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Lo sguardo sull’altro.
Considerazioni a partire dal volume Facce da straniero, 30 anni di
fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia.
Eugenio Moltisanti
Proprio su questa sfera di visibilità sociale intende concentrarsi questo saggio
che si pone l’obiettivo di indagare la rappresentazione fotografica che degli
immigrati è stata data in Italia nel corso degli ultimi trent’anni. Lo sguardo
sull’altro è il titolo del progetto di ricerca promosso dal Forum internazionale
ed europeo di Ricerche sull’immigrazione (FIERI) che con un archivio di 15.000
immagini costituisce lo studio di riferimento per chiunque oggi volesse
affrontare la questione, sotto un innovativo angolo metodologico di tipo
interdisciplinare3.
La svolta degli albanesi
La riconfigurazione del razzismo
si rivelano due andamenti. Da una parte il confinamento del tema razzismo alle
questioni delle minoranze politiche e politicizzate, con un conseguente
scollamento rispetto al tema dello sfruttamento che ne aveva marcato il senso
durante gli anni ’80. Dall’altra parte, la costruzione di un immaginario
reiterato a supporto di questo nuovo discorso sul razzismo […] un immaginario
fortemente simbolico e generico, a supporto di articoli in cui è invece costante
la ricerca di episodi di cronaca circoscritti, utili a consolidare la tesi
dell’aumento dell’aggressività da parte delle minoranze razziste8.
Scollegato dal frame del razzismo, lo sfruttamento lavorativo di italiani su
immigrati stranieri si lega al contesto in cui avviene l’omicidio Masslo: le
campagne del sud Italia, il fenomeno del capolarato, il lavoro come braccianti
agricoli stagionali di africani maschi di colore. Prima dell’omicidio di Masslo,
«Famiglia Cristiana» titola: Lavoro negro sull’immagine dell’africano «di
colore» che raccoglie i pomodori nelle campagne del sud; «Il Venerdì», ad un
gruppo di africani «di colore», intenti a trasportare cassette colme di
pomodori, dà il titolo: Gli schiavi. «Epoca» del 10 settembre 1995 propone un
reportage da Villa Literno affidato a Pap Khouma, in cui le fotografie che
aprono il servizio mostrano unicamente africani maschi «di colore». La copertina
de «L’Espresso» del 7 settembre 2006 ritrae il reporter davanti ad una cassetta
di pomodori con il titolo: Io schiavo in Puglia. «Sette» del 18 agosto 1994
propone il titolo: Qui è peggio che in Sudafrica (terra di Masslo) e nella foto
di apertura, da Villa Literno, un ragazzo africano mostra al fotografo le sue
mani colme di pomodori. Un anno dopo (24 agosto 1995) sempre «Sette» mette in
discussione questo discorso dello schiavismo di italiani sui “neri”. Nel testo a
fianco dei “neri” , compaiono nuovi gruppi (albanesi, slavi, nordafricani) a
dare vita ad «un’organizzazione, quella del capolarato, fatta di nuovi schiavi e
nuovi aguzzini». È una «guerra tra poveri» quella che viene raccontata, che
tocca anche la prostituzione, con “le nere che subiscono la concorrenza delle
albanesi”. Si affermano così altri due frame ricorrenti nella narrazione
dell’immigrazione in Italia: quello della «guerra tra poveri», declinato in
parte come conflitto interetnico, e quello dello sfruttamento di stranieri
immigrati su altri stranieri immigrati. Si veda ad esempio il servizio de
«l’Espresso» del 2 dicembre 2004 su Il racket dei cantieri nel nord Italia;
oppure l’apertura del servizio di «Panorama» intitolato: Prima ti sfrutto, poi
ti raggiro. Si segnala che anche in anni più recenti le fotografie dei
braccianti agricoli nel sud Italia sono archiviate dalle agenzie giornalistiche
con la parola «sfruttamento», quello che otterrebbero sarebbero proprio le
fotografie degli stagionali nelle campagne del Mezzogiorno. Si tratta quindi di
un processo di stereotipizzazione in cui l’esclusività di un frame si lega
all’esclusività di un immaginario contestuale (gli stagionali impiegati in
agricoltura).
Il modello Pantanella
Inoltre gli orientali non si lavano. No, non si lavano mai, non gli piace,
possono resistere mesi interi solo sciacquandosi gli occhi. Appena un marocchino
volta l’occhio, un tunisino dice di lui che i marocchini sono rapinatori. Dei
tunisini il marocchino dice che sono spacciatori di droga. Degli algerini,
ambedue dicono che sono ladruncoli da strada. Tutte queste cose, degli arabi, le
dicono gli orientali, definiti a loro volta tutti assassini e spacciatori dagli
arabi. Anche degli arabi, gli orientali dicono che non si lavano, che vivono nel
disordine e nella sporcizia, che il loro cibo non ha un buon odore, che urlano
sempre, che sono facili di coltello, nevrotici, aggressivi. Ogni etnia ha la sua
enclave, inequivocabile, miserabile, definita secondo regole che si intuiscono
subito9.
