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Volantinare alle happy hours
Sergio Bologna
Molti luoghi comuni e modi di pensare ostacolano oggi la ricostruzione
di un sistema di pensiero del lavoro postfordista. Le mie osservazioni
riguardano in particolare l’Italia.
Cosa intendiamo per sistema di pensiero? Non una filosofia o una
Weltanschauung generale, ma semplicemente un “punto di vista”, un
angolo visuale.
Il primo luogo comune che, a mio avviso, produce un effetto di paralisi
e di deformazione della realtà può essere riassunto nella frase: “Lo
Stato italiano ha una Costituzione, essa è il punto di riferimento
anche dei diritti dei lavoratori. L’avvento di Berlusconi ha alterato
l’equilibrio istituzionale, si tratta di ristabilire la legalità”.
In effetti la Costituzione non è mai stata formalmente abrogata o
alterata nei suoi principi fondamentali, ma alcuni di quei princìpi,
es. il lavoro come fondamento dell’ordine repubblicano, sono stati
esautorati nei fatti nel periodo 1992/1993, quando è avvenuto un vero e
proprio cambio di regime. E’ cambiata la costituzione materiale
del
Paese con le privatizzazioni e sono cambiati i sistemi di relazione
industriale. E’ cambiata la borghesia capitalista, è cambiato il ruolo
del sindacato, il lavoro non è più il centro dell’ordinamento
repubblicano.
Non si insiste mai abbastanza su questo punto: si è trattato di un
cambio di regime, che ha due precedenti storici nel Novecento:
l’avvento del fascismo e la nascita della repubblica.
La peculiarità della democrazia italiana era data dall’esistenza di un
tessuto di società civile organizzata a livello territoriale, che
costituiva sia una forma, seppur blanda, di società parallela, sia un
sistema di vigilanza sui permanenti tentativi di far retrocedere i
livelli raggiunti dalla nostra democrazia. Era il grande retaggio della
Resistenza e dell’antifascismo, la “base” dei partiti comunisti e
socialisti, la “base” dei sindacati, una certa “base” cattolica, senza
contare i residui della rete di militanti di fabbrica, sopravvissuti
alle epurazioni e alle “razionalizzazioni” degli Anni 80 e senza
contare la rete di iniziative ereditate dai conflitti degli Anni 70. Il
colpo di grazia a questa democrazia sostanziale – che peraltro si era
andata logorando negli anni e quindi dimostrava scarsa vitalità ma
almeno preservava una dimensione dell’essere cittadino molto peculiare
dell’Italia – è stato dato dal XIX Congresso del PCI, artefice
Napolitano (invocare la sua funzione di custode della Costituzione
oggi, come sembrano fare tanti precari disperati con le loro suppliche
al Quirinale, sembra un po’ stonato). Un toyotista lean party ha preso
il posto di un partito di massa, un sindacato di funzionari ha preso il
posto di un sindacato di militanti. Gli accordi del luglio 93 hanno
spento il conflitto sui luoghi di lavoro, da allora è iniziata una
lunga stagnazione dei salari del lavoro dipendente, la produttività del
lavoro in Italia ha dato segni negativi, unica situazione in tutto il
mondo industrializzato.
Ma questo è solo un aspetto del problema. Il vero salto di qualità
avviene quando l’organizzazione del lavoro postfordista riesce a
rendere tecnicamente impraticabili comportamenti che esprimono un
diritto riconosciuto e mai cancellato dal dettato costituzionale, come
il diritto di sciopero. Un lavoratore precario, un lavoratore autonomo
hanno una certa difficoltà ad esercitare questo diritto, in primo luogo
perché tecnicamente è difficile organizzare un fronte collettivo e
simultaneo di identiche modalità di azione, in secondo luogo perché si
è perduto il potere di interdizione proprio dell’arma dello sciopero.
Pertanto, quando si sono levate molte grida di dolore e d’indignazione
per l’attacco di Marchionne a Pomigliano, mi è parso opportuno
ricordare con una certa rudezza che decine di migliaia di giovani
lavoratori in Italia erano da anni in Italia privati della capacità
tecnica di esercitare il diritto di sciopero, pur avendone il diritto
formale, senza che nessuno alzasse un dito o provasse scandalo.
