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Immigrazione. Mazara del Vallo 2: “L’unica comunità aperta siamo noi”.
Davide Gangale
Introduzione
L’inchiesta
etnografica che qui si presenta è il risultato di
un’indagine di campo da me condotta per un periodo di venti
giorni (dal 23/11/2007 al 12/12/2007) nella città di Mazara
del Vallo, in provincia di Trapani, finalizzata all’analisi
delle modalità d’inserimento sociale delle seconde
generazioni d’immigrati d’origine tunisina.
Col termine seconde generazioni, intendiamo designare: i nati a Mazara
da genitori immigrati; i minori che hanno operato il ricongiungimento
familiare; i giovani newcomers non accompagnati giunti a Mazara del
Vallo dopo il 2002. L’indagine delle modalità
d’inserimento delle suddette “seconde
generazioni” è stata condotta su tre fronti: in
relazione alle strutture sociali immigrate preesistenti (famiglie e
reti); in relazione alle istituzioni della società autoctona
(scuola, comune, chiesa, servizi pubblici); in relazione alla
società degli autoctoni (frequenza, qualità e
aspetti dei rapporti con cittadini d’origine italiana).
Nel corso dell’inchiesta ho cercato di trattare, in particolare, i seguenti temi:
1) l'insediamento dei tunisini nello spazio urbano;
2) l'atteggiamento delle prime e seconde generazioni nei confronti della propria comunità "di minoranza" ricostituita in terra d'emigrazione (appartenenza alle reti) e rispetto dunque alla propria tradizione culturale “originaria”;
3) i giudizi degli immigrati sullo "stile di vita italiano" e viceversa, e l'eventuale frequenza e profondità dei rapporti fra immigrati tunisini e autoctoni, tra reciproca (ma asimmetrica) esclusione/inclusione sociale;
4) l'inserimento lavorativo;
5) il percorso formativo e migratorio dei giovani tunisini di seconda generazione e le connesse pratiche di pendolarismo, le loro aspettative e rivendicazioni.
Il
materiale proposto, in questa sede ridotto e parzialmente rielaborato,
forma gli ultimi due capitoli della mia tesi di laurea triennale in
Discipline Etno-Antropologiche, presso
l’Università degli Studi di Siena, che si
è avvalsa dei consigli e della supervisione del docente
relatore professor Luciano Li Causi.
L’idea di preparare una tesi di laurea triennale in
Discipline Etno-Antropologiche che prevedesse almeno una parte di
ricerca sul campo è nata dall’esigenza, da me
sentita, di procedere nell’ambito di tale disciplina
coerentemente con uno dei suoi presupposti fondanti:
l’osservazione diretta, per quanto nel mio caso di breve
durata, si è rivelata fondamentale e foriera di
“sorprese” rispetto a quanto avevo potuto
apprendere, prima di recarmi sul posto, attraverso gli studi condotti
da altri sulla stessa questione di fondo (l’immigrazione
tunisina a Mazara del Vallo)1.
Inoltre, essa permette di dare voce al punto di vista emico
degli attori sociali in campo, restituendo rappresentazioni e pratiche
là dove esse si manifestano e mutano, la prassi della vita
quotidiana.
La situazione sul terreno è infatti costantemente in
divenire, come sempre quando si ha a che fare con un soggetto/oggetto
di studio vivo, in perpetua evoluzione.
Nel
corso della mia permanenza nella città siciliana non ho
incontrato particolari difficoltà nel relazionarmi
né con membri del gruppo autoctono, né con membri
del gruppo d’origine tunisina.
Non avendo tuttavia alcun contatto a Mazara del Vallo, la mia prima
intervista è nata per caso: camminando in una delle vie del
Centro Storico il giorno dopo essere arrivato in città, ho
incontrato due ragazzini d’origine tunisina2 i
quali si sono dimostrati immediatamente disponibili a farsi
intervistare e anzi, ne hanno approfittato per intervistare me!
Successivamente,
mi hanno presentato il loro gruppo di amici, permettendomi di
realizzare così altre interviste.
Per quanto riguarda invece i colloqui con gli adulti, il luogo
d’incontro con coloro che sarebbero diventati i miei due
principali “informatori” interni alla
“comunità” d’origine tunisina3
è stato un bar, affacciato sul porto-canale di
Mazara del Vallo.
Con
gli adulti non sempre ho ritenuto opportuno usare il registratore per
le interviste, temendo di mettere eccessivamente sotto pressione i miei
interlocutori, e solo raramente sono stato esplicitamente invitato a
tenerlo spento.
Coi ragazzi il problema non si è posto affatto.
Qualche difficoltà l’ho avuta invece nel tentativo
d’intervistare membri direttivi della Curia locale (rimasto
insoddisfatto per la momentanea indisponibilità dei
possibili interlocutori), mentre al Comune mi è stato
permesso di raccogliere le informazioni (statistiche e
d’altro genere) richieste in breve tempo e senza reticenze,
così come presso
la
Cassa Marittima,
il centro “Voci dal Mediterraneo” e la scuola media
“Paolo Borsellino”
****
“L’UNICA COMUNITA’ APERTA SIAMO NOI”
1. DI CHI E’ LA CITTA’?
A
Mazara del Vallo, secondo i dati forniti dall’ Ufficio
Statistica e Toponomastica del Comune [Città di Mazara del
Vallo, Protocollo Generale, protocollo numero 79636] risultano essere
regolarmente residenti, nell’ anno 2006, 2.087 stranieri di
nazionalità tunisina. I minori stranieri regolarmente
residenti sono invece complessivamente 904, dei quali dobbiamo
supporre, in assenza di dati specifici per nazionalità che
l’ Ufficio Statistica del Comune non possiede, che circa i
due terzi siano d’origine tunisina. I dati relativi agli
iscritti per l’anno scolastico 2005/2006 confermano questa
ipotesi: gli alunni tunisini di scuola materna, elementare, media e
superiore sono infatti essi soltanto 583.
Su una popolazione complessiva di poco più di cinquantamila
abitanti, dunque, la percentuale regolare di stranieri
d’origine tunisina supera appena il 4%, una cifra che di per
sé non sembra giustificare la domanda che dà
titolo a questo paragrafo.
Tuttavia, nel corso di alcune interviste condotte in loco, abbiamo
avuto modo di rilevare la diffusa sensazione, da parte degli autoctoni
cui ci siamo rivolti, di perdita del controllo su quella parte della
città dove si è maggiormente concentrato, nel
corso del tempo, l’insediamento abitativo degli
“arabi”, ovverosia l’area del Centro
Storico, in particolar modo le vie comprese tra Piazza della Repubblica
e Piazza Regina.
La
Casbah,
che così è chiamata dagli stessi mazaresi, vede
il suo impianto urbanistico risalire alla dominazione araba
dell’isola, e deve il suo aspetto attuale al terremoto del
1981 e alla mancanza di interventi pubblici di riqualificazione e di
ristrutturazione edilizia, fatta eccezione per alcuni tratti di
pavimentazione.
Alcune
vie, inoltre, risultano abitate dal secondo gruppo di stranieri
più numeroso in città, d’origine
balcanica, a sua volta suddiviso per nazionalità al proprio
interno, con una particolare presenza di cittadini kosovari di
religione musulmana (un unico gruppo parentale composto da circa 40
membri).
La
Casbah,
non è semplicemente abitata dagli stranieri:
la
Casbah «è invasa»; «la stanno
distruggendo, e
i problemi maggiori li creano gli albanesi»; «non
esiste
più»; «l’hanno
rovinata»;
«è in mano agli arabi»; «si
è spenta,
prima era piena di negozi»; «è diventata
tunisina»; «è un posto pericoloso,
specialmente di
notte». Tutti i mazaresi cui ci siamo rivolti, eccezion fatta
per
gli amministratori pubblici, condividevano questa immagine del centro
cittadino.
Gli amministratori e i pubblici impiegati, invece, nel sostenere la
tesi del buon livello d’integrazione raggiunto a loro
giudizio in città, si spingevano fino a descrivere le case,
in alcuni casi semi-diroccate e puntellate l’una con
l’altra attraverso travetti di legno (come quelle nella via
Goti, abitate dagli «slavi»), come
«l’ambiente ideale» che «gli
arabi» avrebbero ritrovato a Mazara e di cui si sarebbero
impadroniti, fino a reclamarne il possesso in nome
dell’antica dominazione dei loro illustri
predecessori.
«I mazaresi nel centro storico non ci passano, hanno
paura», ci dice un’insegnante della scuola media
“Paolo Borsellino”, ubicata in pieno centro storico.
Perché? «Perché ci sono soltanto i
tunisini ormai».
Il territorio in questione è diventato straniero
e appare minaccioso a molti autoctoni, che ricordano con nostalgia la
sua passata bellezza e la sua centralità perduta.
Il mancato attraversamento di certe strade è una conseguenza
che appare logica, prudente e “naturale” ai loro
occhi, una sorta di profilassi sociale.
Evitare di passare all’interno del centro storico
è una pratica (verificata) che permette di scorgere il
più generale atteggiamento e l’opinione che hanno
gli autoctoni a riguardo dei loro concittadini stranieri, una pratica
che contribuisce alla formazione e al mantenimento
dell’atteggiamento e dell’opinione medesimi.
Diffidenza e indifferenza sono i sentimenti prevalenti, anche quando in
linea di principio si respinge l’equazione immigrato =
delinquente.
A Mazara del Vallo i tunisini in gran parte lavorano come marittimi.
Questi, in generale, sono considerati «integrati»
(sul significato che gli autoctoni danno al termine
“integrazione” torneremo in seguito), lo stesso non
può dirsi, invece, per i ragazzi e per gli uomini che vivono
e lavorano a terra.
In un colloquio il responsabile della Cassa Marittima4,
in un primo tempo impegnato a tessere le lodi
dell’integrazione cittadina, dopo aver discusso
dell’esistenza di qualche decina di matrimoni misti, ci ha
rivelato che: «la società comunque ti condanna, se
sposi un tunisino… indipendentemente dalla
persona, se lavora, se è onesto… ti condanna
perché è tunisino. Perché…
c’è sempre questa… io non direi
discriminazione… è una mentalità che
è così, specie chi non ha studiato….
soprattutto perché hanno un’altra
religione».
