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Autori e intenzioni

Roberto Talamo, Intenzione e iniziativa. Teorie della letteratura dagli anni Venti a oggi,
Progedit, Bari 2013, pp. 116, € 18,00

Francesco Diaco

Il recente saggio di Talamo è un libro che merita di essere conosciuto da un pubblico vasto ed eterogeneo per numerose ragioni, e soprattutto per quegli aspetti e quelle qualità che ne consentono una duplice modalità di lettura. L’autore, infatti, riesce a distinguere e intrecciare due piani ugualmente necessari: da una parte quello della proposta teorica originale e militante, dall’altra quello della rassegna storico-critica. Si tratta, cioè, di uno studio che avanza sì delle ipotesi innovative ma che, allo stesso tempo, ripercorre quasi un secolo di riflessioni, riassumendo con precisione e lucidità un dibattito fitto di voci e punti di vista differenti. Tale strategia coniuga un’umiltà estrema a un’irrinunciabile dose di ambizione: l’obiettivo perseguito non è solo la ricostruzione di un enorme ambito di ricerca, bensì la definizione nitida della propria teoria per mezzo di una leale esplicitazione della propria genealogia, cioè attraverso un percorso che sottolinea somiglianze e differenze rispetto alle formulazioni precedenti.

Per il suo taglio divulgativo, dunque, questo agile saggio potrebbe figurare nelle bibliografie di qualunque corso di storia della critica letteraria. Come evidente sin dal titolo, la questione presa in esame è quella – fondamentale – della presenza dell’autore nell’opera. A che livello e con quali meccanismi si manifesta l’intenzione dello scrittore nel testo che porta la sua firma? Tale istanza è forse dotata di valore ermeneutico? In caso di risposta affermativa, come si relazionano, nel processo interpretativo, la volontà dell’autore e quella del lettore, che rapporti si instaurano tra l’epoca e la mentalità in cui si situava la produzione e quelle in cui avviene la ricezione? A tali quesiti cercano di rispondere queste pagine, che convocano la densità speculativa dei maggiori critici del Novecento al fine di mettere a confronto le varie auctoritates e di generare un dialogo euristicamente produttivo. Va segnalata, in particolare, l’elegante chiarezza della struttura espositiva, raggiunta attraverso la distinzione tra un capitolo sul «dibattito analitico», di area angloamericana, e uno sugli «autori continentali», che raccoglie gli spunti sviluppati in Russia, Italia e, soprattutto, Francia. Il lettore, così, viene preso per mano e accompagnato attraverso le tappe di una discussione che inizialmente segue strade diverse a seconda dell’area in cui nasce, per poi unificarsi negli ultimi decenni: si va dall’intentional fallacy di Wimsatt e Beardsley (1946) alle formulazioni di Northrop Frye, Eric Hirsch, Wayne Booth o Paul De Man; dalla polemica tra Formalisti russi e scuola bachtiniana fino alla «morte dell’autore» proclamata da Roland Barthes e alla «disseminazione» decostruzionista di Derrida, passando per le indagini sociologiche di Goldmann e Bourdieu.