In questo contesto a me pare che un altro modo di pensare o, se volete,
un altro riflesso condizionato con effetti paralizzanti è quello
caratteristico di un certo “operaismo di ritorno”. Che cosa intendo con
questo? Intendo l’opinione diffusa che le lotte operaie possano ancora
generare un’inversione della tendenza al degrado dei rapporti di
lavoro. Certo, se fossero lotte offensive, che anticipano su proprie
piattaforme le iniziative padronali, potrebbero rimettere in moto un
movimento di democrazia sostanziale, ma poiché a me pare siano
piuttosto la coda di una sconfitta strutturale – scusate se questa mia
opinione può offendere qualcuno – difficilmente potranno cambiare le
cose. Chi è andato a interrogare molti degli operai che con la crisi
del 2008/2009 avevano presidiato le loro fabbriche, si è imbattuto in
aziende che non scioperavano da 16 anni, gli episodi di mancanza dei
più elementare principi di solidarietà purtroppo sono molto frequenti,
si è insinuata una paura sui luoghi di lavoro che, come diceva il
titolo di un film di Fassbinder, “divora l’anima”. Tuttavia anche le
lotte considerate “ultimi fuochi” possono accendere una prateria, ma
questa, sia ben chiaro, è quella del lavoro cognitivo, della
prestazione intellettuale. Se posso dirlo con vecchio vocabolario ma
che almeno ha il merito della chiarezza: l’equilibrio del sistema
poggia su un’impalcatura tenuta in piedi da due sostegni, l’apparato
educativo/formativo da un lato e la domanda di bassissima qualità del
mercato del lavoro dall’altro. Io credo che si possa parlare proprio di
una vera “bolla” dell’istruzione. A Milano ci sono sette università ed
ora se n’è aggiunta un’ottava, più lo stuolo assordante di corsi
privati, un eccesso di offerta formativa che produce, a fronte di una
domanda di bassa qualità delle imprese, un esercito di “ultraistruiti”
(overeducated) in progressiva crescita. Secondo la ricerca di
Unioncamere presentata a giugno, ha più possibilità di trovare un
lavoro un architetto con laurea triennale che uno con laurea
specialistica (almeno può andare a vendere mobili e arredi per la
casa). La bassa qualità della domanda delle imprese ha la sua origine
anch’essa nel “cambio di regime” che è avvenuto con le privatizzazioni
del ‘92/’93. Il collocamento dell’Italia nella fascia delle basse
tecnologie è stata una scelta di politica industriale, che negli anni
seguenti si è andata configurando con maggior spinta. E’ stata questa
la condizione per far entrare i “capitani coraggiosi” nel mondo
dell’alta finanza, la divisione internazionale del lavoro è stata
negoziata. Oggi Milano, parlo di questa regione metropolitana perché la
conosco meglio, vive più sull’economia dell’evento che sui classici
settori del terziario avanzato, vive cioè su un’economia dove la
precarietà dei rapporti di lavoro, l’intermittenza, è strutturale e
rappresenta una fonte di reddito importante della cosiddetta “classe
creativa”. Certo, la principale fonte d’accumulazione è lo sfruttamento
del territorio, l’edilizia, le grandi opere. Ma anche il cemento è una
componente fondamentale della bassa qualità della domanda di lavoro.
Un altro luogo comune è quello del potere salvifico o correttivo della
legislazione sul lavoro. Una bella legge per l’assunzione obbligatoria
dei precari nella Pubblica Amministrazione e siamo a posto, una bella
abrogazione delle leggi Treu e Biagi e siamo a cavallo. A me pare che
un sistema, un’organizzazione sociale, che sono stati costruiti nel
corso di vent’anni, è illusorio pensare che possano essere cambiati con
un colpo di bacchetta magica, e poi chi controlla la corretta
applicazione di eventuali nuove norme? Alcuni giuristi del lavoro
particolarmente attenti alle condizioni del lavoro precario e del
lavoro autonomo ormai sono convinti (e io sono propenso a dare loro
ragione) che un’ulteriore produzione legislativa non farebbe che creare
maggior confusione, di leggi ce ne sono a migliaia che si accavallano,
c’è la giurisprudenza, il cambiamento può avvenire solo da movimenti
sociali, solo da iniziative di coalizione, solo da organizzazioni
potenti e risolute d’interessi collettivi.
Dovremmo anzi combattere contro la tendenza ad affrontare i problemi
del lavoro dal punto di vista meramente giuridico o medico. A costo di
essere banali dobbiamo ripetere che la liberazione del lavoro può
avvenire solo ad opera dei lavoratori stessi.
Vediamo in concreto come ciò può avvenire.
Se immaginiamo una delle tante situazioni lavorative, in una Pubblica
Amministrazione, in un’impresa, dove stanno insieme lavoratori
dipendenti, lavoratori precari con diversi contratti e professionisti
autonomi, e dovessimo pensare come un bel giorno qualcuno di questi
gruppi decidesse di negoziare diversamente le sue condizioni di lavoro,
potremmo figurarci un sindacato che assiste i lavoratori dipendenti ma
avremmo difficoltà a immaginarne uno che assiste i lavoratori con
contratti a termine, interinali ecc..
