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L’acqua e i beni comuni naturali e sociali
Giampaolo Pellegrini
C.N. Attac italia/
forum italiano dei movimenti per l'acqua.
La globalizzazione neoliberista, contraddizioni e reazioni.
Le lotte in corso sul tema del bene comune acqua,
nei loro vari aspetti, non sono soltanto una risposta a specifici problemi
tecnico-gestionali o a scelte economiche settoriali che contrastano con gli
interessi immediati degli utenti, ma anche parte di una lotta più vasta di
contrasto generale alle politiche neoliberiste le cui strategie e risultati
erano ampiamente e negativamente manifesti in molti paesi nel mondo già a
partire dagli anni '80.
Al di là delle affermazioni ideologiche, gli
effetti delle politiche neoliberiste si dimostrano progressivamente avversi alla
qualità della vita di strati sempre più ampi della popolazione mondiale, sia per
il concretizzarsi di contraddizioni insite nel sistema sia per le risposte che
questo mette in atto.
Con una estrema semplificazione possiamo dire che
le contraddizioni principali di questo modello si possono riassumere in quella
tra capitale e natura e nella caduta del saggio di profitto. La risposta del
sistema a questi problemi si è articolata, di massima, come segue: a fronte del
tendenziale esaurimento, in tempi non lunghissimi, delle riserve energetiche
fossili alla base del sistema produttivo, difficilmente sostituibili a parità di
caratteristiche, si è risposto attraverso l’escalation della “guerra
globale”, sia diretta che non, nel tentativo di accrescere il controllo sui
principali territori di produzione e stabilire nuovi equilibri che le
trasformazioni economiche, e di egemonia, rendono inevitabili. La seconda
risposta è più complessa, parte dalla crisi di sovrapproduzione che negli anni
'70 concluse la fase di ricostruzione (e crescita) post-bellica sommata alla
crisi petrolifera ed alla fine della convertibilità dei dollari in oro segnando
l’avvio del nuovo corso, quello detto della seconda globalizzazione, reso
possibile dalla crescente libertà di circolazione di merci e capitali
accompagnata da accordi internazionali che sancivano l’imporsi, anche manu
militari come in Cile e Indonesia, dei nuovi paradigmi economici
neoliberisti.
I risultati di decenni caratterizzati
dall’estendersi a tutti i paesi del “nuovo corso” sono sotto i nostri occhi. Le
principali direttrici di intervento si possono sintetizzare nel seguente modo:
La delocalizzazione
produttiva, che ha trasformato, in diverse
parti del mondo, alcuni lavoratori in neo-schiavi o, nei paesi
più ricchi, in una variabile dipendente dalle nuove dinamiche
competitive indotte dalla liberalizzazione del mercato dei capitali nel
nuovo assetto neoliberista. Nel complesso le pratiche neoliberiste
abbattono e restringono progressivamente, assieme al reddito, i diritti
dei lavoratori conquistati in secoli di lotte. Queste pratiche, che
favoriscono la delocalizzazione, si accompagnano all’uso
ideologico della teoria economica centrata sul “mercato”,
la “concorrenza” e la “competitività”.
Più realisticamente, dietro la neutralità di teorie
economiche “oggettive”, si maschera sia uno scontro di
potere infracapitalistico che di lotta di classe, che la stessa
ideologia voleva estinta assieme alle classi. La delocalizzazione
unisce i due momenti di scontro tra nazioni o aree economiche e
all’interno di queste tra classi che si definiscono attraverso la
progressiva divaricazione dei redditi.
La finanziarizzazione, in cui il
meccanismo fondamentale è la creazione di valore cartaceo che genera a sua
volta giganteschi indebitamenti in tutti i settori economici, ed è la base delle
bolle speculative e seguenti crisi. Questo mezzo realizza però processi di
drenaggio e concentrazione di capitale e di potere, spesso in corrispondenza di
fenomeni di ristrutturazione gerarchica dello stesso. Questo processo non manca
di coinvolgere a diversi livelli i lavoratori e le classi medie nel sistema
finanziario, sia creando obblighi legali attraverso i processi di
privatizzazione dei sistemi pensionistici o del settore sanitario, assicurativo
in genere etc., sia dando a “risparmiatori” e “consumatori” l’illusione,
rafforzata da diffusi esempi reali, di poter recuperare parte del reddito
sottratto alle attività lavorative attraverso la rendita, spesso realizzata con
investimenti speculativi.
(Non bisogna dimenticare che, in gergo borsistico,
i piccoli risparmiatori sono chiamati “parco buoi” e il fatto che vi siano
periodi di “ingrasso” non li sottrae, in quanto tali, al sacrificio a cui prima
o poi sono destinati).
I trattati politici ed economici miranti a
stabile norme e vincoli di proprietà sulle future materie prime e sui beni
comuni sociali e naturali: terra, aria, suolo, genoma, prodotti intellettuali e
servizi quali pensioni, sanità, istruzione. Essi agiscono contemporaneamente, e
in senso contrario, per liberare “i capitali” dai loro vincoli territoriali
accrescendo e “globalizzando” (ma si dovrebbe dire transnazionalizzando) la loro
capacità di appropriazione. Emblematica in questo senso la serie di accordi
promossi dal WTO (o OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio) che, pur istituiti allo scopo di
implementare i processi di circolazione di merci, denaro e servizi, promuovevano
anche processi protezionistici in materia di brevetti intellettuali e produzione
agricola. Lo sfruttamento e profitto di questi ultimi può essere attuato
primariamente attraverso la proprietà piuttosto che la gestione, come accade
generalmente per i servizi, quindi trasformando il ruolo dello stato e delle
istituzioni in una ulteriore variabile economica, uno strumento il cui uso
rende, dal lato dell’esercizio del potere, l’attore economico “transnazionale”
e, nelle modalità di funzionamento, “multinazionale”. Particolare il caso dei
prodotti intellettuali che oggi vengono visti come una materia prima
fondamentale da trasformare in merce, ma anche come fonte diretta di potere, che
solo la fine dell’umanità può esaurirsi. La privatizzazione delle università, e
del sapere in generale, è quindi uno degli obbiettivi principali sia per la
conservazione del sistema capitalistico sia per acquisire posizioni di dominio
al suo interno.
Neoliberismo, privatizzazioni e democrazia.
Nei paesi a regime “democratico costituzionale”
alcuni di questi beni sono esplicitamente riconosciuti in forma di diritto, come
quello all’istruzione, altri, invece, implicitamente con il riconoscimento di
diritti esercitabili attraverso l’accesso universale a una serie di beni
prodotti dalla comunità. Mi soffermo su queste considerazioni perché la loro
generalità mette bene in luce il filo comune che lega lotte e vertenze in Italia
e nel mondo.
Le costituzioni moderne riconoscono due tipi di
diritti fondamentali che possono e devono sussistere solo separati in quanto
contraddittori: quelli così detti escludenti e quelli includenti. I primi sono
sostanzialmente i diritti individuali, o quelli proprietari, come, ad esempio,
della casa, degli attrezzi indispensabili al lavoro etc. Essi comprendono il
diritto eguale ad essere scambiati o venduti e sono attribuiti tanto agli
individui fisici che giuridici, come una S.p.A., una S.R.L. o una Cooperativa.
