frye, ma anche la gestione ironica
teorizzata da Giudici stesso. La scrittura di Kafka, secondo Giovanni Giudici,
trova infatti una via di scampo dal caos della modernità rifugiandosi «nella
bidimensionalità , nella piattezza della pagina scritta, al grado zero di una
corporeità che (peraltro) non si abolisce, ma si riduce a questo minimo
proprio per ostinata volontà di sopravvivenza, cioè per non lasciarsi abolire»
(G. Giudici, Kafka e dintorni, in Id., La dama non cercata, cit.,
pp. 211-26, a p. 214). Sono parole che, come può essere facilmente intuito, bene
si adatterebbero a sintetizzare il senso del progetto poetico su cui la
struttura di Salutz e, di riflesso, quella della sezione centrale di
Fortezza si informano.
21. Cfr. in particolare G. Giudici, Gli aeroplani di Kafka ovvero:
Riflessioni sul poema, in Id., La dama non cercata, cit., pp. 26-36,
a p. 29; si veda ancora un passo dell’Antologia critica inserita in Id.,
Poesie scelte (1957-1974), Milano, Mondadori, 1975, pp. 22-26, a p. 23.
22. Cfr. Id., Come una poesia si costruisce, in Id., Un poeta del
Golfo. Versi e prose di Giovanni Giudici, Milano, Longanesi, 1994, pp.
211-23, a p. 212.
23. Cfr. Id., Fare i conti con la lingua, ivi, pp. 224-26, a p. 225.
24. Simona Morando parla, giustamente, di una «persistenza della finzione, la
costanza cioè di portare avanti per una lunga sequenza un travestimento, una
scenografia, una “trama”» (S. Morando, Vita con le parole. La poesia di
Giovanni Giudici, Pasian di Prato, Campanotto, 2001, p. 113). Pur intendendo
tale fictio come notevole punto di raccordo tra Salutz e Fortezza,
la studiosa non indaga però a sufficienza le ragioni ideologiche (e si vorrebbe
anche dire politiche) che spingono Giudici ad adottare una simile scrittura, in
effetti inedita nel percorso del poeta.
25. G. Giudici, Fare i conti con la lingua, cit., p. 224.
26. Id., Salutz, cit., p. 20.
27. Id., Fortezza, cit., p. 47, v. 7.
28. Id., Come una poesia si costruisce, cit., p. 214.
29. Ibid.
30. Si riprende, qui, un celebre verso di JiÅ™à Orten, poeta cecoslovacco amato e
tradotto nel 1968 da Giudici stesso. Il verso in questione divenne anche il
titolo dell’edizione italiana delle sue poesie (cfr. J. Orten, La cosa
chiamata poesia, Torino, Einaudi, 1969).
31. «Plus michi semper placuerunt verba quam facta, quoniam gloriosius est in
talibus vivere in spe quam in re», (Boncompagno da Signa, Rota Veneris, a
cura di P. Garbini, Roma, Salerno editrice, 1996, pp. 78-79).
32. P. Garbini, Introduzione a Boncompagno da Signa, Rota Veneris,
cit., p. 7.
33. Ivi, p. 16, che rimanda a sua volta a E. Melli, I «salut» e
l’epistolografia medievale, in «Convivium», XXX, 1962, pp. 385-98.
34. Cfr. L. Spitzer, L’amour lointain de Jaufré Rudel et le sens de la poésie
des troubadours, in Id., Romanische Literaturstudien 1936-1956,
Tà¼bingen, Niemeyer, 1959, pp. 363-417, a p. 364.
35. Tale resistenza di Minne-Midons a essere avvicinata dal poeta è sintetizzata
magistralmente da Giudici già nel 1981 quando, nello scritto Gli aeroplani di
Kafka, la Poesia viene presentata con le sembianze di «una dama capricciosa
e difficile, la nostra coy mistress» (G. Giudici, Gli aeroplani di
Kafka, cit., p. 31)
36. Id., Fortezza, cit., p. 68, vv. 1-5.
37. Id., Salutz, cit., p. 75, vv. 5-7.
38. Id., Fortezza, cit., p. 33.
39. Cfr. D. Santero, Una sacra ironia: liturgie «senza dio» di Giorgio
Caproni, in «Levia gravia», a. 2005, n. 7, pp. 151-68.
40. Dalla poesia Meteorologia (Versicoli del Controcaproni), in G.
Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 742, v. 4.
41. G. Giudici, Fortezza, cit., p. 59, pp. 2-3.
42. Dalla poesia L’ultimo borgo (Il franco cacciatore), in G. Caproni,
Tutte le poesie, cit., pp. 455-56, a p. 456, vv. 33-34.
43. G. Giudici, Fortezza, cit., p. 67, vv. 4-5.
BIBLIOGRAFIA:
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Milano, Il Saggiatore, 1983.
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editrice, 1996.
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troubadours, in Id., Romanische Literaturstudien 1936-1956, Tà¼bingen,
Niemeyer, 1959, pp. 363-417.storia.
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