Un altro modo, radicalmente diverso di trattare la questione della Pantanella è
quello di «Sette» che sottolinea la situazione abitativa complessa, la storia di
quel luogo e l’avvicendarsi di uomini al suo interno, nonché i molti sforzi
della maggior parte degli occupanti per vivere in armonia tenendo lontani la
devianza e l’illegalità. Più che uno scontro tra etnie, per «Sette», si tratta
di uno scontro tra persone che si sono insediate lì per miseria, un luogo di suo
degradato, popolato di spacciatori in prevalenza italiani, che hanno subito
l’arrivo di uomini e donne disperati, vinti, costretti alla prostituzione e allo
spaccio per sopravvivenza: da questa difficile convivenza sarebbe nato lo
scontro violento raccontato alla fine dell’articolo, iniziato e terminato nel
giro di una notte.
La narrazione delle religioni: l’Islam
Note
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Sul fenomeno migratorio in Italia ad aver scritto molto sono soprattutto i
sociologi. In uno dei contributi più discussi – Non persone di Alessandro Dal
Lago – si sostiene che i migranti siano trattati dalla nostra società come «non
persone». Si fa in particolare riferimento all’uso comune che in inglese ha il
termine, con il quale si intende una «persona che, solitamente per ragioni
politiche o ideologiche, è esclusa da ogni riconoscimento o considerazione»1.
Quanto a noi, ricordando l’origine etimologica latina del termine persona, che
denota la maschera rituale indossata nel corso di rappresentazioni sacre, ci
preme rifarci al significato francese del termine personne indicante tra l’altro
il «volto umano»,
ovvero l’uomo in quanto visto dagli altri, inserito in una rete di sguardi, di
relazioni, di socialità. In quest’ultimo significato, la parola comporta delle
sfumature più ricche di quelle offerte dal termine “uomo”. In quanto uomo in
senso sociale più che biologico, la “persona” rimanda inevitabilmente a un
significato morale2.
Quale visibilità dunque hanno avuto nel campo fotogiornalistico italiano i
migranti? Quali sono le categorie umane a cui è stato dato un volto? Cosa di
loro è stato mostrato e in quali modi? Come queste rappresentazioni si legano al
più ampio discorso pubblico sull’immigrazione?
Affrontare tali questioni implica innanzitutto una premessa, a proposito della
scarsa presenza di fotografi nelle redazioni di giornali, e, più in generale,
della non-curanza nella scelta delle fotografie. Nel complesso della produzione
giornalistica, alla fotografia toccherebbe pertanto un ruolo ancillare: quello
di illustrare la notizia, piuttosto che di informare.
Di suo la fotografia è sia documento, che strumento di costruzione di messaggi.
Per comprendere il passaggio dalla fotografia tout court alla fotografia
giornalistica, è utile accennare brevemente ai due processi di desktizzazione e
framing. Con deskitizzazione si intende quel processo per cui le fotografie non
vengono più raccolte in maniera diretta – come faceva il giornalismo di
inchiesta – ma attraverso il giro di telefonate ai vari uffici stampa, pubblici
e privati, processo questo che si è ulteriormente affermato con
l’informatizzazione. Il processo di framing riguarda invece il taglio
interpretativo che contraddistingue il servizio stesso. La fotografia viene
messa in relazione con gli altri elementi, e in special modo con il paratesto
(titolo, occhiello, sommario, didascalia, eventuali grafici). «È proprio il
legame tra il processo di framing operato sul paratesto seguendo un principio di
coerenza e la routine produttiva condotta attraverso una ritualità delle
pratiche, a dare vita al ricorrere di determinate associazioni immagini-testo su
archi di tempo anche lunghi»4. Si costruiscono così stereotipi e cliché. Il
processo di selezione al desk e quello di messa in pagina possono portare dunque
a quello che Pogliano definisce il «dominio dell’immaginario sull’immagine»,
tanto che spesso si sa in anticipo quale foto cercare. Di grande interesse, la
questione ampia e complessa del rapporto tra immaginario e immagini dei
migranti, è uno dei punti su cui torneremo più spesso nel corso di questo
scritto. In particolare si metterà in evidenza come nelle forme dello scambio
tra fotografi, agenzie e redazioni giornalistiche, e nelle modalità di
presentazione, riposi una parte importante delle distinzioni che verranno
tracciate.