L’alterità religiosa, linguistica, culturale si
somma e amplifica la distanza sociale che gli autoctoni di preferenza
tendono a sottolineare e a preservare tra sé stessi e
“gli arabi”, tra sé e “gli
albanesi”, diversi non solo per le ragioni elencate sopra, ma
anche per il loro status giuridico, per la collocazione segmentale nel
mercato del lavoro.
La precarietà e le condizioni di vita svantaggiose che
contraddistinguono poi parte della popolazione immigrata a Mazara del
Vallo (ci riferiamo a clandestini e irregolari, ai disoccupati) non ne
fanno, in generale, un soggetto destinatario di solidarietà,
né tantomeno d’impegno sul versante dei diritti,
ma piuttosto figurano tra le ragioni che portano a identificarla come
un potenziale pericolo: «uomini pronti a tutto pur di
sopravvivere», nelle parole della nostra padrona di casa
mazarese.
L’attuale composizione abitativa del centro storico, in
particolare dell’area interna ad esso compresa tra Piazza
della Repubblica e Piazza Regina, è dovuta in primo luogo al
trasferimento, avvenuto negli anni successivi al terremoto del 1981, di
quasi tutti i mazaresi che avevano lì la propria dimora, i
quali hanno beneficiato della ricostruzione insediandosi nei nuovi
quartieri residenziali sorti nella zona del trans-mazaro (a ovest del
fiume Mazaro, dove la presenza di stranieri è numericamente
del tutto irrilevante), a Nord e a Est dell’antica Casbah.
Gli appartamenti rimasti liberi sono ancora oggi affittati dai
proprietari a 130, 150 euro al mese, una cifra abbordabile che li rende
convenienti per gli inquilini immigrati, specie per chi, non avendo la
famiglia a Mazara, divide l’appartamento e le spese con altri
due o tre connazionali.
Se la pratica di evitare la frequentazione del centro storico appare
prudente e giustificata agli occhi degli autoctoni adulti, ecco come
invece essa viene descritta, a beneficio dell’intervistatore,
da un ragazzino tunisino di quattordici anni, R., nato a Mazara del
Vallo e qui residente da dieci anni, i primi quattro avendoli trascorsi
in Tunisia.
R.5
abita nella zona della stazione, appena fuori
dall’area della Casbah in senso stretto, ma lo abbiamo
incontrato e intervistato in Via Bambini, una delle vie
d’accesso a Piazza Regina.
R: «Per me Mazara non piace… c’è troppo mafia, droga, ste’ cose… a me non piace per questo… perché per esempio questa zona è così… siamo abituati, ma noi non siamo come gli altri tunisini. Allora, se ti dico una cosa, tu rimani scioccato… qua, i mazaresi non mettono mai piede in questa zona, si scantano… questa si chiama Casbah, la Casbah. Piazza della Repubblica ci vengono poco, dove c’è il bar… dicono che siamo prepotenti, invece no, non è vero… loro pensano così, ma comunque noi alcuni amici italiani li abbiamo, e ci capiscono, li capiamo… no li abbiamo bene, vero. Ma ci sono alcuni, quelli scantolosi… si scantano da soli! Per esempio quando c’è Halloween: tirano bombette, passiamo e si scantano, si nascondono. Perché ti devi nascondere, perchè vogliamo rubarti noi? E invece…»
Io: «Forse perché sentono dire sempre, alla televisione, che magari qua…»
R: «Cosa sentono dire alla televisione? Mica la televisione parla di noi… ma mica che la televisione parla di noi, no?»
Forse la televisione non parla di loro, ma i genitori dei loro coetanei italiani invece sì. In proposito, ecco cosa ci ha detto J.6, 13 anni, ragazzina mazarese che frequenta, come R., la scuola media “Paolo Borsellino”, l’istituto scolastico cittadino con la più alta percentuale di alunni d’origine straniera (40% del totale), sito in via Monsignor Audino, a due passi da Piazza della Repubblica.
Io: «Che classe fai?»
J.: «La seconda D»
Io: «Conosci ragazzi tunisini?»
J.: «Sì»
Io: «Come ti trovi con loro?»
J.: « Bene!»
Io: «Bene? Perché io ho parlato con alcuni di loro… mi hanno detto che, fuori dalla scuola, quelli italiani un po’ si spaventano, se loro si avvicinano scappano…»
J.: «Sì, sì… è vero»
Io.: «Ma secondo te perché?»
J.: «Boh, non so»
Io: «Non lo sai… Ma dentro la classe come va?»
J.: «No, bene… almeno nella mia sì»
Io: «Ho capito. Quanti ragazzi tunisini ci sono nella tua classe?»
J.: «Nella mia classe? Due»
Io: «A te piacerebbe imparare l’arabo?»
J.: «Nooo…»
Io: «No? perché?»
J.: «Già sto bene con l’italiano»
Io: «Ho capito. E quando finite la scuola uscite qualche volta insieme?»
J.: «Sì»
Io: «Con i ragazzi tunisini?»
J.: «No. Italiani, tunisini no»
Io: «Con ragazzi italiani… ma perchè, è un caso, è capitato così, oppure…»
J.: «No, perché non mi piace uscire con i tunisini»
Io: «Perché non ti piace, dimmi… Io ci sono stato un po’ in giro ieri, abbiamo giocato a pallone… mi hanno detto che loro, anzi, trovano molto simpatiche le ragazze italiane, non hanno problemi»
J.: «Io sì, li trovo simpatici, però… se ci devo uscire no. Non mi piace»
Io: «Non ti piace… ma i tuoi genitori cosa dicono…?»
J.: «Sì, parlano male dei tunisini… non gli piacciono, perché sono tunisini, capì? Non gli piacciono»
Io: «Ma di tutti in generale parlano male, quelli che abitano qui, quelli che stanno fuori… ?»
J.: «Sì, ne parlano male»
La
scuola media “Paolo Borsellino” è
l’istituto scolastico con la più alta percentuale
di alunni “stranieri”, anche se molti di essi sono
nati a Mazara del Vallo.
L’insegnante che abbiamo intervistato lamenta carenza di
fondi e di personale, ritenendo necessario, ma impraticabile a queste
condizioni, un percorso individualizzato per l’inserimento di
ciascuno studente straniero.
All’interno dell’aula scolastica, sotto
l’occhio dell’insegnante che vigila
affinché si evitino concentrazioni e organizza lo spazio in
modo da favorire la conoscenza reciproca tra alunni stranieri e
italiani, ad esempio facendo in modo che siano compagni di banco, gli
episodi eclatanti di conflitto culturale sono rari, ma non del tutto
assenti.
Ad esempio, il preside ci ha illustrato il caso di una ragazzina
tunisina che, compagna di banco con un maschio, si è
rifiutata fermamente di sederglisi accanto.
Alla richiesta di spiegare il suo rifiuto, che gli stessi altri alunni
tunisini a detta dell’insegnante consideravano eccessivo,
avrebbe risposto che suo padre non voleva.
L’insegnante ha allora ritenuto opportuno informarsi,
chiedendo ai suoi alunni di religione musulmana «se fosse
scritto, nella loro religione, un qualche divieto di vicinanza fisica
tra maschi e femmine»: gli alunni avrebbero
risposto negativamente.
Con un altro caso simile di conflitto abbiamo invece avuto modo di
confrontarci direttamente.
Fuori dalla scuola “Borsellino”, abbiamo conosciuto
uno degli imam della “sala di preghiera” esistente
a Mazara del Vallo.
Di nazionalità egiziana, a Mazara dal 1972, ci ha raccontato
di essersi recato a scuola per parlare col preside, per protestare
perché suo figlio in classe è compagno di banco
con una femmina.
«Femmine e maschi vicini sono come benzina e fuoco».
«Il preside deve capire che noi siamo musulmani, ci deve
rispettare… i nostri figli sono come angeli e devono
rimanere come angeli».
Non come i ragazzini/e italiani, la cui presunta morale
“sessuale” precoce è invece fonte di
preoccupazione: un costume che, nella condivisione dello stesso banco,
rischierebbe di trovare un terreno propizio alla sua diffusione.Il
preside, in proposito, ha tenuto a precisare che casi come questo
dentro la scuola sono eccezionali, e ci ha raccontato un episodio
risalente a quindici anni fa, quando era preside in una scuola a
Campobello di Mazara: un pastore mazarese, la cui figlia frequentava la
scuola, non voleva che questa fosse seduta al banco accanto ad un
maschio.
Il preside lo aveva “accontentato”, lasciando
così intravvedere implicitamente una possibile soluzione
flessibile al caso del figlio dell’ imam, volta a
neutralizzare un conflitto le cui conseguenze potrebbero nuocere al
futuro scolastico dell’alunno stesso.
L’insegnante invece non ritiene che la scuola debba cedere a
simili richieste: «le regole sono chiare, la scuola
è una scuola mista, se non ti sta bene iscrivi tuo figlio ad
una scuola per soli maschi».
In classe si cerca poi di promuovere il ruolo dello
«studente-tutor: l’alunno più bravo che
si siede accanto a quello meno bravo e cerca di aiutarlo».
Non sono attivi alla “Borsellino” corsi
sperimentali che tentino la valorizzazione della lingua e della cultura
araba, mentre esistono corsi pomeridiani di sostegno per la lingua
italiana: «siamo italiani, insegniamo
l’italiano».
Alla “Borsellino” esiste tuttavia una commissione
d’intercultura, formata da professori che cercano di
approfondire il tema e la conoscenza della cultura araba, ma il
coinvolgimento nell’iniziativa, non remunerata, è
piuttosto scarso.
A giudizio di preside e insegnante, i rapporti extra-scolastici sono
minimi, tra alunni italiani e stranieri, mentre a livello delle
rispettive famiglie sarebbero mediati dalle donne, soprattutto le colf
che lavorano presso le famiglie mazaresi, le quali riuscirebbero a
“fare amicizia” molto più facilmente
degli uomini.
Già immediatamente fuori dalla scuola, in effetti, ad
esempio la mattina in attesa d’entrare, abbiamo avuto modo
d’osservare ripetutamente la stessa scena: i ragazzini
tunisini e “slavi” hanno il loro luogo di ritrovo,
fanno gruppo, scherzano e discutono fra loro; i ragazzini italiani
invece si riuniscono da un’altra parte, sul marciapiede di
fronte.