Gli altri diritti, detti includenti, riguardano le condizioni generali
di sussistenza della comunità in quanto tale sia attraverso il
riconoscimento di “regole” che per la messa in comune di
beni naturali e sociali, come l’acqua o la
possibilità di accesso “materiale”
all’istruzione, all’abitazione, a cure sanitarie. La loro
promozione contribuisce a incrementare, con vantaggio di tutti i
cittadini, la possibilità di scelte particolari e individuali
che sono genericamente considerate gli indicatori di crescita
qualitativa della vita e fondamento materiale del patto di costituzione
sociale. La loro natura è tale che possono sussistere solo
quando si istituisca una sfera pubblica che attraverso obblighi,
divieti, proprietà e gestione ne sostanzi materialmente la
universalità che diverrebbe altrimenti un vuoto esercizio di
affermazioni retoriche.
Nei paesi più ricchi il peso economico dei
servizi arriva a costituire il 70% del PIL. La loro natura economica è tale che
solo attraverso una gestione pubblica (e partecipativa) questi possono essere
materialmente distribuiti a vantaggio di tutti i cittadini. Ogni qualvolta si
sente parlare, in nome della superiore efficienza, di affidarli ai meccanismi
del mercato e della concorrenza, possiamo avere la certezza di essere oggetto di
un tentativo di frode ideologica. Metterla in atto era di vitale importanza
per un capitalismo che al culmine della potenza vedeva ridursi i margini di
profitto. Assicurarsi la gestione dei servizi e quindi il controllo, piuttosto
che la proprietà, consente di capitalizzare i vantaggi forniti dal monopolio
lasciando al “proprietario”, gli “altri” cittadini, l’onere maggiore negli
investimenti .
Se ne tratto, è perché la crisi, arrivata dopo
quanto abbiamo visto realizzarsi in questi ultimi anni in materia di
privatizzazioni, ha accentrato l’attenzione generale sulla finanza e la
speculazione mettendo in ombra, se non presentandole come vittime, quelle
“imprese” che sono, almeno, attori comprimari. Tali imprese, arricchite a
partire dalla ricostruzione post-bellica, nella prima metà degli anni 70 avevano
un potere tale da promuovere, oltre alla liberalizzazione progressiva della
circolazione di capitali in accordo con le istituzioni finanziarie (Banca
Mondiale, FMI), l’ampliamento dei negoziati internazionali allora in itinere (GATT,
mirati particolarmente al problema dell’abbattimento delle tariffe doganali per
favorire la circolazione di merci conclusi nel 1994 col “trattato di Marrakech”
) in un nuovo round (WTO) che conteneva al suo interno quello del GATS
dedicato alla privatizzazione dei servizi: acqua, rifiuti, energia, sanità e
scuola. Sono questi trattati il filo rosso che lega le varie lotte in Italia e
nel mondo e la prova della campagna ideologica contro la gestione pubblica dei
beni comuni basata su reali disservizi che conosciamo, promossi, piuttosto che
corretti, dagli amministratori pubblici. Rimane problematico farsi una ragione
del ruolo assunto dalla politica istituzionale, specie nei paesi democratici,
nel promuovere queste politiche che rovesciano i ruoli istituzionali di tutela
del benessere collettivo sbilanciandoli, con trattati e atti legislativi, a
favore della rendita, del capitale e delle imprese produttive e finanziarie. Un
qualche aiuto in questo senso deriva dalla teoria economica (economia
istituzionale - vedi articolo di approfondimento 1*) che dell’impresa prende esplicitamente in considerazione le
relazioni di potere e mostra come, nelle economie capitalistiche, le stesse (e
quindi il potere) si sostituiscano al mercato come mezzi di allocazione delle
risorse. Col trionfo globale del capitalismo la “funzione” politica si conforma
al potere reale, che ovviamente è quello dell’impresa “privata”.
Da qui il mutamento del ceto politico, il quale
adegua conservativamente il suo ruolo a quello manageriale d’impresa nello
specifico campo della gestione dei servizi individuando il partneriato
pubblico/privato come strumento di passaggio per la definitiva privatizzazione.
Con questi cambiamenti si modifica anche il sentire comune, tanto è vero, ad
esempio, che ormai si accetta senza riflettere che si parli di “azienda Italia”
come se i termini con cui si definisce una situazione fossero innocenti e
intercambiabili, puri artifici dialettici piuttosto che indicatori di un
progressivo adeguamento semantico alle rappresentazioni dominanti con
conseguente perdita di capacità critica.
L’attacco ideologico, supportato dalla potenza
economica di banche e imprese, ha assunto negli anni una pervasività tale da
rendere inavvertibili ai più gli slittamenti legislativi nei quali assumeva
preminenza non più il cittadino come portatore di diritti individuali e sociali,
ma solo nella sua privata veste di investitore, imprenditore, commerciante,
cliente, etc. Sulla strada che portava le varie attività economiche a
svincolarsi da “lacci e laccioli” si arrivava a discutere, nelle varie sedi di
riunione tra governi e organizzazioni “economiche” (OCSE, trilateral commission,
camera di commercio internazionale, etc.) un accordo generale che staccasse
definitivamente i titolari di imprese dai vincoli sociali istituiti nel corso
dei secoli precedenti. Questi accordi denominati MAI o AMI (accordi
multilaterali sugli investimenti) miravano ad abolire, nei paesi a democrazia
avanzata, i vari vincoli legali che impedivano di creare, al loro interno, le
stesse “zone speciali di produzione” già istituite in paesi come Messico,
Indonesia e molti altri, come pratica della delocalizzazione.
Secondo questi accordi oltre alla sospensione di
fatto dei diritti civili, sociali, sanitari e sindacali al loro interno, una
impresa poteva anche fare causa e ottenere risarcimenti dallo stato, e quindi
dai cittadini, laddove si approvassero leggi limitanti il diritto al
perseguimento del massimo profitto. Sembra fantapolitica ma è quanto succede nei
paesi firmatari del NAFTA, l’accordo economico tra i governi di USA, Canada e
Messico.
A dimostrazione di come sia diffusa a tutti i
livelli una visione che vede l’impresa e il suo scopo, il profitto, come prima
titolare di diritti, a cui tutti gli altri devono subordinarsi, non mancano
esempi nazionali: i cittadini residenti in zone prive di apparati di depurazione
delle acque reflue pagavano in bolletta il costo di depurazione. Sino a che il
sistema era pubblico la legge stabiliva che questa cifra dovesse essere
accantonata allo scopo di poterne finanziare la costruzione. Con il passaggio
alle gestioni private o miste le imprese subentrate hanno continuato a
incamerare gli stessi soldi in tariffa senza avere il medesimo obbligo
contrattuale e quindi iscrivendoli agli utili di impresa. Su questa vicenda è
nata una vertenza approdata, infine, alla corte costituzionale la quale ha dato
ragione agli utenti.
Per le imprese si prefigurava un calo deciso dei
profitti sia per la restituzione del mal tolto (perché non andava più
all’accantonamento “di scopo”) sia per le perdite future nell’ordine del 22-24%
sulla tariffa, il che ammonta, in generale, a svariati miliardi di euro. A
questo punto il governo (ministro Prestigiacomo) ha prodotto un decreto secondo
il quale dette cifre continueranno ad essere riscosse a titolo di risarcimento
del danno ambientale che i cittadini provocano scaricando liberamente le acque
reflue.
Si apre un nuovo capitolo che mostra bene la
“melmosità” generata dalla commistione pubblico - privato. La mancata
costruzione dei depuratori previsti già da decenni, con coperture finanziarie
smarrite nei “meandri amministrativi” (qualcuno pagherà?), viene scaricata sul
nuovo scenario di società di gestione in house e miste, che sono enti di
diritto privato ad affidamento diretto del servizio, come se fossero pubbliche.