A mio avviso, però, il merito principale di Talamo risiede nell’aspetto fondativo della sua teoria. In altre parole, il valore del saggio non sta solo nei risultati innovativi a cui perviene ma, in misura ancora maggiore, nell’idea di uomo e di società che emerge da esso, nella serietà con cui si conduce l’argomentazione, nella deontologia professionale insita nelle conclusioni metodologiche. Un movimento decisivo e rivelatore, sostenuto da una fitta frequentazione della filosofia e delle scienze umane, consiste nello spostamento dal concetto di «intenzione» a quello di «iniziativa» autoriale: in questo modo (e grazie ad alcune considerazioni ereditate da Ricœur) viene compiuta l’«iscrizione della teoria del testo nella teoria dell’azione» (p. 20). Talamo, cioè, non punta certo a restaurare i miti, di derivazione romantica, del Genio e dell’autenticità individuale, così come non mira a rievocare il biografismo e lo psicologismo della critica in auge da metà Ottocento agli inizi del Novecento. Al contrario, l’intenzione è concepita «come azione inscritta nel testo» (p. 3), come operazione conoscibile e pubblica, non segregata nei meandri della mente dell’artista in quanto appalesata e incarnata nella scrittura. In questo modo, si superano le obiezioni sollevate dal new criticism, collocando l’istanza autoriale nell’oggettività del testo e identificandola non con un progetto posto a monte e realizzato sempre imperfettamente, bensì con l’esito concreto di un conflitto tra intento ed evento-situazione (Wittgenstein), tra convenzione e innovazione, tra libertà e necessità. A questo punto si inserisce la ripresa di alcune idee prelevate da Foucault e da Bourdieu: del primo si conserva la concezione del «dispositivo» come rete di pratiche e saperi creata in risposta a un’urgenza storica e orientata vettorialmente, cioè tesa verso un determinato fine; del secondo si accoglie la nozione di un «contesto» formato sia da elementi verbali (per esempio, il canone scolastico) sia da elementi extraletterari (l’«illusio», cioè l’attribuzione di valore all’arte in generale), di un «campo di forze» che da una parte predetermina lo spettro delle possibilità, influenzando l’atto della creazione, dall’altra rappresenta il frutto di un conflitto continuo, il risultato di un’ininterrotta riconfigurazione del sistema. È evidente la modernità di una tale impostazione: l’identità non è più un’essenza originaria, l’intenzione non è più un’entità ideale e astratta, poiché entrambe corrispondono a costruzioni calate in un hic et nunc storicamente definito. A differenza di quanto avveniva nello Strutturalismo, non si dà qui l’esistenza di una griglia pura e inerte, di un ordine che incasella ogni funzione assegnandole una collocazione statica; all’opposto, a interessare lo studioso è la contrattazione sociale, lo scontro tra le varie «prese di posizione», il donde e il dove di ogni atto. Infatti, se non si rintracciasse la tensione verso il perseguimento di uno scopo, non sarebbe possibile il riconoscimento di una presenza umana dietro l’agire e si ridurrebbe quest’ultimo a un mero funzionamento meccanico (Dennett), come se si trattasse dell’ingranaggio di un orologio. L’opera, invece, non è né un congegno impersonale e atemporale né il semplice rispecchiamento di un’epoca e di un gruppo sociale, dato dall’omologia tra la forma artistica e la mentalità da cui nasce (come sostenuto dalla teoria del rispecchiamento di Lukács e Goldmann). L’iniziativa, viceversa, fornisce la risposta alla domanda «perché?» (Anscombe) a un livello globale e non solamente soggettivo, coincidendo con la «dialettica […] tra forza del presente, spazio di esperienza e orizzonte di attesa» (p. 22). Traducendo dal linguaggio di Ricœur e di Koselleck, si vuol qui indicare la sintesi viva e «operante» che avviene nell’oggi a partire dal passato e in vista di un futuro; il presente, quindi, non si rimpicciolisce ad attimo vuoto e metafisico ma si carica di uno spessore che coniuga memoria e speranza, di un’energia in grado di «riattivare» le fratture rivoluzionarie rimaste inespresse e potenziali (gli arresti messianici, diremmo con Benjamin), di una «forza nel mondo» che «apre la possibilità del cambiamento» (p. 102). Se declinato in senso strettamente artistico, tutto ciò non fa che descrivere la capacità di ogni grande opera – ma anche delle prassi, delle istituzioni, delle credenze estetiche – di rimodellare le coordinate che le preesistono, si tratti di generi letterari, di questioni linguistico-retoriche, di pattern e stilemi consolidati.