L’insegnante afferma in proposito che «non
c’è un reale interesse a conoscersi».
La spiegazione fornitaci è che «loro
[i tunisini in generale] dovrebbero avere interesse ad aprirsi, ma
temono (i genitori) che la cultura occidentale invada la loro cultura,
che essi difendono rigidamente… diciamo la
verità,
noi non abbiamo grande interesse a intessere le relazioni
sociali, dovrebbero essere loro ad avere
l’interesse maggiore. Ma sono chiusi. Trincerati».
E di fatto «finita la scuola, il doposcuola, finito il
lavoro, ognuno torna a casa propria, nel suo gruppo, perché
è così, si preferisce così».
Nelle parole dell’imam, «ognuno va per la sua
strada. Perché siamo diversi, separati? Dio è
unico, non so».
L’idea dell’ interesse maggiore
ad “aprirsi” alle pratiche sociali e culturali
della comunità d’origine italiana, che le famiglie
tunisine dovrebbero nutrire, trova (evidentemente) la sua
giustificazione nella configurazione degli attuali rapporti di forza
tra i due gruppi: nella rappresentazione degli autoctoni, infatti, un
certo livello d’assimilazione, una minore
“rigidità” nel controllare i
comportamenti dei figli, servirebbero a rendere meno traumatico il loro
inserimento nell’ambiente culturale d’immigrazione,
un ambiente generalmente impegnato a difendere il diritto alla propria
specificità e la validità dei propri principi di
riferimento, di cui chiede il rispetto, con la differenza di
poter contare su un “diritto” maggiore:
il diritto della maggioranza.
Gli italiani rimasti a condividere gli spazi del centro storico con
«gli arabi» sono pochi.
E., ad esempio, è uno di loro.
Ventotto anni, elettricista, vive in una casa che ha acquistato quattro
anni fa.
«Ci hanno rovinato
la
Casbah…
gli arabi li conosco, ma non siamo amici, perché di loro non
ti puoi fidare, una pugnalata alle spalle sono sempre pronti a
dartela… tutto il quartiere è svalutato, le case
che ci sono non valgono niente… i soldi stanziati per la
ristrutturazione dopo il terremoto, non sono mai stati spesi: ogni
volta, quando ci sono le elezioni si parla della Casbah, ma poi la
situazione resta tale e quale… i mazaresi che avevano la
casa qui, o l’hanno venduta, regalata agli extracomunitari,
oppure l’hanno fittata, o semplicemente messa in vendita
senza trovare acquirenti e l’hanno praticamente
abbandonata… l’anno scorso è successo
un casino, perché i tunisini volevano che si levasse il
crocifisso dalle scuole: loro non hanno simboli religiosi, se li
avevano si potevano mettere accanto al crocifisso. Qui siamo cristiani,
la scuola è cristiana, devono rispettare la nostra
religione».
2. “L’UNICA COMUNITA’ APERTA SIAMO NOI”
All’
accusa d’essere una comunità chiusa, trincerata,
disinteressata, rigidamente impegnata nella difesa del proprio
patrimonio di usi e costumi, risponde M., tunisino di 54 anni.
M. è originario di Chebba, cittadina che dista pochi
chilometri da Mahdia, sulla costa nord-orientale della Tunisia.
A sedici anni e mezzo, nell’anno 1969, M. terminava il primo
ciclo (2 anni) d’istruzione superiore tunisina, risultando
vincitore del primo premio come miglior studente in lingua e
letteratura tedesca, premio che era stato istituito in Tunisia da parte
dello stato tedesco della Germania Ovest, come incentivo per gli
studenti più promettenti, a titolo di aiuto allo sviluppo.
Tale premio consisteva in un viaggio in Germania, 45 giorni, un tour
d’istruzione nella Germania Ovest, dal Sud al Nord del paese.
M. parte, e resta «incantato dalla bellezza della Germania:
la regione del Reno è la più bella
d’Europa».
E’ ospite d’una famiglia tedesca. Finiti i 45
giorni, torna in Tunisia.
Si iscrive ad un istituto superiore di lingua e cultura tedesca in
Germania, decide che la sua vita vuole passarla
lì: studia soltanto tedesco, non continua lo
studio delle altre materie.
Nel 1972, però,
la
Storia
fa irruzione nella sua vita: gli attentati ai giochi olimpici di Monaco
di Baviera.
Ora
non è più possibile entrare in Germania: occorre
il visto, che a M. viene negato.
Dalla Tunisia allora decide di venire in Italia, a Mazara del Vallo,
sempre con l’intenzione d’arrivare in Germania.
Si reca a Palermo, al consolato tedesco, per esporre la sua situazione:
gli viene risposto che se vuole studiare il tedesco, in Italia, a
Palermo come a Roma, esistono diversi istituti validi.
Ma M. risponde che per imparare davvero una lingua, per farla propria,
occorre vivere nel Paese dove quella lingua viene parlata. Gli danno
ragione, ma non il visto.
M. comincia allora la sua peregrinazione in Europa: Svezia, Olanda,
Regno Unito, «portando sempre con me questo fallimento.
Quando ripenso a volte alle figuracce che ho fatto, alle
discriminazioni subite, divento come un pazzo, do pugni in aria, grido
da solo contro me stesso, tanto che a volte mia moglie mi chiede con
chi è che parlo…».
M. è tornato l’ultima volta a Mazara del Vallo
otto anni fa, si è sposato e ha avuto tre figli. Da quel
momento ha smesso di viaggiare.
Fa il commerciante, l’ambulante: «sai,
non c’è cosa più brutta di un lavoro
che non ti dà soddisfazione. L’unica soddisfazione
che mi dà il mio lavoro, è il non dover prendere
ordini da nessuno. Meno male che c’è mia moglie
che lavora, altrimenti come si fa a tirare avanti? Io ormai considero
finita la mia vita qui. Se non ci fossero i miei figli, sarei
già tornato in Tunisia, ma loro studiano, e almeno altri tre
anni devo restare qua. Mia figlia, è qui perché
altrimenti, con la nuova legge [la
Bossi-Fini],
correvo il rischio di non poterla più vedere, che lei non
potesse più venire in Italia a
trovarmi».
Chiedergli di raccontarmi il suo passato, non è
un’esperienza piacevole per lui.
Mi dice che non gli piace parlarne, ma che «trovare una
persona interessata ad ascoltare è già un
risultato», perché «la nostra
sofferenza, qui, è anche questa, il non trovare persone
disposte ad ascoltare le nostre difficoltà, i nostri
problemi. L’unica comunità aperta, siamo noi. Ci
sentiamo abbandonati, anche dal nostro governo».
M. dice di avere adesso uno scopo nella vita, uno solo: riuscire a dare
un titolo di studio a due dei suoi tre figli.
Il primogenito, 22 anni, lo considera perso: gli unici viaggi che ha
fatto, da otto anni a questa parte, sono quelli per andare a ripescarlo
a Napoli, “al nord”, quando veniva arrestato per
droga.
Vive attualmente a Mazara del Vallo, irregolarmente:
«è alle mie dipendenze. Alla sua età,
ha già fatto sette anni di carcere. Tutti i sacrifici fatti
per farlo studiare, per fargli avere il permesso, non sono
serviti… ».
«Riuscire nella vita, dipende… non tutti puntano
sulle stesse carte. C’è chi si considera riuscito
quando ha fatto i soldi, quando si è arricchito. Io mi
considererò riuscito quando i miei figli avranno un titolo
di studio. Ma per studiare, ci vogliono soldi!».
M. dà ripetizioni di italiano e matematica, a casa propria,
a 5 alunni tunisini, tre di scuola media e due delle elementari, per 30
euro al mese: «una cifra teorica, simbolica».
Ritiene che le loro famiglie mandino i figli da lui
«perché mi conoscono, ma soprattutto
perché hanno bisogno, altrimenti se avessero più
soldi manderebbero i figli da maestri privati italiani»,
così come comprano da lui solo quando non hanno abbastanza
soldi per andare al negozio.
Mi racconta che quando è triste, per risollevarsi, si cura
«con la bellezza del lungomare, oppure sfoglio una novella di
Verga».
Parliamo d’inserimento, d’integrazione, di
religione.
«E’ vero, gli unici che sostengono che gli
stranieri a Mazara siano ben integrati, sono i funzionari pubblici e
coloro che hanno, diciamo, il monopolio dell’accoglienza e
dell’informazione. Ma che cosa intendono per integrazione?
L’integrazione, secondo me, viaggia su due binari: quello
materiale, e quello morale, culturale, spirituale.
Chi sostiene che siamo integrati, ci considera soltanto come
forza-lavoro.
Per loro, integrazione vuol dire: lavoro, casa, rispetto della legge,
pagare le tasse.
Una volta a me è capitato di parlare ad una riunione,
c’era anche un giornalista del ‘Resto del
Carlino’ di Catania.
Ho denunciato la mia situazione: io qui non ho una casa adeguata, non
ho un lavoro adeguato innanzitutto.
E poi, per me, l’integrazione passa attraverso i libri, la
storia degli uomini che hanno fatto grande questo paese, attraverso il
dialogo.
Qui, invece, c’è chi spaccia
l’inserimento economico, la sopravvivenza marginale, per
perfetta integrazione, ma non è così, non
è così… A Mazara, i tunisini ci sono
ormai da quasi mezzo secolo, e al Comune non esiste un Ufficio
Immigrazione: la verità è che siamo considerati
solo braccia, manodopera a basso costo, e
nient’altro».
Parliamo di mobilitazione politica, di sciopero: «gli
scioperi che sono stati fatti qua, innanzitutto non hanno mai portato a
nulla. E poi, sono stati sempre promossi dalla categoria armatori.
Il pescatore, sta sempre a mare, deve sempre lavorare se vuole tirare
avanti. Il livello di sindacalizzazione è basso, minimo. Non
esiste oggi un contratto nazionale per la categoria dei marittimi e il
loro non è considerato un lavoro usurante, anche se tutti i
marinai di Mazara del Vallo hanno malattie professionali. Se il
marinaio protesta, d’altra parte, perde il lavoro, e i danni
sono suoi perché l’armatore, in assenza di
controlli, con due o tre clandestini l’equipaggio lo fa lo
stesso, capisci?».