Tra la corte di giustizia europea e quelle italiane, che condannano tali
affidamenti ed i finanziamenti pubblici che non potrebbero essere erogati in
quanto aiuti di stato (trattandosi di S.p.A. e S.R.L.) contrari alle norme UE sulla
concorrenza, le banche fanno il loro gioco, sapendo che comunque il servizio non
può essere sospeso, imponendosi come finanziatrici con gli swap, i
derivati ed il project financing (ben noto ai comitati che si oppongono
alle “grandi opere”) finendo per far soccombere l’interesse pubblico davanti a
quello privato.
Oltre a questo, a dispetto della retorica su
mercato e concorrenza, si può facilmente scoprire che le vie di finanziamento,
con denaro pubblico alle imprese private, esistono nella legislazione europea e
in quella nazionale. Questo è uno dei “nodi” delle cause generatrici del
malaffare e delle consorterie che assieme alla scarsa trasparenza degli istituti
finanziari, alle libertà di spostamento di capitali, all’esistenza dei paradisi
fiscali e di operazioni bancarie in entrata ed in uscita “coperte”
contribuiscono al progressivo divaricarsi della “forbice del reddito” tra i
cittadini.
Poco alla volta, settorialmente, la “filosofia”
dell’AMI viene realizzata stravolgendo il dettato costituzionale a partire dal
secondo capoverso dell' articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini…».
Il tentativo di far sottoscrivere gli accordi AMI
in una tornata unica fu smascherato, vista la segretezza degli accordi, nel
Parlamento europeo da un funzionario del governo francese, con i rappresentanti
dei governi che avevano “la penna per firmarli in mano”, nel febbraio del 1997
(governo di centro sinistra guidato da Prodi).
Rientrano in questo indirizzo anche tutte le
leggi che hanno precarizzato i rapporti di lavoro, compreso quello cooperativo
grazie all'intervento dell'ultimo governo Andreotti, nel 1992 , e poi nel
2003 attraverso la riforma del diritto societario, ad opera del governo
Berlusconi, avvenuta nel totale silenzio dell’opposizione e dei sindacati. (In effetti si
potrebbe parlare di una grande trasformazione dell’ Italia, a partire dagli anni
'80 e proseguita a cavallo dei governi Andreotti, Amato e Ciampi nei 90, sino
agli “alternanti” governi dell’ultimo decennio, come di un colpo di stato
economico tout court).
Queste trasformazioni successive hanno reso
problematiche le lotte per la stabilizzazione del rapporto di lavoro
considerando che la controparte è costituita dagli stessi imprenditori e
politici uniti nel proporre e sottoscrivere accordi di tale contenuto.
É auspicabile che i militanti impegnati in lotte
e vertenze legate dal filo di queste vicende trovino il modo di unificarsi in
un progetto rivendicativo comune superando la parcellizzazione che li
caratterizza, cosa oggettivamente difficile ma imprescindibile, solo per cercare
di frenare i “poteri forti” lanciati sulla rotta tracciata dalla globalizzazione
neoliberista che la crisi non sembra modificare, anzi rafforza disgregando le
classi che ne sono più colpite.
É legittimo quindi il sospetto che la crisi
attuale, che si vuole unica, imparagonabile, imprevedibile etc., non sia che
una replica aggiornata di altre di cui abbiamo notizie sin dai tempi dei
babilonesi e che inevitabilmente comportano accentramenti di ricchezza (e
potere) a danno di chi la produce materialmente ed a vantaggio di chi l’ha
provocata.
La cosa assume un carattere particolare nel
nostro paese dove il Censis ci informa che le aziende italiane sono da più di
un decennio al vertice della profittabilità e teoricamente ben attrezzate per
reggere questa crisi ma contemporaneamente registra, a partire dagli anni
'80,
un costante calo dei redditi da lavoro ed un peggioramento del debito pubblico
(vedi articolo di approfondimento 2*). Il Censis afferma, in pratica, che proprietari e managers di imprese
manifatturiere, commerciali e finanziarie stanno (con la collaborazione attiva
della classe politico/sindacale), da un lato, sottraendo direttamente reddito ai
lavoratori e, dall’altro, guadagnando a fronte di detrazioni ed esenzioni
fiscali. Se investono, soprattutto ingegno, lo fanno massicciamente
nell’evasione fiscale, nel lavoro nero e nell’aggiramento, direttamente
criminale, di regolamenti e vincoli ambientali, ben coperti dallo schermo
ideologico del mercato, della competitività e riuscendo prima che in altri paesi
ad estendere lo sfruttamento dal comparto produttivo/finanziario a quello dei
beni comuni sociali e naturali.
Modalità della
globalizzazione liberista attraverso l’acqua.
L’acqua
dolce adatta al consumo umano non è affatto abbondante. Raccolta per il 2,1%
nelle calotte polari e per lo 0,65% nei corsi d’acqua, negli ultimi due secoli è
stata insidiata dai processi di industrializzazione e utilizzo diffuso di
sostanze inquinanti.
Nei paesi industrializzati il consumo domestico
rappresenta una quota minima, meno del 20 % anche nei maggiori punti di
concentrazione urbana. Il restante consumo è a carico dei processi produttivi
manifatturieri e, la parte del leone, in quelli agroindustriali che possono
superare il 60%. Per quanto abbiamo detto è evidente che una quota rilevante di
profitto si può ricavare dal suo controllo (la mafia siciliana nacque proprio
attorno al controllo dei pozzi) e su due fronti: minimizzando i costi del
processo produttivo scaricando gran parte di questi sul consumo domestico e
mantenendo anche in questo un’alta possibilità di profitto grazie al fatto che
la domanda di acqua, in quanto bene di prima necessità, è assolutamente rigida.
Il loro costo di costruzione, già pagato dai cittadini, e manutenzione è ad
“alta intensità di capitale” e non consente l’esistenza di reti alternative. Lo
sfruttamento ed il controllo delle risorse idriche, come si è detto sopra,
diviene inevitabilmente uno degli assi strategici nei processi di trasformazione
del capitalismo. Il problema acqua è stato sollevato e
approfondito, nel corso degli anni, in grandi appuntamenti dai quali emerge da
una parte il fallimento degli obiettivi umanitari perseguiti e dall’altra la
progressiva liberalizzazione e mercificazione.
Nel 1977 a Mar de Plata, in Argentina, si è
svolta la prima conferenza ONU durante la quale si è definito l’obiettivo di
garantire acqua potabile a tutti gli esseri umani entro il 2000. Obiettivo
mancato come quello riproposto nel 1992 con il vertice di Rio.
Sotto la spinta della Banca Mondiale i1 1994 vede la creazione del WTO,
del Consiglio Mondiale sull’Acqua, che, coinvolgendo agenzie ONU
e singoli stati, promuove forum a cadenza triennale per porre le basi
di politiche mondiali sul tema, e, infine, del Global Water Partnership
con lo scopo di promuovere un partenariato tra aziende pubbliche e
private. Si sono tenuti tre Forum: 1997 Marrakech, 2000 Aja, 2003
Kyoto. È stata anche creata (1998) la Commissione Mondiale
sull’Acqua, con scopi di coordinamento e studio di proposte
operative. Durante il forum dell’Aia (17/22 marzo 2000 - vedi
articolo di approfondimento 3*), a sancire il fallimento delle
ambizioni dell’ONU (del resto boicottate nella pratica) di dare a
tutti la minima quantità di acqua “buona”(secondo la
definizione della Conferenza Mondiale di Nuova Delhi) entro il 2000, la
C.M.A. propose e ottenne il passaggio dell’acqua da bene sociale
fondamentale a bene economico di rilevanza industriale, soggetto al
mercato come ogni comune merce (fu accettata da 130 governi la
dichiarazione dell’acqua come “bene economico”, per
l’Italia dal governo D’Alema). Era aperta la strada per far
entrare l’acqua nell’agenda del WTO (OMC) nella sezione
GATS (o AGCS, Accordo Generale sul Commercio dei Servizi).