Gli anni ottanta
Tra gli otto periodici analizzati, il primo servizio che tematizza
sull’immigrazione esce su «Panorama» il 14 settembre 1981: sotto l’occhiello
«Immigrazione» si prospetta un primo stereotipo, quello del nero (Chi ha paura
dell’uomo nero?, recita infatti il titolo). Nel sommario emerge subito il
desiderio di sapere, di contarli: «quanti sono e cosa fanno i “neri” in
Italia?». La risposta viene nel corso dell’articolo: «Sarebbero 200 mila. La
gran maggioranza, circa 150 mila irregolari o clandestini». Questi 200 mila
corrisponderebbero agli immigrati di colore tout court, come se gli immigrati
fossero i neri. Inoltre, gran sorpresa, si tratterebbe di gente preparata, solo
il 10,4% sarebbe analfabeta. Non si capisce da dove vengono questi immigrati.
Così anche a livello fotografico, la donna eritrea colta al mercato e l’uomo che
fa il benzinaio all’Agip sono accomunati dall’essere nero. D’altra parte queste
foto risultano rispettose: non alimentano né la paura dell’invasione, né quella
della criminalità, piuttosto viene messo in risalto il tema dello sfruttamento
sul lavoro. In generale nei servizi presi in considerazione l’immigrato viene
definito come «nero», «africani» e più tardi «vu cumprà», mentre per parlare
della loro provenienza si usa l’espressione «Terzo Mondo».
«L’espresso» del 27 febbraio 1983, sotto l’occhiello Lavoratori stranieri titola
Gli africani d’Italia. Subito dopo ci si chiede: «Quanti sono?». I dati però
riguardano in generale gli stranieri immigrati tutti: assistiamo quindi alla
sovrapposizione di questa categoria ben più ampia con quella di «Africani». Per
giustificare la presenza, tra i soggetti fotografati, di un iraniano viene
adottato un altro frame unitario: «alcune immagini dal Terzo Mondo».
«Sette», il 28 maggio 1988, pubblica il servizio Fratelli neri d’Italia e mostra
due fotografie: una raffigurante delle donne somale per strada, l’altra degli
uomini somali a lavoro. E poi nel sommario: «Un tamil di Ladispoli. Un
senegalese di Cassano d’Adda. Un cinese di Trastevere. Sono tre storie qualsiasi
di immigrati in Italia, neanche tra i più sfortunati, neanche tra i più
maltrattati».
Inoltre si dice che i clandestini grazie ad una legge apposita potrebbero
mettersi in regola, ma rischiando di essere subito licenziati dai padroni che
preferiscono pagare in nero: razzismo e sfruttamento sul lavoro sono dunque
considerati due facce della stessa medaglia, la cui vittima è l’immigrato nero
povero. Si può dunque affermare che «regolari o non regolari, provenienti dal
Senegal, dal Sudan, dal Corno d’Africa, dal Marocco, dall’Egitto, dalla Tunisia,
dalla Cina, dallo Sri Lanka, persino gli zingari jugoslavi, ricadono tutti nello
stesso “mucchio”. Sono i poveri del Terzo Mondo, nel dubbio sempre clandestini,
che i media chiamano i “neri” sia per via di uno stereotipo diffuso (il Terzo
Mondo è sempre prima di tutto la cosiddetta Africa nera), sia perché il “nero”
si adatta molto bene al frame del razzismo»5. Questo tipo di racconti sugli
immigrati si cristallizza nello stereotipo dell’ambulante. Non vengono seguite
in questa prima fase degli anni ’80 storie “particolari”. I fotogiornalisti
raccolgono quindi immagini di strada, dove il soggetto ripreso è individuato
come straniero, cosa che alimenta l’equazione immigrato = africano “di colore” =
«nero». L’appellativo «vù cumprà» e l’icona del venditore ambulante di origine
africana diviene l’epitome giornalistica di un fenomeno ben più complesso e
sfaccettato. È «L’Espresso» del 6 maggio 1988 che titolando Il clandestino e
riprendendo il frame del razzismo, ci mostra il venditore ambulante con la sua
sacca di mercanzie, presentandolo «scontornato», cioè togliendo dall’immagine
ogni elemento contestuale, per limitarsi alla figura, riducendolo ad un’icona.
La cristallizzazione della figura come la più «adatta» ad illustrare il racconto
dell’immigrazione, concentrandosi sui soggetti marginali più visibili porta ad
una sovrapposizione tra la categoria dei neri e quella dei venditori ambulanti.