A questo punto, nella discussione interviene G.
Tunisino, amico di M., in Italia da più di
vent’anni, G. è attualmente disoccupato.
Ha moglie e tre figli a Mazara del Vallo, il più grande
frequenta la seconda elementare italiana: «tu parli di
sciopero? Ma che sei venuto a fare? Lo sciopero, qualche anno fa
è stato fatto: due mesi e dieci giorni, tutte le barche
ferme. Non è venuto nessuno, nessuno. Né un
giornalista, né una TV, nessuno. Non siamo tutelati, neanche
dal nostro governo, eppure a Palermo il consolato
c’è.
Non è venuto nessuno, e lo sciopero del resto non
è stato neanche dichiarato, perché gli armatori
non volevano: c’eravamo i marinai da una parte, gli armatori
dall’altra, e in mezzo i sindacati. Gli armatori dicevano
che, con l’aumento della nafta, le spese superavano i loro
ricavi, e allora non pagavano ai marinai il minimo garantito. Volevano
i contributi dallo Stato, capisci…?
Alla fine, dopo due mesi, si mette la firma, accordo fatto per 1.200
euro. Ma chi te li dà, chi te li dà? Ci vogliono
anzitutto quattro mesi di navigazione, e l’armatore cerca
sempre di farti sbarcare prima. Poi, ti paga 500, 600 euro.
Se fai la denuncia, non è che dopo due giorni
arriva… C’è gente che è in
causa da anni con l’armatore, e avi raggiuni 100%, ma ancora
non ha visto niente. E intanto, il pescatore e la sua famiglia, come
campa? Passano mesi, la barca è ferma, l’armatore
i soldi li ha, può aspettare, la barca è sua. Il
marinaio, invece, come fa a campare? Non siamo tutelati, questa
è la verità.
E poi… non siamo uniti fra di noi…
siamo quattro vagabondi!».
M. precisa: «la verità è che siamo
ignoranti. Perché i tunisini non si uniscono…
c’è sfiducia, pessimismo… il marinaio
che sbarca, sta a terra una settimana: il tempo di lavare i vestiti,
farli asciugare, ed è di nuovo a mare. Credi che abbia tempo
per la politica? Dovrebbe essere il Comune ad occuparsene».
G. cerca di essere il più chiaro possibile: «devi
capire una cosa: qui, è come il deserto: sole e sabbia, e
neanche uno scorpione da mangiare!».
Quando c’è stato lo sciopero, M. non veniva alla
marina con la bancarella: «non venivo perché
nessuno comprava, e tutti ti chiedevano soldi, sigarette…
gli chiedevo cosa aspettavano, e mi rispondevano che aspettavano che
l’armatore li chiamasse per andare di nuovo a mare».
G. è tornato a Mazara del Vallo a Pasqua del 2007. Ha
lavorato praticamente ovunque.
A Pordenone, ad Aviano come
carpentiere e «ferraiolo» alla base americana
(«quando c’è stata la guerra in Iraq, la
prima, quella col Kuwait: nella caserma è suonato
l’allarme e le case, i pilastri, tremavano come il terremoto!
Vedi la differenza di forza?»), a Udine, a Venezia, a Torino,
a
La
Spezia,
a Genova, Livorno, Ancona, Rimini, Pisa, Roma: «a Roma, sono
stato un giorno intero alla stazione. Che faccio, parto o non parto,
vado o non vado al sud? Poi, le sacchette erano vuote, ho detto: vado.
Ho preso il treno fino a Villa S. Giovanni, che costa meno per il
biglietto, ma con quello sono arrivato fino a Palermo. A Palermo, non
avevo più soldi per venire qua. Allora sono andato al
pullman e ho detto all’autista “fammi salire, ti
pago quando avrò i soldi…” e il
biglietto me lo ha pagato lui».
G. adesso è disoccupato: aspetta che tornino le barche per
Natale, per fare un po’ di soldi verniciandole o riparandole
nei cantieri navali, è in Italia da più di venti
anni «solo col permesso di soggiorno».
M. : «Ma perché, con la cittadinanza cosa cambia?
Con o senza, lavoro qui non si trova, o se si trova solo a nero.
L’unica cosa, risparmi la fila alla posta per il
rinnovo».
Parlando di cosa sarei venuto a fare io a Mazara, l’idea di
G. era la seguente: «tu farai qui la tua ricerca, prenderai
la laurea e quando arriverai in alto ti dimenticherai di tutti noi, te
lo dico io».
Secondo G., riformare “dal basso”, battersi per i
propri diritti, è possibile «solo
all’inizio, quando ancora devi creare un popolo, un
paese… [il riferimento è all’azione
politica guidata in Tunisia da Habib Bourguiba]… adesso, il
mondo è arrivato a tappo! Ci sono persone che si vendono gli
organi, pezzi del corpo… vuoi un occhio? una mano, un
piede…? Hai mai visto il film Titanic? L’ultima
scena, quando ci sono tutti i morti nell’acqua… il
film era l’Ottocento… ora siamo a 2007, e a me
è capitato la stessa cosa con la barca: li ho ripescati col
ferro… Sai quanti muoiono a quattro metri dalla
riva, per arrivare in Europa?».
M. interviene: «G., lui è giovane, per lui queste
sono cose nuove; ha detto sfruttamento… per noi è
vita quotidiana, per noi è abitudine».
G. ci saluta, deve andare a prendere suo figlio a scuola.
Prima di andare, gli chiedo che progetti ha per l’anno nuovo.
Mi risponde che vuole far rientrare moglie e figli in Tunisia,
perché a Mazara non riesce ad andare avanti; lui invece
pensa di rimanere in Italia, partire per cercare lavoro al nord.
Io e M. continuiamo a discutere, parliamo di religione.
Gli racconto della discussione che ho avuto con l’imam, il
quale sosteneva che essere un buon cristiano non basta, non
è sufficiente: si deve seguire la via del Profeta,
l’ultima e più perfetta, quella vera:
«gli italiani che lo capiscono si convertono
all’Islam, per gli altri non c’è niente
da fare».
M. ha una posizione diversa: paragona le tre religioni monoteistiche ai
tre anelli della novella del Decameron, dei quali non si sa quale sia
l’originale.
Mi dice anche che, finché la comunità tunisina di
Mazara non avrà un luogo degno per pregare e per seppellire
i morti che nessuno reclama al paese, non ci potrà essere
dialogo.
«Se
la
Chiesa
volesse, potrebbe mettere a disposizione una chiesa per farne una
moschea, ma fino ad oggi non c’è stata nessuna
iniziativa… una moschea qui non sarebbe un luogo di
cospirazione, sarebbe semplicemente un luogo di culto degno».
Secondo
M., prima di parlare di principi, di tolleranza reciproca,
d’apertura «occorre che la pancia sia
piena… Sai cosa dicono i marocchini? ‘Quando uno
ha fame, la notte non dorme, non può dormire. E se non
può dormire, cosa fa? Prega!’ Capisci?
Prega».
La religione, in condizioni di sfruttamento, precarietà
esistenziale e inferiorità politica, diventerebbe una sorta
di valore-rifugio, più che una bellicistica
“trincea”.
A M. è stato chiesto più volte, in
virtù della sua preparazione e della sua istruzione, di
prendere la parola, di prendere parte attiva nella sala di preghiera,
ma M. non vuole.
«A me piacerebbe andare, ma non dovrei uscirne mai.
Perché quando esci, i problemi della vita,
l’ingiustizia, ricominciano ad assillarti».
Per quanto riguarda l’imam, oltre a ribadire che di imam non
ce n’è uno solo, mi dice che da molti non
è ben visto, e che molti non si recano alla sala di
preghiera perché notano una divaricazione tra parole e
morale personale effettivamente perseguita.
M. afferma di essere ateo: «io non credo in Dio, e non
c’entrano gli studi che ho fatto né
l’essere un migrante. E’ questione di convinzione
personale… non è necessario credere in Dio per
essere uomini, uomini con la u maiuscola. L’importante
è avere dei principi, senza principi non si può
vivere. D’altra parte, non è che io mi metto a
fare propaganda d’ateismo: anzi, invidio e rispetto chi
crede, perché la fede ti dà forza… a
volte, avverto questo vuoto, questa assenza. Ma resto convinto che Dio
non esista».
Afferma anche di praticare il Ramadan «per seguire mia moglie
e i miei figli», per adesione alla morale condivisa
generalmente dal suo gruppo d’appartenenza: «anzi,
io incoraggio mia moglie a fare il Ramadan, perché ne
riconosco l’utilità: è più
tranquilla, serena, si purifica…».
Tuttavia, secondo M. (e la medesima impressione ci è stata
confermata da molti altri testimoni) «a Mazara del Vallo sono
meno di 25 su 100 quelli che fanno bene il Ramadan. Anzi, anzi, in quel
periodo aumentano i litigi e il gioco d’azzardo,
perché la gente senza fumare è nervosa, e poi ha
più tempo da perdere».
A proposito di legge islamica, infine: «ma tu sai, Islam vuol
dire sottomissione. Io mi chiedo: ma che senso avrebbe averci creato,
solo per essere ubbidienti? Allora, meglio niente…
L’Islam, è pesante, è
pesante… non potresti fare nulla».
Ciò che M. ama dell’Islam, è semmai il
suo portato egualitario, l’invito all’uguaglianza:
al cimitero, ad esempio, «le lapidi non possono essere
più alte di cinquanta centimetri da terra, che tu in vita
fossi il presidente o l’ultimo dei poveracci! In Tunisia,
invece… oggigiorno, all’interno delle
moschee… il presidente è paragonato al Profeta,
viene chiesto ai fedeli di pregare per lui…».
3. MOVIMENTI MIGRATORI IN ENTRATA E IN USCITA: IL PROVVISORIO-CHE-DURA E SI RIGENERA
Mazara
del Vallo è meta, negli ultimi cinque anni, di due movimenti
migratori d’entrata prevalenti: uno dovuto ai
ricongiungimenti familiari, l’altro costituito dai
“ritorni” dal centro-nord Italia.