Nel gennaio 2002 al WTO di Doha in Quatar si apre
la porta alla liberalizzazione dei servizi idrici mondiali. In quella occasione
l’Unione Europea, pochi minuti prima della fine della conferenza, introdusse un
paragrafo nell’art. 33 del documento del vertice, in cui si afferma che gli stati
membri del WTO procederanno alla eliminazione di tutte le barriere tariffarie e
non tariffarie dei prodotti e dei servizi ambientali.
Nel settembre 2002 il vertice sullo sviluppo sostenibile di
Johannesburg, che nei fatti è stato un’appendice di quello
di Doha, pur affermando la volontà di dimezzare le persone che
non hanno accesso all’acqua entro il 2015 (obiettivo originario
del 1977 rinviato di 15 anni e dimezzato), non prevede nel concreto
nessun impegno finanziario in quanto i fondi dovranno arrivare dai PPP
(Partenariati Pubblico Privati).
L’indirizzo ormai è chiaro: garantire alle
multinazionali la piena libertà di agire. D’altronde a Johannesburg il dibattito
sull’acqua è stato introdotto dalla presidente del Comitato Tecnico Scientifico
della multinazionale Vivendi Universal e le conclusioni sono state affidate al
Segretario della Generale des Eaux (poi fuse in Vivendi environemant ed infine
Veolia Water che si occupa anche di igiene ambientale, energia, trasporti, che
ha il 40% del mercato mondiale e più di 110 milioni di “clienti”).
Nei paesi più ricchi di acqua, come Canada e USA,
l’acqua non è privatizzata, se non in quantità minime (2% circa), ma si spingono
decisamente i paesi poveri verso la privatizzazione dei servizi idrici con
effetti drammatici per le popolazioni, come gia e accaduto in Africa e in
America Latina.
In Argentina, a Buenos Aires, il servizio è stato
ceduto nel 1989 alla società Aguas Argentinas, filiale della multinazionale
francese Lyonnaise des Eaux (poi fusa con la Suez nel gruppo Ondeo che è la
seconda compagnia dopo la Veolia con fatturati e numero di clienti simile). Il
risultato è stato che, dei 3 milioni e mezzo di abitanti, ben il 58% è tagliato
fuori dalla rete idrica.
Quest’anno si terrà ad Istambul un altro di
questi vertici il cui rischio è che si rinforzino le decisioni dell’Aia pur a
fronte dei problemi emersi in questi anni e denunciati dai movimenti
internazionali, è a buon punto l’organizzazione di uno alternativo nella stesa
città.
L’Italian way.
L’Italia è, nel bene e nel male, un paese
particolare nel panorama internazionale. Non è questa la sede per renderne conto
estesamente, ma ciò complica la descrizione sintetica di come gli eventi
internazionali hanno agito al suo interno.
L’economia italiana dal tempo del regime
fascista è stata dominata dall’intervento pubblico con la fondazione dell’IRI
in sostituzione della latitanza o insufficienza dei capitali privati negli
investimenti a rischio o a lungo termine di rientro. Le imprese manifatturiere e
finanziarie che hanno portato il nostro paese ad essere tra le prime 10 potenze
economiche mondiali erano sostanzialmente imprese pubbliche.
L’affermarsi del nuovo paradigma economico
neoliberista riuscì ad imporre la fine delle lotte operaie mentre si realizzava
la privatizzazione dei settori produttivi e dei servizi, il tutto intrecciato
alle vicende della costruzione dell’Unione Europea. Più che molte spiegazioni
le conseguenze di questi eventi nel tempo sono evidenti nei grafici riportati.
(fonte, rivista on-line «Economia e società»)
Negli anni '80 l’attacco alle precedenti
conquiste operaie iniziò dalla scala mobile e, negli anni '90, proseguì con le
privatizzazioni delle industrie manifatturiere e delle banche; i servizi
avrebbero seguito a beve (i grafici ci dicono qualcosa circa le modalità, i
tempi e sulla la retorica della produttività che ci ha ammorbato
ideologicamente in questi anni).
Dal punto di vista strettamente economico
l’attacco “finale” in tutti i settori economici coincise temporalmente con i
preparativi e la successiva adesione alla costituenda Unità Europea attraverso
il trattato di Maastricht. In questo hanno un valore centrale le regole
economiche mirate a dare “stabilità” alla iniziale integrazione
economico/monetaria attraverso il contenimento dell’inflazione, divenuto
l’obiettivo principale della Banca Centrale UE, e della spesa pubblica attuata
attraverso i parametri sul contenimento del debito pubblico e del rapporto
debito/PIL. Queste ultime “regole”, assieme all’impianto economico pienamente
neoliberista, che prevedeva il passaggio al mercato delle attività economiche
svolte direttamente dallo stato, divennero giustificazione e premessa delle
privatizzazioni delle attività produttive e poi di quelle legate ai servizi. Per
continuare a fornirli si doveva, teoricamente, ricorrere al mercato ed alle
società che su questo “competevano”. Nella pratica la parte politica reduce da
tangentopoli, e in particolare quella locale a cui era demandata la fornitura di
rilevanti servizi, specialmente dopo la riforma in senso federalista della
costituzione che attribuiva più poteri alle regioni, pensò di farsi direttamente
imprenditrice. La situazione creata dall’Unione Europea costrinse i nostri
politici al rispetto formale delle “nuove regole” che furono però sfruttate
artatamente grazie agli spazi interpretativi che queste lasciavano nelle loro
iniziali formulazioni. Ne conseguì che i politici, stretti tra imposizione delle
politiche neoliberiste e le loro ambizioni, personali e di parte, procedettero
alla trasformazione in S.p.A. e S.R.L. dei servizi col risultato che, sia in
veste di istituzioni appaltatrici che in quella di presidenti, amministratori
delegati e consiglieri delle nuove società di diritto privato, poterono
continuare a incrementare la spesa ed il debito mentre le direttive europee
consentivano agli amministratori pubblici di mascherarle tenendole fuori dai
bilanci pubblici, formulati anche negli enti locali secondo i criteri del “patto
di stabilità” di Maastricht.
Come si diceva sopra i servizi rappresentano
circa il 70% del PIL e dell’occupazione europea e sono quindi stati oggetto di
specifiche norme costitutive dell’ Unione e successive direttive. Le differenze
legislative e produttive degli stati sono però diversissime da paese a paese,
definendone anche il livello di welfare. La normativa europea, orientata
in senso liberista ha, di fondo, legiferato in materia di servizi cercando di
allargare la possibilità di liberalizzarne la produzione e la prestazione tra
gli stati attraverso articoli quali: il 43 e 47, sul diritto di stabilimento
delle imprese in stati diversi da quello di origine, gli articoli 49 e 55, sul
diritto di prestazione dei servizi e l’art. 86 che regola la concorrenza. Ha
fornito anche, attraverso documenti quali il libro bianco e libro verde, una
definizione di massima dividendo i servizi in SIG (Servizi di Interesse
Generale) e (SIEG Servizi di Interesse Economico Generale). Lascia poi agli
stati il compito di definire quali consideri tra i primi, che possono gestire
autonomamente e fuori dalle regole del mercato, o tra i secondi, che ricadono
invece sotto la normativa di stabilimento, concorrenza, regole di appalto ecc..
che è stata ampliata da successive direttive. Per i casi controversi che le
differenze legislative possono creare ha stabilito che la Corte di Giustizia
europea potrà decidere precisando con le sentenze l’ interpretazione effettiva
del trattato e delle direttive.