Emblematici di questo processo sono i titoli: Vù emigrà?, Vù cumprà una nuova
vita?, Vù campà?. Una sintesi di questo stato di cose ce la offre la copertina
de «L’Espresso» del 3 luglio 1988, che vede un ragazzo africano, venditore
ambulante (irregolare), e sotto il titolo Razza uomo; il testo preannuncia
l’inchiesta delle pagine interne sulla legge che riguarda tutti gli stranieri
immigrati, presentata come «una carta dei diritti per gli immigrati di colore».
In un clima del genere, l’omicidio di Jerry Essan Masslo, impiegato «in nero»
come lavoratore stagionale nella raccolta di pomodori a Villa Literno, in
provincia di Caserta, avvenuto nella notte fra il 24 e il 25 agosto 1989,
coinvolge i media, divenendo subito un’icona dello sfruttamento e del razzismo
che colpisce gli immigrati «neri» del Terzo Mondo, «gli Esclusi» come titola in
copertina «l’Espresso» del 10 settembre 1989. Il caso Masslo diventa il punto
culminante verso cui convergono le narrazioni dei media, oltre che punto di
partenza da cui muovere per parlare del Terzo Mondo in Italia. L’unico contesto
per parlare di immigrazione pare infatti essere quello dello sfruttamento,
precarietà e miseria come nel caso paradigmatico di Villa Literno.
L’anno successivo, il 1990, vede il ritorno del frame del razzismo. Il 10
dicembre 1989 «L’Espresso» pubblica il servizio Razzisti si diventa. Nel primo
numero del 1990 «Epoca» pubblica una foto in doppia pagina con un gruppo di
immigrati africani che portano in corteo il ritratto-icona di Jerry Esslan
Masslo, titolando L’esercito degli italiani di colore. Il 31 marzo 1990 «Sette»
racconta gli episodi razzisti che ebbero luogo a Firenze con un ampio reportage
di Robert Koch col titolo S.O.S. Razzismo. E infine una foto rappresentante
Umberto Bossi, che appare così per la prima volta nella sua propaganda anti-immigrazione. Sarà proprio la politicizzazione della questione immigrazione
a cambiare gli orizzonti delle rappresentazioni. Gli anni ’80 si chiudono avendo
visto una rappresentazione del fenomeno migratorio principalmente in tema di
razzismo; a questo si affiancano quello della povertà del Terzo Mondo e quello
della ricerca di un lavoro formalizzato e stabile, ancora non contaminato
dall’avanzare del discorso sulla criminalità organizzata.
A dieci anni di distanza, un nuovo impaginato di «Panorama» ci offre l’occasione
di comprendere il percorso fatto dal giornalismo italiano nel racconto delle
migrazioni, con l’ingresso sulla scena di nuove figure, quindi di nuove domande
e nuove necessità di rappresentazione. Il numero di «Panorama» del 24 marzo 1991
si apre con la fotografia su due pagine di una massa di uomini albanesi sulla
banchina del porto di Brindisi, tenuti dietro una cordata di poliziotti. Si
tratta di un evento inatteso che obbligherà i media a riscrivere le
rappresentazioni dei migranti in Italia, in concomitanza con altri fattori.
L’«invasione» contiene aspetti invisibili, la minaccia ad esempio è anche
sanitaria come rendono visibili le maschere bianche dei poliziotti. Non
esistono, in tutta la storia dell’immigrazione in Italia, immagini in grado di
rappresentare meglio di quelle giunte in quei giorni dal porto di Brindisi, la
svolta cognitiva ed istituzionale che allora investì il paese.
La novità viene resa da «Panorama» all’interno del vecchio frame degli anni
precedenti. Titola infatti E se fossero neri?. Il paratesto di questa duplice
pagina si chiude con due piccole foto, in cui sono rappresentati due esponenti
di spicco del Parlamento italiano, facenti riferimento a due culture diverse:
Claudio Martelli e Giorgio La Malfa. Come sottolinea la sociologa Laura Balbo:
«Negli immigrati neri quello che la gente percepisce come uno stereotipo
minaccioso, secondo alcune ricerche, è l’immagine del maschio adulto solo senza
famiglia. Queste persone giovani, bionde, queste famiglie sane, con tanti
bambini, sbarcate dalle navi, avevano tutt’un altro impatto sull’opinione
pubblica»6. Come sostengono Zanini e Pogliano: alle rappresentazioni dei «neri
per strada» si aggiungono ora quella delle «masse di profughi albanesi» senza
che vi sia un reale rinnovamento dell’immaginario. L’immaginario tende ad essere
avvitato su immagini simili che hanno cristallizzato l’idea di un’immobilità
sociale, una passività, un adeguamento a condizioni di vita «miserabili» da
parte dei migranti. Tuttavia l’arrivo degli albanesi rompe quell’immaginario,
fin qui dominante che aveva visto nei neri gli immigrati tout court. Da qui in
avanti la differenziazione dei «gruppi etnici» sarà il nuovo modo di declinare
la narrazione giornalistica dello straniero. Viene superata dunque la visione
del frame terzomondista per cui la miseria «nera» è l’unica povertà avvertibile
al di là dei due mondi est-ovest. A questa «svolta» corrisponde un passaggio dal
frame del razzismo a quello delle differenze (culturali ed etniche) ed al tema
del «multi-razzismo». Si assiste ad una reimpostazione dei discorsi. Il frame
criminalità e devianza si sostituisce quasi all’improvviso a quello del
razzismo, a partire dai due sbarchi degli albanesi del 1991. A profilare tali
nuovi orientamenti è ad esempio un servizio di «Epoca» dal titolo: Albanesi
d’Italia: brutti, sporchi e.... E si continua nel sommario: «C’è anche gente
aggressiva, rissosa, mai contenta». L’inizio dell’articolo trasforma un episodio
circoscritto, capitato ai giornalisti, in metafora dell’intero gruppo: quello
delle «temibili mani roteanti» di «un massiccio ex-magazziniere di Durazzo che
grida “figli di puttana”».