Per quanto riguarda il primo, risulta motivato largamente dalle
innovazioni legislative introdotte nel 2002 dalla Bossi-Fini che, a
detta di molti padri di famiglia intervistati, li avrebbe obbligati ad
un ricongiungimento familiare forzato: il fatto che non sia
più possibile ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno,
al compimento della maggiore età, in assenza di residenza
effettiva sul territorio nazionale del minore interessato dal
provvedimento [vedi articoli 31 e 32 del Testo Unico
sull’immigrazione, attualmente vigente], ha spinto molti
migranti a richiamare in Italia negli ultimi cinque anni la moglie e i
figli, d’età compresa tra i quattordici e i
diciassette anni, col timore che altrimenti non sarebbe stato
più concesso loro di fare ingresso regolarmente in Italia.
Per molti minori intervistati, tale movimento si è delineato
come una seconda migrazione: questi ragazzi sono in larga parte nati a
Mazara del Vallo e successivamente, spesso in coincidenza con la
frequentazione delle scuole elementari o medie, sono emigrati una prima
volta in Tunisia per scelta della famiglia, presso i nonni o assieme
alle madri, tornate in Tunisia al seguito dei figli.
Questo movimento si sovrappone e avviene parallelamente al movimento in
uscita verso la
Tunisia
dei familiari di coloro che, nonostante il rischio di cui sopra,
scelgono comunque di mandare moglie e figli (nati o successivamente
giunti a Mazara) in Tunisia, non potendo mantenerli in Italia e/o
preferendo per i figli una socializzazione “più
sana” nel paese d’origine.
Entrambe le “scelte” sono sofferte: ecco cosa ci ha
detto in proposito F., 41 anni, padre di due figli.
I figli di F. sono entrambi nati a Mazara del Vallo, hanno fatto qui le
scuole elementari, dopodiché F. li ha mandati in Tunisia con
la moglie.
Ritiene, col senno di poi, d’aver commesso uno sbaglio:
«avrei dovuto tenerli qua, come fanno tanti adesso, e farli
continuare con la scuola italiana».
Ma F., pur vivendo in Italia da venticinque anni, lavora a mare
«sempre col permesso di soggiorno: non ho né la
carta di soggiorno, né la doppia nazionalità,
né la cittadinanza italiana».
Attualmente lavora a nero: solo quando ha fatto venire la moglie in
Italia, nel 2002, si è regolarizzato, e ha dovuto pagare il
suo datore di lavoro per poter avere un contratto.
Tuttavia, non risultava guadagnare la cifra richiesta per il
mantenimento di moglie e due figli a carico; pur avendo un contratto,
infatti, il reddito dichiarato risultava inferiore a quello
effettivamente percepito e richiesto per legge ai fini del
ricongiungimento familiare: «l’armatore, su quattro
milioni che magari paga al marinaio, ne dichiara due, per pagare meno
tasse, capisci?». A queste condizioni, è evidente
l’impossibilità di «fare il
reddito», come richiede la legge.
«A Mazara c’è crisi: i pescherecci, con
la benzina a 96 dollari, escono spendendo 30.000 euro e tornano
portando a casa 25.000… l’armatore deve chiedere i
soldi in banca per pagare il capitano, e gli altri pigliano la
parte… Il marinaio piglia la parte: a Mazara, nessuno ti
dà il minimo garantito… questo è
garantito: nessuno ti paga il minimo
garantito».
F. ha preso in Tunisia il grado di Capitano e sulle barche a Mazara del
Vallo ha fatto tutto: cuoco, capopesca, motorista, secondo motorista,
ma non il Capitano.
F. lamenta infatti mancanza di reciprocità: «in
Tunisia lo straniero, un italiano che è capitano,
può fare il capitano sulle nostre barche… qua no:
deve avere la doppia cittadinanza».
Mandare moglie e figli in Tunisia per lui voleva dire anche farli stare
in un ambiente dove potevano essere più liberi
(poiché sottoposti al controllo del resto della famiglia,
paradossalmente), e non esposti alla vita di strada di Mazara del
Vallo: droga, furti, criminalità sarebbero diffuse specie
presso i giovani, che «sono arrivati da poco, non parlano in
italiano e non vanno a scuola» (pur risultando iscritti per
ottenere il permesso di soggiorno) e «lavorano solo quando
capita», precariamente.
«Che dovevo fare qua? Chiuderli in casa?».
Ma in Tunisia, il futuro non è meno incerto:
«là, i miei figli studiano l’arabo, la
loro lingua, la loro cultura, ed è giusto, va bene
così. Ma poi a che serve? Lavoro non ce
n’è. A che serve allora che hai studiato
l’arabo? Cioè… serve, però
che te ne fai se non c’è lavoro?».
F. non pensa di tornare in Tunisia: per quanto lo riguarda,
«sono qui da tanto tempo, non ho più nemmeno i
miei amici là… ti ho detto che ho sbagliato a
mandare via mia moglie e i miei figli. Quest’anno,
vediamo… se riesco a trovare qualcosa, li faccio venire di
nuovo».
Non desidera per i suoi figli un futuro da marinai: «il
lavoro del mare, ti brucia il sangue… la marineria di Mazara
vive col sangue e col pesce dei tunisini».
L’allusione è alla pratica, abbastanza diffusa da
quanto abbiamo avuto modo di capire parlando anche con altri testimoni,
di pescare “in zona”, cioè nelle acque
territoriali tunisine o libiche, alla ricerca di maggiori
quantità di pesce.
Anche in questo caso, non c’è
reciprocità: «nessun italiano ti ringrazia, quando
peschi e rubi il pesce agli arabi…».
Per F., ai figli d’immigrati nati in Italia andrebbe data
subito la cittadinanza.
Perché così sarebbero più tranquilli,
sereni, potrebbero progettare senza sentirsi precari e discriminati il
proprio futuro in Italia: «il bambino che nasce qui, cresce
qui, che colpa ha se qualcuno che ruba è tunisino? Lui pure
è tunisino, ma che c’entra? Se avesse la
cittadinanza, sarebbe più sicuro, e anche gli altri ragazzi
magari avrebbero meno paura di stare con lui».
La
seconda tipologia dei movimenti migratori d’entrata a Mazara
del Vallo presenta numerose sfaccettature e, per la sua componente
irregolare, non è possibile quantificarne
l’entità, come è invece possibile fare
per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari.
Si tratta degli “approdi terrestri” di quei
tunisini, più spesso giovani (quelli da noi intervistati
hanno un’età compresa tra i diciotto e i trentasei
anni) che, dopo alcuni mesi o anni di permanenza “al
nord”, decidono di tornare (in alcuni casi, di venire per la
prima volta) a Mazara del Vallo.
Per i giovani che qui hanno la moglie, oppure padre, madre e fratelli,
tale ritorno è un ritorno in famiglia, ma è
comunque connotato e descritto come provvisorio, motivato dal bisogno,
dalla mancanza di alternative praticabili.
Citiamo ad esempio alcune storie, che si aggiungono a quelle
summenzionate di M. e G.
Ra. ha 19 anni, è il secondo di quattro fratelli, due maschi
e due femmine.
Suo padre è in Italia da ventisette anni e fa il marinaio.
Il fratello di Ra. ha 17 anni, e si è imbarcato
quest’anno assieme al padre sulla stessa nave.
Ra. è nato in Italia, ha fatto qui la scuola materna
dopodiché è emigrato in Tunisia assieme alla
madre e ai suoi fratelli, effettuando la regolare cancellazione
anagrafica.
E’ rimasto in Tunisia fino a sedici anni, poi è
tornato a Mazara del Vallo.
Ra. vuole andarsene di casa, perché a Mazara del Vallo non
vede prospettive: ha lavorato per due anni come cameriere in una
pizzeria, aveva un contratto a tempo indeterminato, 700 euro al mese.
«La prima cosa che ho fatto, mi sono fatto fare un prestito
da una finanziaria, senza dire niente a mio padre: credimi, per me era
la prima volta che guadagnavo dei soldi, non mi sembrava vero. Tu senti
la pubblicità: ‘prestiti fino a cinquemila euro,
seimila euro, senza spese’: ho comprato dei vestiti per me, e
poi una borsa per mia madre, regali per le mie sorelle, per gli amici
in Tunisia…» .
A febbraio di quest’anno (2007) lo zio di Ra., che vive e
lavora ad Ancona, ha proposto al padre di Ra. di mandare suo figlio ad
Ancona, per lavorare con lui come cameriere d’albergo:
«la paga era migliore, 1.200 euro al mese, il lavoro lo
stesso…».
Ra., su pressione del genitore, parte assieme al fratello minore, senza
neanche avvisare il suo datore di lavoro mazarese.
Ad Ancona resta tre mesi soltanto, ma sono «i più
belli in vent’anni».
Torna a Mazara del Vallo a giugno, scaduto il suo contratto di lavoro a
tempo determinato e dopo aver litigato con alcuni colleghi, circostanze
che gli hanno impedito di prolungare la sua permanenza nelle Marche.
Consegna parte di quanto ha guadagnato al padre, il resto lo tiene per
lui.
Durante l’estate, trascorre 15 giorni in Tunisia: cambia in
banca i suoi risparmi (un euro vale quasi due dinari) e li spende per i
suoi 15 giorni di gloria al paese.
«Lasciavo mance di otto dinar al cameriere del
caffè: otto dinar sono la giornata di un muratore, diciotto
li guadagna il capo-cantiere! Non ti dico come mi
trattavano… E poi: donne,
divertimento…».
Tornato a Mazara, però, il proprietario della pizzeria
presso la quale aveva lavorato non lo riassume: «ha
ragione… sono partito senza dire niente, per accontentare
mio padre… qua, se lasci, è difficile poi trovare
di nuovo».
A Mazara, Ra. si annoia, e dice di non avere amici: «quando
lavoravo, e avevo soldi, allora tutti amici, e io a tutti ho prestato
soldi… adesso, invece, nessuno viene a chiedere come
stai…».
Inoltre, si sente sminuito nei confronti del fratello minore che
lavora: «e come, mio fratello che è più
piccolo già lavora, a mare col sangue alle mani, e io sto
qua a non fare niente tutto il giorno?».
Il suo progetto, provvisorio, è di imbarcarsi, fare qualche
mese a mare in modo da avere un minimo di capitale con cui poter
ripartire, ritentare la fortuna “al nord”, anche se
non può più tornare ad Ancona e non ha contatti
in altre città d’Italia.