Nello stesso anno della firma degli accordi GATS
a Marrakech nel 1994 viene approvata la legge Galli (36/94) che introduce la
possibilità di privatizzare la gestione del sistema idrico pur salvaguardando la
possibilità di una gestione pubblica ancora ammessa nell’Unione Europea, questa
ambiguità permane sino alla odierna legge 133 (art. 23bis). Un’ulteriore
ambiguità è la mancata definizione, con legge nazionale, dei servizi SIG o SIEG.
Secondo il nostro ordinamento i primi sarebbero di esclusiva pertinenza
regionale ed i secondi, dovendo rispondere alle normative europee, specie sulla
concorrenza, consentono allo stato di regolamentarne le modalità di gestione1.
I nostri amministratori locali, tra la tutela dei
loro interessi privati e di parte, necessità di rispettare almeno formalmente il
patto di stabilità e le pressioni di forti soggetti economici nazionali e
transnazionali, hanno dichiarato il servizio idrico, e non solo, “di Interesse
economico generale”; a questo punto i regolamenti europei avrebbero imposto una
gara pubblica tra tutti i privati che intendessero parteciparvi. Per le regioni
citate sopra agirono diversamente, crearono delle S.p.A.o S.R.L. con capitale
interamente pubblico a cui affidarono direttamente i vari servizi separatamente
o assieme, creando delle holding e, successivamente, adottarono due
soluzioni sfruttando le interpretazioni che la regolamentazione europea sembrava
consentire.
Nel primo caso, che è anche quello Toscano, dopo
l’ affidamento hanno proceduto a mettere a gara aperta una quota minoritaria
delle azioni facendo entrare un socio, per lo più come cordata di soggetti a
loro volta associati. La legge Galli prevedeva la divisione del territorio,
rimandando anche alla legge precedente (183/89), in Ambiti Territoriali Ottimali
(ATO) creando un nuovo soggetto giuridico costituito dall’ assemblea dei sindaci
che per ragioni legate ai bacini idrici dovevano mettere in comune le gestioni
onde sfruttare le conseguenti economie di scala. In Toscana sono sei e
rispecchiano, piuttosto che i bacini, le divisioni provinciali. In tre di questi
il socio privato vede la
partecipazione della Ondeo (Suez), Caltagirone e il Monte dei Paschi guidati
dalla Acea, ex municipalizzata di Roma ed oggi S.p.A a capitale misto tra i cui
soci sono presenti ancora la Suez e Caltagirone. Il punto taciuto di questo tipo
di privatizzazioni è che costituire queste società ha un costo rilevante e si fa
giuridicamente stipulando patti “parasociali” che ne determinano le regole.
Una di queste stabilisce quale deve essere la
quota di azioni necessaria ad approvare decisioni circa la conduzione della
società sia nell’ assemblea dei soci che nel consiglio di amministrazione. Uno
studio della facoltà di economia di Pavia (vedi articolo di approfondimento 4*) ha preso in esame detti patti in
alcune società campione, tra cui tre toscane, dalle quali risulta che, oltre la
regola per cui il socio privato nomina l’amministratore delegato, la quota
azionaria decisionale è superiore alla quota detenuta dal pubblico anche nel
caso che questo sia il maggiore azionista. A fronte, dunque, di un 51% detenuto
dal pubblico, ad esempio, le decisioni richiedono maggioranze del 60% per cui,
di fatto, è il privato ad avere il reale controllo.
Nessuno di questi aspetti “della privatizzazione”
è stato portato all’ attenzione dei cittadini, anzi, sulla questione del
“controllo” quasi tutti i sindaci hanno mentito.
Secondo le direttive europee questo sistema di
affidamento diretto e poi gara per il socio è scorretto e potrebbe essere
annullato o ricevere sanzioni, come del resto è stato fatto. Viene però
tollerato in mancanza di denunce dirette da parte di imprese private o
istituzioni, gli unici soggetti che nei regolamenti europei hanno titolo per
farlo, aventi interesse ad aggiudicarsi la gestione. Non è quindi casuale che
tra i soci privati vi sia sempre una grande compagnia internazionale. La loro
“forza” economica spiega il potere di ricatto, e quindi la tipologia di
contratti detta sopra, nei quali gli organi istituzionali salvaguardano
primariamente un certo numero di “poltrone” (non dimentichiamo che i dirigenti
delle SpA guadagno molto di più dei dirigenti pubblici – vedi sotto i rimandi al
“dossier ASA”) e la gestione “politica” dei rapporti con i “clienti”, ex utenti
e cittadini.
Sulla illegittimità di questa procedura , dopo la
Corte Europea, si è infine pronunciato il Consiglio di Stato su un caso di
affidamento di servizi sanitari in via di privatizzazione. Riporto, a questo
proposito, un passo della Sentenza N. 1/2008 reg. dec. NN. 9 reg. ric. ANNO
2007, c):
«Ritenuto - aderendo al parere reso dalla sezione seconda di questo Consiglio il 18 aprile 2007 con il n. 456 - che non sia accettabile l’opinione per cui, per il solo fatto che il socio privato sia scelto tramite procedura a evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto».
Quando la più alta corte sentenzia lo fa «in nome
del popolo italiano». Ma, evidentemente, politici e imprenditori credono di
essere “altro” (cittadini globali a fronte di cittadini locali??) e gli atti
per stabilire un controllo politico della magistratura forse non sono un
“pallino” del solo Berlusconi.
La seconda modalità, quella degli affidamenti
in house,
consente invece di agire sfruttando i regolamenti europei che
consentono affidamenti diretti a SpA a totale capitale pubblico. Questo
è possibile «quando l’ente aggiudicante abbia
su questa [ la S.p.A.] un “controllo analogo” a quello
esercitato sui propri servizi interni». Viste le differenze
giuridiche dei vari paesi UE questo concetto è stato introdotto,
a seguito di contestazioni giudiziarie degli affidamenti, dalla Corte
di Giustizia Europea nelle prime cause, Arnhem, RI:SAS, e la causa
C-107/98 Teckal. Questa ultima divenne la giustificazione
universalmente accettata, anche da insigni giuristi, perchè
consentiva l’ affidamento diretto senza gara pubblica dando torto
alla ditta (Teckal) che aveva fatto ricorso contro un consorzio di
comuni che aveva preso questa decisione. Per qualche anno nessuno
notò, o fece finta, che l’ affidamento diretto era stato
fatto ad una ditta consortile, ente diretto dei comuni, e non ad una
ditta di diritto commerciale/privato (quale era la Teckal).
Successivamente la Corte UE precisò la questione attraverso la
sentenza Parking Brixsen C-458/03 .
Sia per la pervasività del modello, sia per la
pressione degli obblighi di bilancio, anche i partiti della sinistra radicale ed
i sindacati hanno accettato e promosso questa soluzione costruendosi,forse,
l’illusione, o il “paravento ideologico”, che in questo modo gli attori politici
potessero mantenere un controllo sui servizi a fronte dell’ obbligo a
privatizzare a cui ci avrebbero spinto le normative europee e le necessità
economiche. Tutto questo è già noto. Riporto, infatti, un paragrafo della
procedura di infrazione relativa alla Regione Marche ( Bruxelles 4 luglio 2002
N° 8622. Oggetto: Procedura di infrazione 1999/2184 ex art. 226 Trattato.