Anche «L’Europeo» del 28 aprile del ’90 aveva offerto una svolta, per cui a
seguito di un’inchiesta Doxa si era decretato che noi, italiani, «non siamo
razzisti». «Panorama» è su questa stessa linea nel momento in cui il 26 aprile
1992 apre con il seguente sommario: «In Italia non c’è vero razzismo. Ma ci sono
partiti che cavalcano il malcontento»7. Il razzismo viene confinato a gruppi
ideologici, o viene tradotto in racconto personalizzato nelle figure di leader
come Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Accanto ai «neri» raccoglitori di pomodori
nelle campagne del sud, si affiancano altri «neri», i neofascisti: «skinhead» e
«braccianti», i nuovi poli intorno a cui verterà il razzismo d’ora in avanti
nelle varie testate. È «Panorama», il 18 marzo 1990, a proporre uno dei primi
servizi che tratta di «nuovi razzisti/i picchiatori», focalizzando la questione
su «nazi, skinhead, ultrà degli stadi». Su «l’Espresso» del 13 ottobre 1991 si
parla di «razzismo generalizzato»: Uno spettro s’aggira per l’Europa,
l’occhiello; Non passi lo straniero, il titolo. Ancora «Panorama», il 1°
dicembre 1992 produce un dossier tematico sull’argomento delle minoranze
neo-naziste, indicandolo come fenomeno crescente in Italia e in Europa. Come
evidenziano i nostri:
La vicenda che si presenta come l’occasione per produrre distinzioni tra gruppi
etnici è quella che riguarda l’occupazione e poi lo sgombero dell’ex pastificio
Pantanella a Roma, dove per quasi un anno si è svolto un tentativo di convivenza
mediato della Caritas da parte di gruppi prevalentemente asiatici e
nordafricani. L’attenzione sulla Pantanella si intensifica nell’inverno 1990-91,
a seguito di una notte di violenze nella ex fabbrica, che ha portato la polizia
ad intervenire, e di una manifestazione di protesta dei comitati di quartiere,
infastiditi dalla presenza di immigrati extracomunitari nella loro zona di
residenza. Esempio importante è quello di «Epoca» del 21 novembre 1990 dal
titolo: Guerra. Neri contro asiatici e italiani contro tutti. Mentre in
didascalia si legge: «Secondo le stime della Caritas quest’estate alla
Pantanella abitavano 1093 pakistani, 197 marocchini, 114 indiani, 392 cittadini
del Bangladesh, più altri gruppi etnici meno numerosi».