Ora, nel pensare a forme di coalizione della componente precaria, io
penso che dovremmo rinunciare a immaginarle secondo gli schemi storici
che hanno riguardato i lavoratori dipendenti, nel senso che dovremmo
accettare l’istituzionalizzazione di una contrattazione e di una
negoziazione individuali, purché assistite, cioè affiancate da una
figura sindacale che da un lato si offre come “testimone”
dell’atteggiamento dell’impresa verso il lavoratore (eliminando in tal
modo le possibili minacce, i possibili ricatti, le possibili proposte a
scapito di altri lavoratori nell’incontro a tre), dall’altro si
presenta come tramite di una comunicazione pubblica di quanto avviene
nel negoziato e di messa alla gogna di comportamenti intimidatori. Se
questa immagine di un assistente alla trattativa vi pare ridicola,
pensate al fatto che sembra normale pensare a un esercito di psicologi
o di medici impegnati nell’assistere il lavoratore che denuncia
situazioni di stress. Voglio dire che l’assistenza individuale viene
considerata normale se si presenta come assistenza psichiatrica, mentre
sembra una stranezza se assume la figura di assistenza sindacale.
L’organizzazione del lavoro infatti è attenta a non concentrare i
lavoratori a termine in un unico reparto, ma li distribuisce a macchia
di leopardo per impedirne la comunicazione, solo nella manifattura di
grande industria ci sono intere squadre compatte di operai “esterni”,
mentre in molti settori dei servizi possono esserci cooperative di
lavoro o intere ditte di subappalto. Nel lavoro di tipo
cognitivo/amministrativo/creativo/comunicativo in genere il precario è
sparso a pioggia lungo l’organizzazione, in rapporto da uno a uno o da
due a uno con il lavoratore dipendente. Pertanto immaginare una
“ricomposizione” del precariato sul luogo di lavoro a mio avviso è
illusorio. L’altro fattore di frammentazione è dato dalla mobilità, è
difficile che i colleghi trovino sedi d’incontro comune, l’appartenenza
dei lavoratori precari a luoghi di residenza molto diversi e in parte
distanti tra loro non è un fatto casuale ma un elemento che l’azienda
prende in considerazione sin dall’esame dei curricula. Il terzo aspetto
che determina il forte controllo esercitato dall’organizzazione
(pubblica o privata) sul lavoratore precario è il rapporto gerarchico
con una figura specifica, in modo da “personalizzare” al massimo questo
rapporto e trasformare l’ordine gerarchico in compatibilità di
carattere tra due persone. Il sistema postfordista è l’esatto opposto
dell’organizzazione gerarchica anonima, della macchina impersonale. E’
invece un tessuto apparentemente anarchico di combinazioni individuali,
di rapporti a due: il capo, il responsabile del reparto e il precario
appena arrivato. Questo tra l’altro produce una pressione non
indifferente sul responsabile, che ogni tre/sei mesi si vede arrivare
una nuova persona e deve farla accettare ai due impiegati fissi
presenti. L’organizzazione del lavoro postfordista è fatta apposta per
far star male tutti quanti, il forte disagio psichico diventa la
condizione migliore per accettare la disciplina e l’ossequio alle
gerarchie come terapia di contenimento.
Una possibile “ricomposizione” può avvenire invece su base
territoriale, creando delle “agorà del lavoro” – secondo l’idea
lanciata dalla Libreria delle Donne di Milano, ma ancora non realizzata
- dove lavoratori intermittenti e autonomi e dipendenti con
disponibilità alla coalizione, possano ritrovarsi e discutere insieme
strategie di resistenza. Che ci sia un luogo dove far confluire le
esperienze e i desideri, dove ci sia informazione sul mercato del
lavoro e sulle normative, ma in particolare un luogo che dia visibilità
al tema del lavoro intellettuale tra “bolla” educativa e miseria della
domanda. Non mi soffermo, perché altri lo faranno, sull’attività di
networking o di socialworking tramite la comunicazione via Internet,
come forme oggi più in voga per creare discussione e coalizione.
Volantinare alle happy hours potrebbe essere necessario per
propagandare queste iniziative.
A Milano per quanto ci riguarda, con la piccola esperienza di ACTA,
abbiamo cercato di fare un passo avanti nel creare un’identità di
gruppo con la stesura di un “Manifesto del lavoro autonomo”, che
diventa anche una carta programmatica, in contrapposizione a quella
ideologia del “professionalismo”, che è stata determinante nel
costituire i fondamenti della mentalità del ceto medio, della
piccolo-media borghesia, dei white collar. In questo senso condividiamo
interamente la definizione di no collar che Andrew Ross ha dato di un
certo genere di lavoro intellettuale nell’epoca di Internet. Nelle
nostre intenzioni il Manifesto è un tassello di quel “sistema di
pensiero” del lavoro nel postfordismo di cui parlavo all’inizio .
Bologna, 25
novembre 2010.
[30 novembre 2010]
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