Legislazione in materia di servizi pubblici locali.) ma che riguarda anche
molti altri territori (Lombardia, Toscana, Lazio) e contribuisce all’ incremento
della spesa pubblica per via delle sanzioni economiche che seguono la condanna.
«Con specifico riferimento all’affidamento del servizio idrico integrato la Commissione sottolinea altresì che i suoi servizi hanno ricevuto numerosi reclami relativi a casi di affidamenti diretti a società partecipate in tutto o in parte da enti locali facente parte di uno stesso degli ambiti territoriali ottimali previsti dalla legge n. 36 del 5 gennaio 1994. Tali affidamenti diretti si pongono in contrasto con le sopraccitate norme e principi del trattato CE nel caso di concessione di servizi, e laddove applicabili, con le direttive 92/50CEE e 93/38/CEE ogni qualvolta gli stessi configurino un appalto pubblico di servizi.»
Il significato dell’ultimo capoverso è che la
Comunità Europea delega la scelta di gestire i servizi idrici, ma anche quelli
sanitari e scolastici, ai governi nazionali e locali o secondo le regole di
mercato, rispettando le procedure di gara pubblica aperta, o tramite propri enti
che, non avendo come “missione” il profitto ma soltanto il pareggio di bilancio,
sono fuori dal mercato e relative regole. Insomma, in linea di massima è ancora
consentita la gestione dei servizi tramite enti pubblici.
È lecito sospettare, comunque, che i nostri
leader politici abbiano volutamente mantenuto questa ambiguità legislativa
sfruttando il fatto che in alcuni paesi, come l’Olanda, esistono norme del
Codice Civile tali da consentire il “controllo” anche sulle S.p.A a totale o a
maggioranza di capitale pubblico. Ma non è così in Italia, dove non esistono le
condizioni precisate dalla corte UE a garanzia del controllo pubblico su queste
società a causa dei poteri riconosciuti agli amministratori di S.p.A. e S.R.L. ,
specie dopo le modifiche legislative in materia apportate dal governo Berlusconi
nel 2003.
Il problema che crea la privatizzazione dei
servizi si può riassumere nel fatto che i cittadini vengono espropriati da un
lato della capacità di decidere essendo trasformati in clienti, dall’altro di un
diritto civile, includente e non “commerciabile” secondo lo spirito
costituzionale, che viene assoggettato ai criteri di profitto aziendale e di
valorizzazione delle azioni.
Queste aziende si presentano normalmente come “multi
servizi”; gestiscono anche rifiuti e distribuzione del gas
o dell’energia elettrica (tutti settori a monopolio naturale e/o
sociale). In questi casi alcune aziende realizzano profitti enormi
tanto che le loro azioni, appena approdano in borsa, sono considerate
“ di rifugio”, dato che nessuna crisi è riuscita a
farne crollare il valore e superano in redditività quelle
di materie prime quali il petrolio.
Una parte di questa ricchezza viene divisa tra
pochi azionisti (ma nulla cambierebbe concettualmente in caso di azionariato
diffuso in quanto sarebbe comunque discriminante) invece di essere messa a
disposizione dei cittadini sotto forma di migliori servizi e tariffe basse. Si
pensi che le municipalizzate toscane, le prime ad essere privatizzate,
riuscivano a coprire il 94% dei costi totali praticando tariffe irrisorie, le
più basse d’Europa. Inoltre il gestore privato, in quanto controllore della
società, gestisce anche la conduzione finanziaria. Questi, in molti casi
documentati dai comitati in lotta come quello di Aprilia (vedi articolo di
approfondimento 5*), ha quindi potere
di ricatto sull’assemblea dei sindaci, che costituisce gli A.T.O, riuscendo a
far modificare contratti e piani industriali e a scaricare sulla parte pubblica
l’onere degli investimenti e la loro garanzia. Questo diventa parte del
problema, recentemente venuto in luce, dei prodotti finanziari derivati che le
banche propongono e che molti comuni hanno sottoscritto, anche per altre spese
naturalmente, ma che finiscono per creare situazioni debitorie spesso
insostenibili a fronte delle entrate. Molti comuni, fortunatamente, in ritardo
sull’esternalizzazione hanno iniziato, a fronte delle esperienze in atto, a
coalizzarsi per evitarla, conservando la gestione diretta con aziende speciali e
consortili. Purtroppo sono meno di quanto ci si aspetterebbe considerando che
“l’istituzione Comune” ha un significato reale solo se gestisce quanto
hanno in comune i cittadini dello stesso.
Le privatizzazioni ed esternalizzazioni (un
comune emiliano ha esternalizzato anche l’anagrafe) rischiano di lasciare al
Comune un ruolo che poco si discosta da quello svolto oggi dalle “pro loco”.
Per descrivere con parole non mie questa situazione riporto dalla relazione di apertura dell’anno giudiziario 2007
del procuratore della Corte dei Conti delle Marche, Dott. Avola, la parte
che tratta questo argomento:
«Va manifestata profonda preoccupazione per il modo con il quale si sono sviluppati i processi di privatizzazione e di esternalizzazione dell’attività amministrativa. Le numerose indagini hanno evidenziato il rischio di una vera e propria implosione del sistema, rischio talmente grande da rendere non più rinviabile un’inversione di tendenza. L’esternalizzazione selvaggia, la privatizzazione senza regole, la forzatura delle logiche giuridiche ed economiche (si pensi, ad esempio, alle società in house), la lievitazione dei costi al di fuori di ogni controllo, il moltiplicarsi degli sprechi, la caduta nella qualità dei servizi, la propagazione di logiche clientelari, il progressivo sviamento dell’interesse generale, l’appropriazione parassitaria delle pubbliche risorse da parte dei privati: questo è il quadro generale che deve essere contrastato, non certo con un semplice ritorno al passato, ma attraverso il recupero di un sufficiente livello di governance fondato su regole nuove e sulla diffusione di prassi e comportamenti svincolati da qualsiasi interessata anarchia. Alcuni esempi danno significato a quanto affermato. Le società partecipate hanno incrementato a dismisura i costi delle strutture; hanno attribuito ingenti compensi agli amministratori, scelti talora non per meriti professionali, ma per appartenenza a questa o quella sensibilità politica; hanno privilegiato e sopravalutato gli apporti dei soci privati; hanno ad essi pagato il know how più volte sotto titoli diversi; hanno creato partecipazioni a catena o a fisarmonica illimitata; hanno sterilizzato qualsiasi forma di controllo dell’ente capitalizzante o conferente; hanno perseguito scopi spesso incoerenti o divergenti con quelli del medesimo ente, discostandosi dalla valorizzazione dell’interesse pubblico; hanno moltiplicato le assunzioni, in violazione dei limiti degli organici e soprattutto in assenza della trasparenza e della necessità funzionale. Si sono registrati casi nei quali il meccanismo a scatole cinesi ha causato scissioni artate dei rami di azienda: quelli attivi sono stati portati in dote alle società in mano alla componente privata e quelli passivi, per lo più con forti indebitamenti, alle società di pertinenza pubblica. Le ipotesi concrete di danno e di responsabilità sulle quali ha lavorato la procura in questo campo sono state il mancato raggiungimento o perseguimento dello scopo sociale, l’inutilità manifesta nella creazione di una società, l’incoerenza e la contraddizione fra i fini generali dell’amministrazione conferente e quelli perseguiti dalla società partecipata, le ricapitalizzazioni seriali dei disavanzi di gestione senza efficaci piani aziendali correttivi. Di eccezionale gravità si è presentata la situazione delle società multiservizi in house. In un caso l’indebitamento è cresciuto a tale livello da portare un comune sul crinale del dissesto. Di eccezionale gravità si è presentata la situazione di società per la realizzazione e gestione di opere e impianti per servizi pubblici. Costituite in nome dell’efficienza e della velocizzazione, hanno sprecato ingenti risorse senza arrivare pressoché a nulla (ci si riferisce in particolare ai settori della metanizzazione e della viabilità). Di eccezionale gravità si è presentata la situazione di una società che, incaricata dell’accertamento dei presupposti per l’applicazione dei tributi locali, ha prodotto materiale del tutto insufficiente e inutilizzabile».