«Ad Ancona è bello, ci sono solo italiani, i
turisti, non è come qui. Qui, alla marina, è
un’altra Tunisia: ti giri e saluti in arabo un tunisino, ti
rigiri e ne saluti un altro… se non era per le targhe delle
macchine, è come
la
Tunisia,
come Mahdia».
Ma è una Mahdia minore: «Mahdia è molto
più bella di Mazara: ci sono gli alberghi a cinque stelle, i
turisti, 10.000 volte meglio di Mazara…»,
specialmente quando Mahdia, nella memoria, sono i quindici giorni
trascorsi d’estate.
G. invece ha 36 anni, da pochi mesi è clandestino a Mazara
del Vallo.
Non è sposato, senza figli.
In Tunisia racconta che possedeva un Taxi-phone:
«cinquantamila euro mi c’erano voluti per
aprire… sono fallito. Perché? Perché
ho buttato via i soldi… donne, macchine, fumo, ho perso
tutto. Sai che vuol dire? Ricominciare da zero».
Da ragazzo G. ha fatto la scuola alberghiera a Tunisi, ma è
originario di Sousse.
E’ emigrato prima in Germania, dove c’era
già sua sorella: ha lavorato lì qualche mese, poi
è venuto in Italia.
Ha vissuto clandestinamente a Roma per quattro anni: il suo permesso
è scaduto poco dopo essere giunto in Italia.
Ha lavorato a nero come cameriere, ha imparato a Roma a fare il
muratore, “specializzato in intonaco e stucchi”.
A Roma aveva casa in affitto, pagava 550 euro al mese guadagnandone
1.300, 1.400.
Pochi mesi fa, tuttavia, «dopo la storia e il problema dei
rumeni», non è più riuscito, senza
documenti, a trovare lavoro.
«Io giravo, giravo tutti i cantieri, tutti i posti, pizzerie,
ristoranti: ‘hai i documenti?’
‘No’. ‘Mi spiace, non possiamo,
arrivederci’. Perché col problema dei rumeni, ora,
hanno fatto un sacco di controlli, c’è un sacco di
polizia che gira. Sono stato cinque mesi disoccupato, non potevo
più pagare l’affitto… allora sono
venuto qua».
E qua, a Mazara del Vallo, lavora a nero come muratore, senza
documenti, proprio lo stesso lavoro che faceva a Roma: guadagna di
meno, ma anche l’affitto costa di meno.
Gli domando: «Ma qui la polizia non controlla?».
G.: «Non è che non controlla…
è che se ti trovano senza documento, però tu
risulti pulito, che non hai commesso reati, allora ti lasciano in
pace».
«Aspetto una sanatoria, per andare di nuovo al Nord. Adesso
è più di quattro anni che non la fanno, vero? Io
non capisco perché, anziché fare venire ogni anno
nuovi immigrati con le quote, 100.000, 160.000, non regolarizzano
quelli che qua già ci sono, e che lavorano».
A proposito di politica: «i tunisini non si uniscono,
è vero, il problema è questo… i
sindacati ci sono, ma uno ci va solo quando ha un bisogno: la
domandina, la malattia, per il resto… ognuno tira per
sé».
H. invece ha 28 anni, clandestino a Mazara da tre.
Vive in una stanza in campagna, all’interno di un casolare
abbandonato: non lavora, a parte qualche giornata per raccogliere le
olive.
E’ tornato a Mazara del Vallo tre anni fa da Verona:
là, per pochi mesi, era riuscito a trovare lavoro, poi,
scaduto il contratto, è rientrato a Mazara, dove vive una
sorella di sua madre.
Gli chiedo perché non tornare in Tunisia, piuttosto che fare
la fame a Mazara del Vallo.
«Io non posso tornare in Tunisia, perché io qui
tre anni clandestino: se io torno, mi arrestano.
Un mese di carcere, non è molto… però
c’è anche una multa, e io non ho i soldi per
pagare».
Ab. ha invece 30 anni: celibe, clandestino da pochi mesi a Mazara del
Vallo, fa il muratore a nero.
Perché è qui?
Prima ha lavorato ad Ancona, finito lì il lavoro regolare,
è partito per Mazara del Vallo: «io voglio
lavorare. So lavorare. Ma loro mi dice: ‘hai documento? No?
Allora niente lavoro, arrivederci’. Ma io so lavorare. Che
deve fare per mangiare, se loro non mi danno il documento e non posso
lavorare, devo andare a rubare, a spacciare? Io sono venuto qui per
buscare un pezzo di pane. Perché non regolarizzano gli
stranieri che già ci sono in Italia, invece di farne venire
nuovi?».
Ab. aspetta il rientro delle barche per Natale, spera di riuscire a
guadagnare qualche cosa con la riverniciatura, e poi tentare di nuovo
“al nord”.
M. ha 20 anni, è arrivato clandestino a Lampedusa 3 anni fa.
E’ stato trasferito al CPT di Crotone, «dopo che mi
hanno preso le impronte».
Dal CPT è scappato, ha preso il treno per venire a Mazara
del Vallo «dove sapevo che c’era uno del mio
paese», ma a Messina la polizia lo ha fermato e gli ha
notificato un provvedimento d’espulsione.
M. ha deciso allora di invertire la direzione del suo viaggio: ha preso
un altro treno, ed è andato a Roma: a Roma è
riuscito ad ottenere un contratto di lavoro in un cantiere edile.
E’ tornato in Tunisia, ed è rientrato in Italia
con regolare visto sul passaporto.
Ma a causa del precedente provvedimento d’espulsione, non ha
avuto modo di sanare la propria posizione e ottenere il permesso di
soggiorno, pur avendo un regolare contratto: a Roma, scaduto il suo
contratto, non poteva più lavorare, e allora ha deciso di
venire a Mazara, dove vive in affitto con altri due ragazzi, come lui
originari di Mahdia.
A Mazara del Vallo lavora in nero, in campagna, 25 euro al giorno per
nove ore di lavoro, oppure nei cantieri navali: «aggiusto i
motori delle barche».
Per avere il contratto di lavoro a Roma, ha pagato quasi seimila euro,
per il visto in Tunisia circa 200.
Si è rivolto ad un avvocato romano, ritenendo di aver subito
un abuso.
L’avvocato gli consiglia di aspettare: e M. aspetta, aspetta
una sanatoria per partire ancora una volta.
Le
storie citate, il cui elenco potrebbe prolungarsi, permettono di
cogliere alcuni dei caratteri peculiari del panorama migratorio di
Mazara del Vallo.
Innanzitutto, la sua marginalità.
Mazara del Vallo è porto di mare e “porto di
terra”, nel senso che la città siciliana mostra
certe condizioni atte ad “accogliere”
(provvisoriamente), da altre regioni d’Italia, chi non ha
più i documenti in regola, chi non ha più un
regolare contratto di lavoro, irregolari e clandestini che qui trovano
un ambiente-rifugio: il costo contenuto della vita, il basso prezzo
degli affitti, la possibilità di trovare lavori irregolari
e, implicitamente, la maggiore tolleranza della polizia nei confronti
di certe tipologie di illecito, unitamente alla presenza di un cospicuo
numero di connazionali, quando non dei parenti più stretti,
contribuiscono a fare di Mazara del Vallo un margine, tra la
“regolarità” della legge italiana
difficile da soddisfare, e l’impossibilità di fare
ritorno in Tunisia, per ragioni legali e non.
Emigrare ancora, verso “il nord” o
all’estero, è una prospettiva che costituisce il
polo delle aspirazioni comuni.
Il pendolarismo con
la
Tunisia,
esperito durante l’infanzia e l’adolescenza da
molti dei ragazzi intervistati, si rigenera in Italia, tra il presente
a Mazara e un altrove che si spera migliore, un altrove
d’altra parte che è già stato
sperimentato ma non esaurito, e ha condotto, di nuovo e
provvisoriamente, elasticamente, a Mazara del Vallo.
Questa interpretazione risulta condivisa dagli stessi migranti: M.
(vedi paragrafo precedente) afferma in proposito: «tornano
qui quando al Nord fa freddo, e non c’è
più lavoro. Perché qui un amico, un piatto di
pasta, una coperta, una casa abbandonata dove dormire la trovano.
Quelli che hanno la famiglia, il padre che lavora a mare, tornano in
famiglia… tu devi capire una cosa: la psicologia
dell’emigrante. Per chi parte e riesce a venire in Italia, il
primo impatto è una grande delusione. La vita che facciamo
qui, il lavoro che non si trova… una grande delusione. E
devi capire anche un’altra cosa: tutti quelli che partono per
l’Europa, partono con la speranza di farsi la casa in
Tunisia, di tornare prima o poi con la macchina e i soldi. Quando
l’Europa delude, tornare in Tunisia è escluso:
perché per partire, hanno impegnato la terra, hanno venduto
la casa, il padre ha fatto i debiti. Tornare senza niente in mano
sarebbe la fine. E allora, quando il nord delude, quando anche il nord
delude perché il lavoro finisce, l’affitto costa
caro e sei da solo, torni a Mazara del Vallo… Tornare qui
è come tornare in Tunisia, ma non al paese: la differenza
è che non ti vedono quelli del paese. Tutti considerano
Mazara una parentesi, un posto di transizione. Io, se non ci fossero i
miei figli che studiano qua, me ne sarei andato da un
pezzo…».
La famiglia, per chi a Mazara può contare su una struttura
sociale di questo tipo, ma più in generale i legami di
parentela, anche trans-locali come mostra il caso (non isolato) di Ra.,
configurano la rete principale all’interno della quale
può realizzarsi l’ “inserimento
sociale” degli immigrati tunisini di seconda generazione.
Non sempre la famiglia ritiene opportuno investire nella formazione
scolastica, preferendo piuttosto, specie per i figli maschi,
l’avviamento al lavoro, la trasmissione del mestiere di padre
in figlio.
La scelta in questo senso si spiega in parte con le
difficoltà materiali che la famiglia deve affrontare in
emigrazione, ma trova anche una motivazione più
immediatamente sociale, culturale, che non è determinata
solo dal contesto d’emigrazione, dal progetto migratorio, ma
che si ritrova nel retroterra “tradizionale” dei
migranti e che anzi, in alcuni casi, può rappresentare uno
stimolo a tentare l’impresa stessa d’emigrare.