Finora abbiamo visto come Talamo si schieri per un metodo di analisi incentrato sulla contestualizzazione dei testi; eppure il suo discorso non può certo trascurare l’essenzialità del processo di ricezione, l’importanza dell’attività svolta dal lettore nel proprio presente storico. La soluzione si inserisce in un alveo che parte da Lausberg per arrivare, in Italia, a Brioschi, Fortini e Luperini: mentre le notizie sui quotidiani sono «discorso di consumo» che esaurisce la propria validità nel tempo effimero della cronaca, la letteratura – così come le leggi o i riti sacri – custodisce il proprio valore proprio nel «ri-uso», cioè nell’iterabilità della lettura anche a distanza di secoli. In contrasto con coloro che – come Hirsch o Danto – riconoscono nel testo un “senso” d’autore (meaning, livello ontologico) ma lo distinguono dalla sua “rilevanza per noi” (significance, livello esplicativo-valutativo), Talamo lega in un solo gesto conoscitivo il momento della storicizzazione e quello dell’attualizzazione. Il lettore preso in esame, infatti, non è un individuo sociologicamente generico ma è membro di una comunità ermeneutica riconosciuta, appartiene a un corpo di funzionari (gli intellettuali, i docenti, i critici) deputato alla selezione e trasmissione della tradizione, alla ridefinizione della memoria collettiva attraverso un perpetuo «conflitto delle interpretazioni». In altre parole, non esiste solo l’«iniziativa» dello scrittore – initium per antonomasia – ma anche quella dell’interprete, che dona al testo una nuova «forza del presente» attraverso un ri-uso «consapevole e orientato» (p. 20). Un corollario non scontato di tale assunto permette a Talamo di distanziarsi non solo dalle posizioni formaliste e strutturaliste, ma anche da quelle eccessivamente schiacciate sul lettore e sulla circolarità tautologica della conoscenza, e di sconfinare nel dominio dell’etica: «responsabilità nella scrittura e nell’interpretazione, elemento conversazionale e responsivo e mutuo riconoscimento sono le forze che costituiscono […] la teoria che stiamo delineando» (p. 60). Il testo, pertanto, non viene visto come gioco combinatorio autoreferenziale, come teleologia del linguaggio verso le proprie stesse potenzialità, come Scrittura interminabile e autonoma, ma come discorso indirizzato, come sforzo comunicativo che mette in contatto emittente e destinatario, vincolando entrambi al dovere di un mutuo riconoscimento. I “lettori incaricati”, allora, non vengono ridotti al rango di «meri “apparati di percezione”» (p. 65), condannati a interessarsi soltanto al «piacere del testo»; al contrario, essi divengono protagonisti di un dialogo, mossi verso la scoperta dell’alterità e della propria stessa condizione di uomini da un «interesse conversazionale» (Caroll) e da un senso di «responsabilità» (Cavell) – dovuta, quest’ultima, sia all’autore interrogato sia al pubblico cui ci si rivolge. In una simile concezione si fondono in maniera originale le riflessioni di Medvedev-Bachtin e quelle della sociologia più recente: se l’Io integerrimo e monolitico è stato messo in crisi ormai da più di un secolo – assorbito in forze che lo attraversano, interiormente lacerato da moti inconsci oppure relegato a una dimensione esclusivamente linguistica – è però possibile inventare un nuovo modello di soggettività che sia all’altezza dei tempi, che si confronti con i propri simili e che radichi la propria consistenza nel rapporto di comunicazione con essi. La decisione con cui Talamo attacca alcune derive anti-intenzionaliste consente di definire ossimoricamente questo saggio come un “pacato pamphlet”: a suo parere, infatti, l’impostazione formalista volta le spalle all’umano, causando alienazione e isolamento; la «morte dell’autore» non provoca la «nascita del lettore», anzi ne decreta la morte, dato che lo priva di interlocutori riconoscibili e di interrelazioni sociali, abbandonandolo in «una solitudine assoluta» (p. 68), assordato dal «rumore dell’indifferenza» (p. 102). Non è un caso che il lettore-modello previsto da Barthes fosse spogliato di qualsiasi biografia, psicologia e storia, annichilito di fronte alla potenza impersonale dell’Écriture. Potremmo dire che a una linguistica strutturale e riduzionista Talamo preferisca un approccio pragmatico-contestuale e conativo: non si dà messaggio al di fuori della comunicazione, cioè del processo di scambio e contatto tra esseri umani. In aggiunta, le «formazioni semiotiche non sono autoevidenti» (p. 94) né «ermeneuticamente autofondatrici», bensì necessitano di altro – un “altro” ovviamente ordinato a seconda del livello di pertinenza (Genette) – per essere comprese: in primis, di un’intenzione dell’emittente, di un orizzonte storico-culturale, di un retroterra ideologico in cui essere situate. Di conseguenza, la critica letteraria non deve affatto inseguire la presunta asetticità delle scienze sperimentali: la sua legittimazione deve avvenire su un altro piano (quello del vero, non quello del certo) e attraverso altre strategie.