Chi ha seguito le vicende nazionali della privatizzazione dell’acqua può sottoscrivere queste parole aggiungendo che se ci sono da un lato assunzioni clientelari dall’altro il trattamento del personale è notevolmente peggiorato come mostra una ricerca recente, curata in parte da ATTAC e pubblicata su libro dal settimanale Carta, col titolo Quindici anni dopo il pubblico è meglio, basata su centinaia di interviste a lavoratori del settore ed utenti.
La privatizzazione
dell’ acqua attraverso le leggi.
Sarebbe necessaria una trattazione che comprenda
gli aspetti antropologici, sociologici e psicologici per rendere conto di come
l’immaginario sociale si trasformi in accordo alle pratiche materiali. Ne
abbiamo un esempio nella poderosa analisi economica di Marx che, nella seconda
metà dell’800, rende conto indirettamente di come la trasformazione dei modi di
produzione agisca sulla composizione sociale, sull’immaginario che la lega
costituendone l’ideologia e di come questa possa diventare “alienazione”, una
falsificazione dalla coscienza in rapporto alle pratiche che ne misurano la
distanza rispetto alla sua percezione e accettazione.
Dopo la crisi del 1929 e la Seconda Guerra
Mondiale si imposero le teorie keinesiane che vedevano come positivo
l’intervento dello Stato secondo specifiche modalità. Alla fine della
ricostruzione si era già affermata e sviluppata la potenza economica degli Usa e
delle imprese che avevano già delocalizzato in Europa alcuni settori produttivi.
Erano i prodromi della seconda globalizzazione che si impose a partire dagli
anni '70. In questo periodo le teorie elaborate all’Università di Chicago da
Milton Friedman dimostravano invece la negatività dell’intervento dello Stato
in materia economica, ma sancivano specularmente il potere acquisito dalle
grandi transnazionali (General Motors, Ford;ecc..). Si Dettavano le nuove norme
economiche che vennero imposte, direttamente e non, dapprima ai paesi del loro
“giardino”, come quelli dell’America Latina, e ai paesi produttori di materie
prime essenziali manu militari. Poi per pura forza economica negli altri
paesi.
Dopo la legge Galli del 1994 le successive, di
riordino degli enti locali, finanziarie o di carattere ambientale, pur mettendo
vincoli alla possibilità degli enti pubblici di gestire direttamente il servizio
idrico, non hanno potuto abrogare palesemente gli articoli che ancora la
consentono. Gli ultimi tentativi di privatizzare tutti i servizi risalgono al governo
Prodi con il decreto Lanzillotta, da cui fu successivamente scorporato il
servizio idrico grazie alle lotte del movimento, la sua approvazione fu impedita
dalla fine anticipata della legislatura e poi riproposta con la nota legge 133
del governo Berlusconi all’art 23 bis.
Commentandola, il giurista, prof. Lucarelli (Univ.
Na), scrive:
Nel merito dell’art. 23 bis, in via preliminare, va detto che si tratta di una disposizione che ha ad oggetto, testualmente, servizi pubblici di rilevanza economica, o meglio “Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”. La norma non ha alcuna ambizione di definizione tassonomica delle categorie; ha invece un obiettivo molto chiaro, far si che voraci multinazionali, talvolta anche in commistione con soggetti pubblici, (nulla di più diabolico l’intreccio oscuro tra interessi pubblici e privati) s’impossessino, quanto prima, e a costo zero, del patrimonio pubblico, delle reti, realizzate nel tempo attraverso il ricorso alla fiscalità generale.[...].
Come è noto, l’ordinamento comunitario distingue tra servizi di interesse economico-generale e servizi di interesse generale, entrambi, seppur con caratteristiche differenti, servizi pubblici essenziali, ed in quanto tali, entrambi, in relazione al nostro ordinamento, riconducibili all’art. 43 Cost. Cioè riconducibili a quella norma che non è una mera norma di carattere organizzativo funzionale, ma è una norma che contribuisce alla caratterizzazione più profonda del modello di Stato sociale; una norma che continua a riconoscere, garantire e legittimare, proprietà e gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali, anche, laddove necessario, in regime di monopolio. Trasformare la nozione di servizio pubblico essenziale in servizio di rilevanza economica,significa violare l’art. 43, il modello di Costituzione economica e tutte le norme ad essa raccordate in primis gli artt. 2, 3, 5 Cost.; significa violare la peculiarità che l’ordinamento comunitario riconosce allo status di servizio di interesse economico-generale e servizio di interesse generale, peculiarità ancor più rafforzata dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona ed i suoi protocolli [...].
Ed infine si pensi che scompare dall’art. 3, paragrafo 2 del Trattato di Lisbona (TUE) il riferimento ad un “mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non è falsata” . La concorrenza dunque non compare più tra gli obiettivi dell’unione europea. Non è da sottovalutare che l’abolizione della libera concorrenza è stata caldeggiata dai francesi, gli stessi che hanno voluto aggiungere nell’articolo 3, paragrafo 5, che l’Unione, oltre ad affermare ed a promuovere i suoi valori e interessi contribuisce alla protezione dei suoi cittadini” (vedi articolo di approfondimento 5*).
L’Europa questa volta ci viene in aiuto nel
tentativo di salvaguardare i servizi, sebbene il suo impianto normativo sia
completamente ispirato alle dottrine neoliberiste, con l’intervento della
Francia che ha un governo di destra e dichiaratamente liberista ma
evidentemente con un senso più elevato del concetto di cittadinanza e del ruolo
delle istituzioni pubbliche. Si pensi che, pur essendo francesi le prime due
imprese del mondo in questo settore, la stessa municipalità di Parigi, dopo
decenni di gestione mista del servizio idrico, non rinnoverà il contratto con
Suez e Veolia e ritornerà ad una gestione direttamente pubblica. L’assessore del
comune di Parigi Anne Le Strat è stata chiamata a parlarne ad una manifestazione
promossa dalla Regione Toscana; all’occasione non si è presentato nessun sindaco
o assessore o consigliere ad ascoltarne le ragioni, dando tra l’altro un buon
esempio di arroganza, maleducazione e scorrettezza istituzionale.
Con questo non si deve dimenticare l’indirizzo di
cui sopra a seguito del quale, in omaggio alla sua (falsa) ideologia, l’UE
abbia tentato di smantellare indirettamente i servizi pubblici, mentre scriveva
il primo “trattato costituzionale”, poi bocciato con referendum da francesi e
olandesi, brandendo il vessillo della libertà di “concorrere” per la
prestazione degli stessi, all’interno del Mercato Europeo, attraverso la
“direttiva Bolkestein” che mirava a trasformare, indirettamente, i monopoli
pubblici, i beni comuni, mettendoli sul “libero mercato” (vedi articolo di
approfondimento 1* -- iniziativa
legislativa partita dalla commissione allora presieduta da Prodi, oggetto di
manifestazioni contrarie e depotenziata negli obiettivi in parlamento).