Il testo verte sugli scontri tra «etnie», che nelle foto ritroviamo suddivise,
aiutati da simboli messi ben in evidenza (i turbanti che coprono il capo degli
indiani di religione Sikh, la bandiera libanese alle spalle di un uomo, la
scritta Pakistan community alle spalle di un gruppo). Da notare sono i
virgolettati riferiti ai commenti degli abitanti della Pantanella e ancorati
alla questione dei pregiudizi nei confronti di altri gruppi etnici immigrati:
Il secondo servizio utile a comprendere la questione delle differenze etniche è
quello di «Sette» del 19 ottobre 1991, dove si dà grande spazio alle fotografie
che sono dei ritratti in posa di famiglie, prese come rappresentative di diverse
provenienze nazionali: Somalia, Egitto, Perù, Senegal, Cina, Sri Lanka proposti
con titoli semplificatori (i somali, gli arabi, i sudamericani, i senegalesi, i
cinesi, gli asiatici). Inoltre, i testi di un sociologo, accostati alle
immagini, raccontano sia la realtà della famiglia fotografata, sia ciò che si sa
per tramite dei lavori di ricerca sociale su queste realtà etnico-culturali
allargati. L’uso dello stereotipo delle famiglie «esemplari» è dunque un
pretesto per andare al di là dello stesso testo. Al contempo le famiglie
mostrate sono trattate nel testo con aderenza alla realtà concreta: i soggetti
rappresentati sono cioè personificati in modo concreto e non astratto. Dal
versante opposto, ancora «Epoca» del 9 settembre 1992, propone un articolo su
Milano con un’apertura pienamente incentrata sulle suddivisioni tra etnie e
conflitti etnici, come a dare legittimità alla trasposizione del «modello
Pantanella» per la stessa città di Milano. Le fotografie illustrano una famiglia
al lavoro in un laboratorio di pelletteria, un uomo che dorme sulla paglia,
uomini con alle spalle delle roulotte in quello che sembra un campo. Le quattro
didascalie sono accompagnate dai seguenti titoli: Schiavitù, Hotel zoo,
Violenza, Lo sgombero. Quello che l’assommarsi di queste fotografie riesce a
produrre è una sensazione di precarietà e confusione che ruota intorno alla
scritta «polizia» sulla fiancata dell’elicottero.
Proseguire con un elenco di tutti gli articoli che propongono distinzioni per
etnie sarebbe lungo. Ci soffermiamo invece su alcuni servizi particolari che
producono differenze su linee etniche. In un sommario da «D di Repubblica» del
21 gennaio 1997 si legge: «dalla strada alla fabbrica, dai mercati alle case,
dal duro mestiere di lavavetri all’impresa di pulizie. Esiste una “carriera”nel
mondo degli immigrati in Italia? E quali percorsi, sociali ed etnici, segue?»10.
Tranne l’immagine di un meccanico in apertura, le altre sono tutte di venditori
ambulanti e di «lavavetri», praticamente tutti uomini e di origine africana; un
immaginario sovrapponibile a quello dei «neri» degli anni ottanta: lavoratori
che non trovano di meglio, in difficoltà a ottenere il permesso di soggiorno. Se
si prende in considerazione «D di Repubblica» del 21 aprile 1998, le distinzioni
rintracciabili nelle immagini riguardano per l’appunto il legame tra etnie e
diversità dei riti religiosi. Si trovano diverse forme di fede cristiana
ortodossa: quella eritrea e quella copta egiziana; gli ebrei nella sinagoga; i
sudamericani che celebrano il «senor de los milagros» e gli Hare Krishna. Infine
«l’Espresso» del 7 ottobre 1999. Il titolo del servizio è: Delinquenti di razza.
Il sommario, il seguente: «Cinesi, nigeriani, albanesi, russi. Dalla
prostituzione alla droga, tutti hanno le loro specialità. Eccole». Il testo è
illustrato da tre fotografie, dove protagonista è la polizia; le immagini sono
dunque il risultato di un incontro tra fotografie d’agenzia e forze dell’ordine,
ma sono presenti anche altre distinzioni visive come quella tra maschi criminali
e donne devianti, spesso accomunati nei traffici di prostituzione. Presenti
inoltre sono gli albanesi, soggetti molto visibili negli anni novanta, ogni
volta che si parla di criminalità straniera.
Uno degli aspetti più interessanti da analizzare dei cittadini stranieri è
quello dei percorsi di fede e spiritualità. La religione si pone come uno spazio
mentale e fisico dove alcune caratteristiche del sentire comunitario (la nazione
di solito) possono realizzarsi. Lo spazio sociale del culto diviene talvolta
anche luogo di ritrovo, occasione di raccolta di rimesse economiche in supporto
dei fratelli rimasti in patria, di pratiche di solidarietà con i fratelli
presenti in Italia. Stando alle stime del Dossier Caritas Migrantes le prime
religioni degli stranieri in Italia sarebbero quella musulmana e quella
cristiana ortodossa, che costituirebbero i due terzi del totale, seguiti dalla
religione cattolica. La religiosità con i suoi riti non trova spazio nel
giornalismo quotidiano, in quanto la sua dimensione rituale è opposta alla sfera
dell’azione che produce novità. La religiosità trova così spazio sui media in
quanto connessa a degli eventi secondo le logiche della notiziabilità, secondo
cioè paradigmi di azione che nulla hanno da spartire con il contenuto intrinseco
del credo religioso in questione. Diverso è il caso della stampa periodica, dove
i tempi più lunghi dell’informazione permettono la tematizzazione della
religione. Le espressioni della religiosità possono avere sia contenuto intimo,
che sociale. In genere è la dimensione rituale collettiva ad avere maggiori
possibilità di essere rappresentata, a causa dell’aumentare della visibilità
pubblica del rito e dell’omogeneità del gruppo etnico coinvolto. La «comunità
religiosa» di gran lunga più rappresentata dal fotogiornalismo italiano è quella
islamica, su questa ci soffermeremo.