Il senso di responsabilità nei confronti della famiglia, per
i genitori, per «quando mio padre non lavorerà
più», è una delle componenti che
spingono molti giovani, ragazzini di quindici anni come U. ad esempio,
a dichiarare: «io vado a scuola, perché
sennò qua divento clandestino… però,
appena prendo il permesso a tempo indeterminato [la carta di
soggiorno], non ci vado più, mi annoia…
prima o poi mio padre si stancherà di lavorare: e io, appena
faccio diciotto anni, voglio partire… come mio fratello [il
maggiore della famiglia]... me ne vado in Germania a lavorare,
c’è mio zio che sta lì ed è
sposato con una tedesca, mio fratello adesso lavora con lui in
Germania».
Un’altra componente, fortemente sentita dai giovani
intervistati che già hanno compiuto i diciotto anni, con
famiglia o emigrati da soli, è costituita poi dalle
aspettative che la società d’origine
più in generale ritiene opportuno e giudica meritevole siano
soddisfatte da un giovane uomo della loro età. Il
quadro nelle sue linee fondamentali può essere ricostruito
attraverso le parole di Am.
Am. ha diciotto anni, è nato a Mazara del Vallo e possiede
la cittadinanza italiana.
Ha due sorelle, una sposata a Rimini con un tunisino che fa il
marittimo, l’altra sposata con un tunisino a Mahdia. La
famiglia di Am. è originaria di Mahdia.
Am. ha fatto le elementari a Mazara, le medie a Mahdia, e ha poi
frequentato il primo anno all’Istituto d’Arte di
Mazara.
Si è iscritto all’Istituto d’Arte
perché «avevo bisogno del certificato di frequenza
per prendere la cittadinanza».
A Mazara del Vallo ha lavorato: in un autolavaggio, come muratore,
pittore, lavapiatti.
Sempre a nero, non ha mai avuto un contratto regolare.
Suo padre è marinaio, Am. ha il libretto di navigazione ma
non ha mai lavorato a mare perché non ha trovato
disponibilità: «vogliono gente esperta, a me mi
dicono: ‘hai già lavorato a mare? No? Mi spiace,
arrivederci».
«Ho la cittadinanza italiana e sono in mezzo a una strada.
Non è cambiato niente, con o senza la cittadinanza, non
trovo da lavorare. Dopo Natale, vedo se riesco a fare un po’
di piccioli, dipingere le barche… e poi me ne vado a Rimini
da mio cognato».
Am. ha già lavorato a Rimini, per qualche mese, come
cameriere in un ristorante.
E’ a Mazara del Vallo da settembre 2007
«senza fare niente, né studio né
lavoro».
Durante l’estate è tornato a Mahdia: «in
Tunisia ho deciso che non ci voglio tornare per tre o quattro anni.
Torno solo quando faccio i soldi. Lì, a vent’anni,
l’uomo deve avere la macchina, bei vestiti,
dev’essere sposato… altrimenti lo considerano un
fallito».
Chiedo ad Am. se a Mahdia sono molti quelli che vogliono venire in
Italia, a Mazara.
«Tanti. E se gli dico che qui facciamo schifo, mi dicono che
sparo m..chiate».
Nella stessa situazione si trova il suo amico K.: 18 anni, cittadino
italiano, padre marinaio, pensa di partire per Rimini dopo Natale,
assieme ad Am., il quale mi dice che come loro ce ne sono tanti,
ragazzi della loro stessa età che a Mazara non lavorano e
non studiano.
«Lo vedi quello? [mi indica un ragazzo di fronte a noi]
Quello è qua clandestino da quattro anni; non lavora, ma
spaccia di tutto: fumo, erba, cocaina, roba. Vive con altri quattro in
affitto».
Chiedo ad Am. perché non si mette anche lui a spacciare:
«non spaccio perché non posso rischiare la mia
libertà… qui c’è gente che
è clandestino da dieci anni, dodici anni anche…
ognuno pensa a sé stesso. Se non hai soldi, nessuno ti
aiuta, nessuno ti presta… Dei miei genitori, non dico nulla.
Mi hanno dato da vivere, una casa fino a vent’anni, mi danno
da mangiare e da dormire, adesso tocca a me».
L’idea che un uomo, a diciotto anni compiuti, debba darsi da
fare e rimboccarsi le maniche, per sé e per aiutare la
famiglia, secondo Ab., 51 anni, padre del diciannovenne Ra. (vedi
sopra), trova fondamento nello stesso Corano: «Vedi, questo
è al-Corano: moglie e figlia, tu non devi fare mancare loro
nénti; se soldi non li hai, li devi trovare. Questa
è la nostra legge… io voglio che mia moglie e mia
figlia sono come diamanti, e non faccio mancare loro nénti,
nénti… I figli, invece [i maschi]…
fatto diciotto anni, vai! Vai, testa di c..zo! Fatti la tua vita! Fatto
crescere fino a diciotto anni: cosa vuoi di più!».
Non tutti gli intervistati condividono comunque questo parere: M. e F.,
ad esempio (vedi sopra), affermano che, a loro giudizio, i padri di
famiglia tunisini che fanno i marinai a Mazara del Vallo sono uniti nel
non volere che i loro figli debbano patire le stesse privazioni, fare
la stessa vita sacrificata ed alienante del marinaio.
M. poi non crede che i giovani nutrano sinceramente il desiderio di
contribuire col proprio lavoro al benessere della famiglia:
«non è vero… i giovani che dici tu, non
hanno né principi, né programmi… sono
senza identità!».
La volontà dei diretti interessati, cioè dei
giovani, deve tuttavia costituirsi, al pari della propria
identità in formazione, all’interno di un contesto
che essi non giudicano affatto propizio al soddisfacimento di
aspirazioni di vita e di lavoro “migliori”: un
provvedimento come
la
Bossi-Fini,
ad esempio, viene considerato da A., studente universitario,
«un fallimento totale. L’intenzione era di
limitare, invece si è ingrandita l’area
dell’irregolarità».
Lui e altri due suoi amici presenti alla discussione, iscritti come A.
all’Università di Palermo, lavorano nei cantieri
navali e come muratori.
Tutti e tre affermano d’usare l’iscrizione
all’università per coprire i
“buchi” d’irregolarità che si
aprirebbero allo scadere del contratto di lavoro regolare (quando
c’è), o quando lavorano a nero.
A. è nato a Mazara del Vallo, ma è rientrato in
Tunisia dopo aver frequentato le scuole elementari. Non possiede la
cittadinanza italiana, ha fatto le scuole superiori a Tunisi e, prima
della Bossi-Fini, veniva in Italia pendolarmente, a trovare il padre
pescatore, per lavorare come stagionale.
Solo
in seguito alla Bossi-Fini si è trasferito in Italia e si
è iscritto
all’Università.
«Una
legge come questa, avrebbero prima dovuto creare il terreno adatto:
perché richiedendo la residenza effettiva per poter dare il
permesso di soggiorno, tra il 2002 e il 2004 moltissime famiglie hanno
fatto venire a Mazara i figli, già adolescenti, con la paura
che altrimenti la famiglia restava spezzata. Tutti questi ragazzi,
l’italiano non lo conoscono, il Comune non ha attivato mai
nessun corso; se lavoro non ce n’è, o è
a nero, che devono fare a Mazara, senza documenti? Per studiare, ci
vogliono soldi… e non tutti hanno la possibilità
di pagarsi gli studi».
CONCLUSIONI
«Tornare
al paese… ogni migrante parte col sogno di fare un ritorno
trionfale al paese. Chi torna, magari sta due giorni, e in quei due
giorni spende tutti i risparmi, per fare bella
figura…E’
una specie di malattia, un inganno collettivo che è comune a
tutti gli emigranti […] Questi ragazzi che tornano e fanno
la
bella vita per pochi giorni, sono una catastrofe per i coetanei che
sono ancora in Tunisia coi libri sotto braccio. Pensano: ‘ma
chi
me lo fa fare di continuare a studiare? Vado in Europa, a fare
fortuna…’ ma è una fortuna che non
c’è, cercano una fortuna che non
c’è
[…] le fabbriche straniere che vengono in Tunisia, credi che
vengano per altruismo, per dare lavoro ai tunisini? No! Vengono
perché, con le esenzioni delle tasse, coi salari bassi e
senza
contributi, fanno il conto che dieci operaie tunisine gli costano come
una sola in Europa […] Tornare al paese… se hai
avviato
un’attività, se sei riuscito a far qualcosa,
almeno una
casa, allora puoi provare. Ma se non ti è rimasto niente,
come
fai? Là, la fame è fame…
L’Europa ha almeno
questo di buono… nel senso, qui non siamo in Francia, ma
almeno
l’assistenza sociale, la cassa marittima… qualche
cosa
c’è. E’ meno peggio che al
paese!».
Desideriamo concludere questa parte dell’ inchiesta con le
parole lucide e amare di M.
Nel loro disincanto è possibile scorgere la difficile
situazione degli immigrati tunisini a Mazara del Vallo, tra
“prime generazioni” che ancora sognano di tornare
al paese ma continuano a posticipare il rientro, e giovani
“seconde generazioni” che, nella rappresentazione
degli stessi migranti che le hanno precedute, sarebbero ingannate da
falso benessere, e di fatto una volta in Italia imparano presto a
conoscere la dimensione delle proprie illusioni, sognando
“il nord” e chiedendo nuove sanatorie.
Alle parole di M., immigrato tunisino di prima generazione, vogliamo
aggiungere quelle di Ra., 19 anni, migrante di seconda generazione, e
quelle di R., 14 anni, entrambi figli di marinai d’origine
tunisina emigrati a Mazara del Vallo più di
vent’anni fa:
Ra: «Sai cosa fa mio zio?