I
riferimenti politici in merito a trattati ed accordi vogliono far rilevare sino
a che punto sia penetrata profondamente l’ideologia economica dominante e di
come abbia separato la classe politica dalla società, specialmente dalla parte
meno abbiente. Di “riforma in riforma” e da un governo al successivo le
concezioni economiche neoliberiste alla base delle crescenti disuguaglianze
vengono recepite dalla classe politica e trasformate in norme. L’estendersi
delle applicazioni pratiche finisce poi per imporsi come comune sentire e,
quindi, base delle categorie interpretative della realtà. Con l’ideologia
trasformata in senso comune diviene difficile per questi individuare
i rapporti “reali” causa-effetto e quindi limitata la capacità di intervenire
efficacemente sulle cause (vedi articolo di approfondimento 6*).
Conclusioni
Apparirà chiaro che le lotte che oggi si svolgono sul tema acqua sono in netto contrasto con gli assunti fondamentali del capitalismo. Sebbene siano impegnate nel dare una risposta alternativa a problemi specifici e immediati, esse sono anche un tentativo di decostruire i luoghi comuni che permeano la nostra società, attraverso una pratica che ne chiarisca la natura e le contraddizioni. Il contributo a cui ci chiamano queste, e altre in atto, è quello di una lotta utopica che non consente vittorie definitive ma solo avanzamenti, o arretramenti, e richiede quindi consapevolezza dell’obbiettivo e costanza nel riproporlo. Ciò di cui parlo, l’utopia che attraversa e lega queste lotte di studenti, comitati, cittadini e lavoratori, è l’uguaglianza. I beni comuni la richiamano in quanto tali e ne sono il fondamento materiale di base. Come tali non possono essere oggetto di proprietà, se non collettiva e inalienabile, né essere usati in tale modo attraverso la loro gestione, che è quanto stanno facendo gli amministratori ai quali questa , e non certo al mercato, si è delegata.
note
1. Oggi ci troviamo davanti a mercati dominati da gigantesche
imprese in tutti i principali settori. Quando si parla di settori come quelli
dei servizi, che la teoria economica neoclassica considera in monopolio naturale
o sociale, la situazione è ancora più distante da quella che si assegna ad una
economia di mercato. La stipulazione di contratti di gestioni su tempi lunghi
(20,30, 50 anni) permettono tassi di profitto superiori a quelli medi. A questo
punto per giustificare le privatizzazioni si è inventata la concorrenze “per il
mercato”. Consiste nel dividere, tramite gare pubbliche, i mercati monopolistici
tra più gestori riuscendo ad introdurre in questi gli stessi vantaggi che,
teoricamente” darebbero i mercati concorrenziali (strada seguita anche dall’UE).
I presupposti di base per ottenere questo risultato sono però irrealistici
prevedendo: 1) la razionalità perfetta di detti mercati; 2) una buona
informazione di chi fa l’asta, che rimane una condizione iniziale, quando il
privato prende la gestione il controllore pubblico diviene un soggetto esterno
privo delle condizioni, anche legali, per conoscere i costi reali e su questi
stabilirei prezzi. Lo stesso personale politico che viene inglobato nell’impresa
ha in questa i suoi interessi immediati sia economici che di potere, perseguire
gli interessi generali non è, in queste condizioni, un interesse primario; 3) è
impossibile che sulla lunghezza dell’affidamento qualsiasi contratto possa
prevedere tutte le possibili circostanze e questo apre la strada di una continua
rinegoziazione dello stesso in cui l’impresa diventa nel tempo il soggetto forte
che può imporre condizioni; 4) che le singole imprese non colludano tra loro,
cosa irrealistica quando sono in numero limitatissimo; 5) che non vi sia
corruzione nell’autorità pubblica: non occorre commentare.
Si sono rivelate
infondate anche le teorizzazioni che vedevano nelle Authority i soggetti che
potessero contrastare sul versante dei prezzi del servizio le naturali tendenze
mono o oligopoliste. Nello studio di Massimo Florio sulle privatizzazioni
inglesi, dove esiste una tradizione radicata del ricorso all’authority, e una
tradizione di rigore dei funzionari pubblici sicuramente superiore a quella
italiana, è mostrato che le imprese del tipo considerato hanno goduto di
profitti superiori alla media degli altri settori dell’ordine del 21% il primo
anno, del 30% il secondo, del 57% il terzo. L’unica cosa di sinistra fatta dal
governo Blair è stata quella di aumentare il livello di tassazione di queste
imprese.
* * * *
Articoli di approfondimento
Comportamento di impresa e aspetti di economia istituzionale:
1*) http://italia.attac.org/spip/spip.php?rubrique172&var_recherche=Universit%E0%20attac
Alcuni aspetti della crisi economica normalmente taciuti da media e classe politica:
2*) http://italia.attac.org/spip/IMG/pdf_Crisi_finanziaria_o_truffa_finale.pdf
Articolo di R. Petrella, presidente nel 2000 della sezione italiana del “Contratto Mondiale per l’Acqua”:
3*) http://www.disinformazione.it/acqua3.htm
Studio della Facoltà di Economia (percorso: notizie-analisi società di gestione- allegato). Sul sito anche una dettagliata analisi dei bilanci di una SpA a totale capitale pubblico. Confronta Dossier ASA:
Sintesi problematiche Latina (Aprilia):
5*) http://www.acquabenecomune.org/spip.php?article5273
Per una panoramica del problema privatizzazioni dal nord Europa:
http://italia.attac.org/spip/spip.php?article222&var_recherche=mercati%20globali.
6*) Barbara Eherenreich, Una paga da fame, Feltrinelli, Milano, 2002.
Bibliografia essenziale:
- Riccardo Petrella, Il manifesto dell' acqua, Gruppo Abele, Torino, 2001.
- AA.VV., Ancora con l' acqua alla gola, Quaderni del granello di sabbia n°06, 2007. (italia@attac.org).
- Marco Bersani, Acqua in movimento, Alegre, Roma, 2007, (italia@attac.org)
- Marco Manunta, Fuori i mercanti dall' acqua, MC Editrice, Milano, 2001.
- C. Aruzza e C. Oddi, (a cura di) Quindici anni dopo: pubblico è meglio, Carta-EDS, 2006.
- Massimo Florio, Privatizzazioni e benessere: il caso britannico, in, Economia Pubblica, 2, 2003.
- Alessandro Santoro, Le ragioni del pubblico, Punto Rosso, Milano, 2004.
- D. Hall e E Lobina, L' acqua, un servizio pubblico, in, Rapporto Public Service International, reperibile in: www.fpcgil.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/D.65507165be08dabc6618/P/BLOB:ID%3D3481, 2006.
- Geuss Raymond, Beni pubblici beni privati, Donzelli, Napoli, 2005.
- AA.VV, Acqua, per un modello pubblico di gestione, Pigna,Teramo, 2005.
Argomenti correlati
- Ferruccio Rossi Landi, Ideologia, Mondadori, Milano, 1982, ristampato.
- Ernesto Screpanti, Il capitalismo, forme e trasformazioni, Punto Rosso, Milano, 2006.
- Amartya K. Sen, la disuguaglianza, Il Mulino, Bologna, 1994.
- Jean Zigler, la privatizzazione del mondo, Il saggiatore, Milano, 2005.
- Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco, 1988.
- Susan George, , Il rapporto Lugano, Asterios, Trieste, 1999.
Siti di consultazione non citati sopra
[21 marzo 2009]
home> conflitto/lavoro> L'acqua e i beni comuni naturali e sociali