Una delle foto che colpiscono di più nella rappresentazione dell’Islam è quella
sulla copertina di «Sette» del 10 febbraio 1990. Il soggetto raffigurato è
Federico Ali Schutz, cittadino svizzero e italiano convertitosi alla religione
musulmana che lavorava in quegli anni presso il centro islamico di Milano.
Questi viene fotografato nell’atto intimo di pregare, nella piazza davanti al
duomo di Milano, poggiato su un tappeto: «il contrasto che si crea tra questa
intimità del ritratto e lo spazio pubblico in cui è realizzato ci restituisce il
soggetto estraneo come una presenza che esiste umanamente al di qua del gesto
estraneo, al di qua dell’appartenenza religiosa»11. Il reportage relativo a
questa copertina è un esempio di un lavoro contrassegnato dalla forma della
personalizzazione concreta, attenta alla dimensione quotidiana. Il servizio si
apre con un sommario che parla del «variegato popolo dell’Islam», che include
«paesi con culture e tradizioni diverse: dal Marocco all’Iran, dal Senegal
all’Arabia Saudita». A queste si aggiungono le differenze di status («poveri
immigrati o ricchi uomini d’affari») e maniere di intendere la fede («rigidi
integralisti o semplici osservanti»). Nelle fotografie ad essere rappresentata è
l’attività che l’uomo della copertina svolge a casa e al centro islamico;
inoltre viene raffigurata la quotidianità di bambini, uomini, donne e famiglie
musulmane a scuola, in casa, al lavoro. Se confrontiamo questo immaginario con
le immagini che hanno riempito i media con continuità dopo l’11 settembre, ad
emergere come costante è l’iper-condizionamento della dimensione religiosa
sull’esperienza individuale dei musulmani. Si tratta del trasferimento dal piano
macro al micro del discorso che riguarda le strutture degli stati a maggioranza
mussulmana, dell’assenza della divisione stato-chiesa tipica dell’occidente a
maggioranza cattolica. La massa priva di volti (di individualità), di uomini in
preghiera, schiacciati al suolo, riassume in maniera ideale la semplificazione
che circola nei discorsi della politica a proposito dell’Islam, descritto per
l’appunto come omogeneo, pre-esperienziale, fonte di fanatismo. Immagini di
preghiere in luoghi pubblici si prestano, in virtù delle proprietà formali di
alcune fotografie a valere come pezza legittimante al discorso del terrorismo
islamico internazionale, divenendo icone di temi, slegati dal loro contesto
locale. In realtà già prima dell’11 settembre si pensava allo «scontro di
civiltà». Si legge nel sommario de «L’Espresso» del 28 ottobre 2000: «Sono 560
mila gli immigrati islamici in Italia. In maggioranza integralisti. Che vogliono
anteporre le loro leggi a quelle dello Stato».
L’immagine scelta per illustrare questo servizio intitolato La paura
dell’Islam. L’ ultima crociata è quella di una massa di fedeli in preghiera in
piazza Duomo, dove nemmeno un volto è distinguibile. È proprio «l’Espresso»,
all’indomani degli attentati americani, a far precipitare la rappresentazione
dei fedeli musulmani immigrati in Italia all’interno della dimensione della
paura, del controllo poliziesco, del terrorismo: titolo (Venti di
guerra/l’Italia e l’Islam. Vivere con la paura), testata (Operazione Bin Laden),
sommario («Il terrorismo che ha colpito gli USA angoscia il paese. E complica
l’integrazione di oltre 560 mila musulmani»), fotografie d’archivio (carabinieri
del Gis in azione di guerra contro fedeli in preghiera a Roma). È interessante
fare un confronto con il servizio di «Famiglia Cristiana» dell’11 settembre
2005. Ciò che più sorprende è che si riprende la foto di Ali Schutz su «Sette»,
in un articolo che si propone di «sfatare molti stereotipi sui 900.000 immigrati
musulmani nel nostro paese». Le fotografie utilizzate in questo servizio
mostrano singoli individui e coppie di persone, che contrastano con l’anonimato
della massa, e addirittura un «nero», ritratto durante un evento pubblico
abbracciato alla sua compagna «bianca», in una fotografia che è usata per
illustrare «le coppie islamo-cristiane [che] sono circa 15.000» come si legge
nella didascalia: ci si smarca così da quell’immaginario dominante che associa
arabi, Islam e minaccia terroristica.