Un ultimo punto che merita di essere svolto è il paradosso per cui il secolo che, a vario titolo, ha decretato la crisi teorica dell’individuo e l’affermarsi di poetiche – e di metodologie ermeneutiche – anti-intenzionaliste, è stato anche quello in cui la vita singolare è assurta a unico valore riconosciuto. Negli ultimi quarant’anni, in particolar modo, si è diffusa una mentalità narcisista, cinicamente individualista ed espressivista, dove ciò che conta è solo la realizzazione dei propri desideri e delle proprie ambizioni, in assenza di un senso che trascenda la polverizzazione monadica della società. La ricaduta in ambito critico di questo modus vivendi ci consente di smascherare l’egocentrismo celato dietro l’impersonalità. Come suggerito da Stanley Fish, difatti, tra formalismo e decostruzionismo è possibile rintracciare un’inaspettata convergenza: che il significato sia concepito come dato oggettivo o come differimento e sfuggente dispersione, nella pratica ciò che rimane è l’assolutizzazione del punto di vista del singolo critico letterario, l’autonomia del suo parere, ormai liberatosi dal vincolo della figura autoriale. Figura che, secondo Talamo, deve conservare una certa consistenza, frutto di un’attività reale, senza ridursi a imago «implicita» o postulata dal lettore; una figura la cui intenzione, pur estrinsecandosi in un’ipotesi di coerenza testuale (come presupposto dal metodo dei loci paralleli), travalica la semplice dimensione della pagina. Non vale, poi, l’accusa di dispotismo patriarcale mossa da Barthes: come dimostrato già da Bachtin – a partire dall’extralocalità, ma soprattutto grazie al rilevamento della polifonia dostoevskijana – la presenza autoriale non implica necessariamente l’assolutismo tirannico di un Dio inteso come unico depositario e padrone della verità. In fondo, ciò che accomuna molti anti-intenzionalisti – fino alla recente antologia “contro-autoriale” curata da Sophie Rabau – è la propensione al soliloquio piuttosto che la ricerca del dialogo, è l’insofferenza verso i limiti dell’interpretazione e l’esaltazione di un tradimento del testo vissuto come libertà produttiva; atteggiamento che Talamo etichetta come «gioco egotistico di protagonismo creativo della critica» (p. 99).

Per concludere, proviamo a tirare le fila e a interrogarci brevemente sulle ragioni di questo saggio. L’obiettivo che ne regge l’intera arcata è esposto chiaramente nel finale: «pensare l’iniziativa […] non significa far rinascere […] il Genio, ma […] vuol dire opporsi alla […] “Fine della storia” e […] colmare quello iato ancora esistente tra analisi del testo e storia della letteratura» (p. 101). Come già detto, Talamo valorizza le opere nella loro natura dialettico-conflittuale, puntando contemporaneamente alla storicizzazione e all’attualizzazione; egli, in altri termini, abbatte i principali miti teorici novecenteschi (l’Autore, il Testo, il Lettore) attraverso un’operazione di inserimento di ognuno di questi poli nei rispettivi contesti-dispositivi-campi di forze. Si può, forse, rimpiangere qualche assenza: per esempio Blanchot, le cui riflessioni sul neutro e sull’«impossibilità di morire» (cioè di porre un termine all’interpretazione e alla Scrittura) costituiscono un tramite necessario tra il primo Novecento (le poetiche che vanno dalla linea Mallarmé-Valéry-Eliot alla scrittura automatica Surrealista; la filosofia heideggeriana) e il pensiero di Barthes; oppure Harold Bloom, propugnatore di una resurrezione dell’autore come individualità titanica e carismatica, impegnata in un violento corpo a corpo con i grandi classici che l’hanno preceduta, al fine di vincere «l’angoscia dell’influenza» e approdare a una propria creazione originale (visione che, credo, Talamo rigetterebbe). Tuttavia, l’aggiunta di questi o di altri nomi non arricchirebbe di molto questo studio, peraltro estremamente documentato, la cui forza principale sta in un sincretismo metodologico che non rifugge dalla drasticità della scelta, insistendo anzi su parole quali «dialogo», «storia», «etica», «responsabilità», «azione». Infine, pare di avvertire in queste pagine l’impulso irrefrenabile a rompere la chiusura dei modelli strutturalisti, la spinta febbrile a uscire non solo dall’immobilità asfittica dell’Accademia, ma soprattutto da un presente socio-politico paralizzato in una stasi che, però, non deve essere considerata fatalmente inevitabile o irreversibile. Schema gnoseologico e prospettiva pratico-morale vengono quasi a sovrapporsi: lungi dal fossilizzarsi in un «circolo vizioso», essi assumono la forma di un «movimento a spirale» (p. 18) in cui la forza del presente agisce verso un futuro di cambiamento radicale. «Ogni iniziativa […] è quel fare che fa sì che la realtà non sia totalizzabile» (103). Che si tratti di una battaglia residuale, ereditata da decenni ormai tramontati, oppure – come credo e auspico – di un segno dei tempi che invita alla speranza, la proposta di Talamo sembra segretamente riformulare e aggiornare l’esigenza, avanzata da Fortini nel 1968, di «identificare […] le responsabilità intellettuali degli autori. Che le parole scritte abbiano subito delle conseguenze, come i calcoli degli ingegneri e le scelte dei politici» » (F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida a un buon uso dell’alfabeto, Milano, il Saggiatore, 1968, p. 30).


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[19 febbraio 2014]
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