Quando entrano le barche a
la
Goulette,
che pigliano i tonni… io ho visto tonni lunghi come me! Mio
zio allora, quando tornano queste barche e sbarcano i tonni, qualcuno
cade di nuovo in acqua. E non è che la gente, i marinai,
vanno a pigliarli. Mio zio invece, la mattina, passa e vede: due sono
caduti qua, tre di là, altri due di qua. Si mette la
maschera, e solo con la maschera, senza niente, si tuffa…
sta sotto 10 minuti, 15 minuti, e poi risale col tonno. Poi, quando ne
piglia una decina, li va’ a vendere. Oppure lo chiamano, gli
danno 20,30,40 dinar… lui si tuffa e riporta su i tonni. Avi
le orecchie tutte spaccate, perché si tuffa senza niente,
10,
20
metri
di profondità, pare nu pisci, l’ho visto con i
miei occhi! […] Il mio sogno adesso è questo:
fare un po’ di soldi in Italia, e poi, tornare in Tunisia e
mettere una società con altri due o tre [una
società di pesca, diventare armatore]. In Tunisia tanto ci
devi tornare: da vivo o da morto, sempre devi tornare al tuo
paese».
R: «Io
a Tunisi non conosco nessuno… vado sempre da mia cugina
[…] vado sempre da lei a giocare là… e
ho conosciuto degli amici che vengono da Reggio Calabria […]
Quando vado in estate là, vorrei vedere la mia famiglia,
però quando arriva il primo giorno, allora… resto
con loro una settimana, una settimana massimo… e
poi me ne voglio ritornare qua. Mi annoia, non mi piace
più… e me ne voglio tornare qua. Quando sono a
Mazara mi piace Tunisi, quando sono a Tunisi mi piace Mazara
[…] Questa è la nostra vita… giocare e
studiare e basta…. Dopo certo che ci mettiamo a lavorare
[…] A me piace la matematica e il disegno: dopo la scuola
media, voglio fare l’ Istituto d’arte…
voglio fare l’architetto».
Crediamo che questi tre frammenti di colloquio, voce diretta di un
migrante di prima generazione e di due giovani migranti
d’origine tunisina di seconda generazione, più che
molte pagine d’analisi, possano riuscire a dare il senso
della complessità e della varietà di situazioni
interne al panorama migratorio in evoluzione a Mazara del Vallo.
M. sogna oggi di riuscire a dare un titolo di studio ai suoi figli:
fosse per lui, dice, sarebbe tornato in Tunisia già da un
pezzo.
Ra. non va a scuola, non ci andava neanche in Tunisia, prima
d’arrivare a Mazara del Vallo ormai quattro anni fa: il suo
obbiettivo è trovare lavoro al più presto,
massimizzare l’esperienza migratoria e tornare al paese per
“mettere una società”.
R. va a scuola, frequenta la seconda media: è uno dei pochi
fortunati a beneficiare dei percorsi d’inserimento e
integrazione attivati dalla Caritas a Mazara del Vallo, e non sembra
avere l’intenzione di tornare, presto o tardi, a Mahdia.
Sogna un futuro da professionista in Italia.
Se il sogno di R., e dei giovani stranieri come lui nati in Italia che
non vogliono essere solo braccia, riuscirà ad avverarsi,
allora alla parola “integrazione” sarà
forse possibile dare, progressivamente, un significato meno ipocrita
dell’ attuale.
Creare le condizioni per “integrare” appartenenze
culturali altre all’interno della società
italiana, evitando di cedere alla paura e a visioni troppo statiche
dell’identità, costituisce a mio parere un
esercizio di libertà, personale e collettiva, che impegna
ciascuno di noi in quanto cittadini.
Una normativa come
la
Turco-Napolitano,
che non ha portato a compimento né una riforma del diritto
d’asilo, né una nuova, a mio giudizio necessaria
legge sulla cittadinanza, e una legge come
la
Bossi-Fini,
sostanzialmente un giro di tutte le viti della Turco-Napolitano, al di
là dei provvedimenti di sanatoria annessi, non hanno creato
queste condizioni.
In
particolare
la
Bossi-Fini,
con l’abolizione della Commissione per le politiche
d’integrazione degli immigrati introdotta dalla
Turco-Napolitano, e la soppressione del Fondo per le politiche
dell’immigrazione, ha intrapreso una strada che, a mio
parere, vorrebbe condurre all’ attuazione del
“modello” dell’ esclusione differenziale
in materia di trattamento degli stranieri in Italia7.
Un
“modello” che sembra trovare oggi, a Mazara del
Vallo, parziale e ingiusta realizzazione. L’esclusione dei
migranti dalla partecipazione alla vita pubblica perché
privi, in quanto non-cittadini, del diritto di voto, a livello delle
istituzioni locali, sembra trovare, a livello sociale, un parallelo nel
punto di vista di molti autoctoni a riguardo degli immigrati che vivono
da decenni ormai nella loro stessa città.
Le posizioni raccolte variano da quella dell’anziano V.A.,
che afferma una possibilità d’integrazione su tale
base: “ i nordafricani in fondo sono di razza
bianca”; a quella di E. (vedi paragrafo 1):
“gli arabi li conosco […] ma di loro non ti puoi
fidare […] qui siamo cristiani, devono rispettare la nostra
religione”; a quella di B., impiegata comunale, che desidera
metterci in guardia: “non creda, sa… non creda: sa
qual è la prima cosa che domandano quando prendono la
cittadinanza [soggetto: i tunisini]? ‘E quando sono i
concorsi al Comune?’”.
Non sono dunque solo i marinai (o ex marinai) autoctoni a temere
l’ “ascesa sociale” dei colleghi
tunisini, attribuendogli già oggi un presunto ruolo
«di comando» a bordo dei pescherecci.
Mantenere un “confine etnico”8
significa anche difendere i propri privilegi di status,
che danno accesso a professioni meglio remunerate e meno alienanti del
lavoro del mare.
La crescita delle attuali seconde generazioni tunisine a Mazara del
Vallo probabilmente porterà significativi cambiamenti in
futuro, ma lo scenario che attualmente è possibile intuire
è il profilarsi di nuove emigrazioni, da Mazara del Vallo
verso “il nord”, almeno a livello di progetto da
parte degli attuali giovani migranti di seconda generazione.
L’arrivo,
la permanenza e l’aumento del numero di
“extracomunitari” a Mazara del Vallo, infatti,
sembrano trovare la loro unica giustificazione in un vuoto-da-colmare,
nella carenza crescente di «manodopera» locale,
nella progressiva indisponibilità, da parte soprattutto dei
figli dei marittimi italiani, a proseguire
l’attività paterna, a causa di aspettative di vita
e di lavoro “migliori”, sorte a seguito della
scolarizzazione.
L’ anzianità della migrazione delle prime
generazioni di “lavoratori extracomunitari” a
Mazara del Vallo si lega così alla sua
“utilità”: una presenza straniera
aumentata col tempo, che sarebbe sostanzialmente non conflittuale
rispetto all’insieme dei lavoratori autoctoni; una presenza
non conflittuale perché funzionale a svolgere
un’attività sacrificata e usurante,
progressivamente abbandonata dalle nuove generazioni autoctone.
Gli
stranieri, e in particolare i tunisini, a Mazara del Vallo sarebbero
perciò (in virtù
dell’utilità delle loro braccia) «ben
integrati».
Tutto ciò fa sorgere, tuttavia, il seguente problema: ma se
la condizione che ha reso possibile l’
“integrazione” delle prime generazioni di
lavoratori extracomunitari (in particolare tunisini), a Mazara del
Vallo, è stata la loro disponibilità a lavorare a
mare quando i figli dei mazaresi, scolarizzati, «a mare non
volevano andarci più», che possibilità
hanno le attuali, giovani seconde generazioni di
“immigrati” a Mazara del Vallo in corso di
scolarizzazione (in prevalenza ragazzini e ragazzine che frequentano la
scuola media inferiore) di realizzare a propria volta un’
“integrazione” che non sia la prosecuzione
dell’attività sacrificata ed usurante che i loro
padri svolgono attualmente, e che i loro coetanei d’origine
italiana non sembrano più disposti a svolgere?
Le seconde generazioni migranti a Mazara del Vallo non hanno infatti un
vuoto-da-riempire a disposizione che non sia quello attualmente
occupato dai loro padri, i quali a loro volta si dicono per lo
più uniti nel non volere che i propri figli debbano seguirne
a mare le orme.
Alla luce di tutto ciò, appaiono maggiormente comprensibili
le ragioni che portano molti giovani di seconda generazione a
progettare d’emigrare ancora, da Mazara del Vallo verso
“il nord”, oppure all’estero (vedi
paragrafo 3).
Ci riserviamo di approfondire queste tematiche in soggiorni sul posto e
studi ulteriori, a partire da una descrizione del processo lavorativo,
delle modalità di ricambio generazionale e della
collocazione del settore produttivo marittimo mazarese rispetto al
mercato.
__________________
1. Confrontare ad esempio: Hannachi K., Gli immigrati tunisini a Mazara del Vallo. Inserimento o integrazione, Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione (CRESM Editore), Gibellina (Tp), 1998; Sbraccia A., Saitta P., Lavoro, identità e segregazione dei tunisini a Mazara del Vallo, occasional paper, Roma, 2003; Maniscalco R. S., L’immigrazione araba a Mazara del Vallo in una prospettiva europea, Capponi, Firenze, 2004.
2. R. e U., vedi pag. 5 e successive.
3. Cioè M. e Ab., vedi pag. 9, pag. 23 e successive.
4. Intervista al direttore della Cassa Marittima di Mazara del Vallo, in data 10/12/2007.
5. Intervista a R. e U. del 24/11/2007.
6. Intervista a J. del 26/11/2007.
7. Per una discussione approfondita dei diversi “modelli” d’integrazione (assimilativo, utilitaristico, multiculturalistico) in relazione alla tematica diritti, si veda Castles S., Davidson A., Citizenship and Migration. Globalization and the Politics of Belonging, Macmillan Press, Basingstoke, 2000.
8. Uso l’espressione in senso “tecnico”: il riferimento è al saggio dell’antropologo norvegese Fredrik Barth, “I gruppi etnici e i loro confini” (ed. originale 1969), in Maher V. (a cura di) Questioni di etnicità, Rosenberg & Sellier, Torino, 1994.
[18 agosto 2008]
(Vedi anche Mazara del Vallo 1 : intervista a un lavoratore kosovaro)
home> conflitto/lavoro>
Immigrazione. Mazara del Vallo 2: "L'unica comunità aperta
siamo noi"