Le rappresentazioni dominanti hanno contribuito poi a mantenere una distinzione
molto in voga nel discorso politico: quello tra islamici moderati e islamici
fondamentalisti. Tale distinzione è già su «L’Europeo» del 26 marzo 1993 che
presenta un servizio sui musulmani in Italia intitolato E adesso separiamo i
buoni dai cattivi. Come esempio dei «buoni» viene ripreso ancora Ali Schutz,
mentre i «cattivi» sono illustrati con la fotografia di un piccolo gruppo di
preghiera per strada, colto di spalle. Davanti a loro è parcheggiata una
camionetta delle forze dell’ordine. La didascalia è la seguente: «Immigrati
arabi in Italia pregano in mezzo alla strada, controllati a vista dalla
Polizia».
«Magazine» del 23 settembre 2004 presenta un servizio dal titolo: Una giornata
con l’imam moderato. Si tratta di Feras Jabareen, italiano di Colle Val d’Elsa,
convertito all’Islam. Bisogna notare come sia la personalizzazione concreta
della foto e il fatto che il soggetto in questione è italiano a determinare la
rappresentazione dell’Islam moderato. L’imam è fotografato nel salotto di casa
con le sue bambine, al lavoro in ospedale e addirittura mentre stringe la mano a
Carlo Azeglio Ciampi in occasione di un incontro richiesto dal Presidente della
Repubblica per aprire un dialogo con il mondo islamico.
Concludendo, possiamo notare come anche per la rappresentazione delle religioni
«altre» valgono le varie questioni fin qui emerse: ossia il rapporto tra agenda
politica e agenda dei media, dove la prima si impone sulla seconda; poi quella
del rapporto tra tematizzazione e non-eventi. Quindi la relazione tra gradi di
generalità e astrattezza del tema e ricorso a immagini di stock, senza riguardo
a nessun principio interno al rapporto di testimonianza, con il peso della
selezione tutto spostato al desk: «Questo racconto fotogiornalistico rende
infatti in maniera evidente il legame tra icone visive e distinzioni discorsive,
ovverosia l’uso della fotografia come strumento per fissare categorie
dicotomiche a supporto dei commenti giornalistici»12. Negli anni ottanta le
testate prese in esame hanno cercato di raccontare in termini generali
l’immigrazione, basandosi sui discorsi disponibili: quello del razzismo, spinto
dai successi di Le Pen in Francia; quello della povertà del Terzo Mondo, spinto
dal mondo cattolico; quello del legame tra immigrazione e ricerca di un lavoro
formalizzato e stabile. Con gli anni novanta si assiste alla politicizzazione
del fenomeno – a partire dalla legge Martelli – e quindi ad un cambiamento
radicale degli orizzonti di rappresentazione. Maggior peso viene dato alle fonti
istituzionali, cosa che darà luogo a un incremento del frame
criminalità/devianza. Inoltre eventi come lo sbarco degli albanesi del marzo
1991, danno conto dell’importanza dell’immagine nell’orientare i racconti. Tutto
l’apparato delle rappresentazioni uscirà stravolto da questi mutamenti. Gli anni
novanta vedono l’evolvere del processo di differenziazione etnica. La
costruzione di tipizzazioni etniche avviene come produzione di un linguaggio
foto-giornalistico delle differenze con connotazioni morali, che produce
un’articolazione del racconto dell’immigrazione in Italia «credibile». I cinesi,
gli arabi «islamici», i «neri», i «marocchini», gli albanesi, i filippini e gli
indiani sikh prima di tutto sono categorie del foto-giornalismo, alle quali
corrispondono gruppi etnicizzati. Al mutamento sociale si sostituisce dunque un
mutamento di immagini. La produzione di immagini fornisce un’ideologia
dominante, per dirla con Sontag. Quella costruzione di immaginari che tanto
condizionano la socialità stessa presente e futura.
1 A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale,
Milano, Feltrinelli, 1999, p. 214
2 Ivi, p. 208.
3 Si ricordi che lo studio che qui analizziamo ha come fonti otto tra i maggiori
periodici italiani: «Sette», «Panorama», «L’espresso», «D di Repubblica»,
«Epoca», «Famiglia Cristiana», «Il Venerdì», «L’Europeo».
4 L. Gariglio, A. Pogliano, R. Zanini (a cura di), Facce da straniero, 30 anni
di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, Milano, Bruno
Mondadori, 2010, p. 14.
5 Ivi, p. 110.
6 Ivi, p. 122.
7 Ivi, p. 124.
8 Ivi, p. 127.
9 Ivi, p. 132.
10 Ivi, p. 135.
11 Ivi, p. 162.
12 Ivi, p.170.
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luglio 2012]
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