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Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto
Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto
Ponte alle Grazie, 2012
Alessandro Cadoni
L’immagine di
copertina, una fotografia scattata nel 1969 da Elisabetta Catalano, è un segno,
in certa maniera, emblematico: Laura Betti in posa, lo sguardo intenso e
drammatico, si fa largo in primo piano. Leggermente discosto, un passo indietro,
Pier Paolo Pasolini scruta lo spazio tra sé e l’obbiettivo, come fosse lui, e
non la macchina, a osservare e forgiare l’immagine. A quella plastica della
Betti, che determina la necessità di impadronirsi dello spazio, si contrappone
la figura bidimensionale di Pasolini, quasi una sagoma di cartone, vagamente
spettrale.
L’elaborazione grafica propone, accanto al titolo, un suggerimento di lettura:
«La storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini». Il
titolo, infine: «Qualcosa di scritto» è la formula con la quale Pasolini stesso
– in vari luoghi, a partire dall’omonimo Appunto 37 – si riferisce a Petrolio.
Che questo di Emanuele Trevi sia, come pare naturale credere, un libro –
romanzo, divagazione, saggio? – su Petrolio è giusto solo in parte: e in quella,
forse, più esteriore. Il plot, se così si può chiamare, è semplice. Il quasi
trentenne Trevi, in un lasso di mesi che va dal 1992 al 1994, si trova a curare,
su incarico affidatogli da Laura Betti presso il Fondo Pasolini, una raccolta di
interviste pasoliniane. Qui, nella vecchia sede romana dalle parti di Piazza
Cavour, il giovane scrittore è quotidianamente alla mercé dei lazzi, spesso
d’inaudita violenza verbale, della «Pazza», come presto inizierà, tra sé, a
chiamare la Betti. In quei mesi conosce Dragan e Ljuda, due giovani rifugiati
politici di Sarajevo, e, attraverso di loro, Maria. I tre, specialmente quest’ultima,
gli svelano la conoscenza dell’universo sadomaso, senza che egli vi sia,
tuttavia, iniziato. Durante un viaggio in Grecia in occasione di un convegno
organizzato dal Fondo, Betti e Trevi sono accompagnati dall’allora giovane
studioso Massimo Fusillo (più avanti autore di un saggio fondamentale come La
Grecia secondo Pasolini), il quale, oltre a mansuefare – vero miracolo – la
ferocia della giaguara (altro nomignolo, ben noto, di Laura Betti), si rivela
pure lui un iniziato alle pratiche sessuali del sadomaso. Questo è ciò che lo ha
portato – Trevi lo capisce bene ora – a capire a fondo le trame d’un testo
misterioso come Petrolio.
Questa serie di eventi, narrati secondo un filo cronologicamente confuso,
risulta ancor più nebulosa dall’intersezione di divagazioni cucite negli
interstizi, spesso dedicate al grande romanzo postumo del regista di Accattone.
Stralciamo un passo, quasi all’inizio:
Petrolio è un grosso frammento, quello che resta di un’opera folle e visionaria, fuori dai codici, rivelatrice […]. Petrolio è una bestia selvaggia. È la cronaca di un processo di conoscenza e trasformazione. È una presa di coscienza del mondo e un esperimento su se stessi. Tecnicamente: un’iniziazione (pp. 17-18).
Non unica nel libro, si tratta di una pagina particolarmente densa. La prima,
inoltre, in cui risalta «qualcosa di scritto», si fa riferimento, cioè,
all’incompiuto pasoliniano. Una pagina densa, dicevo, giacché è qui anticipato –
in modo analogico, sibillino, proteso alla chiosa – tutto quanto sarà poi detto
su Petrolio. Lo strumento retorico è quello appunto dell’accumulo e della
condensazione: nel resto del libro, che sarà comunque molto denso, assisteremo
però a una rarefazione attraverso la quale si entrerà, capillarmente, nei
meandri di questa opera. Capillarmente, non a caso, dato che in Petrolio si
coglie il senso di un incontrollato brulichio1 che conduce Trevi su una
direzione divagatoria a lui congeniale, che traccia due strade parallele tra
Trevi autore e Trevi personaggio:
Bighellonare è sempre stata la mia specialità. Genera l’illusione che la vita è abbastanza lunga, che c’è tempo per tutto. Come tutti sanno a Roma, in qualsiasi zona e in qualsiasi ora del giorno o della notte, sono più le persone che vanno a zonzo senza uno scopo che quelle impegnate in qualcosa di concreto (p. 29).
Nello stesso modo, Trevi si aggira nei meandri delle scritture di Petrolio,
commentandone alcuni passi oscuri per poi perdersi tra le fumose esalazioni che
ne emergono.
E dunque, Petrolio è il centro, non l’argomento principale del lavoro (non
chiamiamolo, ancora, né romanzo, né saggio)2. Trevi infatti procede, come già
detto, per analogie. Ancora meglio: per trasporto di senso, per diversificate
vie tropologiche. Petrolio – sorta di correlativo oggettivo di quell’ombra di
Pasolini evocata in copertina – è, in qualche modo, effigie di un daimon
bifronte di cui l’altra faccia è Laura Betti.
Per intendersi: Laura Betti, qui nelle spoglie di personaggio-mostro dantesco, e
Petrolio, come romanzo-iniziazione/bestia selvaggia, formano, assieme, un
monstrum: l’«incontro impossibile» di cui s’è letto in copertina, o, ancor più a
fondo, il rapporto impossibile tra Pasolini e Trevi. Ovverosia, tra un
intellettuale del 1975 e uno del 1992, anno in cui usciva Petrolio e Trevi era
impegnato al suo lavoro, accanto alla Betti, al Fondo Pasolini.
Ecco un altro passaggio dalle pagine già citate sopra:
… nel 1992, quando Petrolio viene strappato al beato sonno degli inediti, di libri così non se ne fanno più. Sono cose diventate incomprensibili alla stragrande maggioranza del mondo. Qualcosa è accaduto. Confrontata alla letteratura del 1975, la letteratura del 1992 appare molto più – come dire? – striminzita. La varietà dei generi, con tutta l’infinita gamma di sfumature, contaminazioni [corsivo mio], variazioni individuali, sembra quasi scomparsa, ridotta a una sola esigenza, a una sola preoccupazione: raccontare delle storie, fare un bel romanzo. […] Fatto sta che a metà degli anni Ottanta, lo scrittore più significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt’altro che modesto […], Carver rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa più nulla. L’unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller. L’unico mondo di cui parla, è quello che conosce empiricamente – la porzione di gabbia che gli è toccata in sorte (19-20).
Ecco: mi pare che da qui, in sostanza, il centro dell’argomentare divagatorio di
Trevi dirotti sul tempo che intercorre tra il 1992 e il 2012, e sul tentativo di
mettere in crisi l’impossibilità di quell’incontro, di quel rapporto. Vent’anni
che corrispondono a un possibile percorso di coscienza, accompagnato da
Petrolio: un libro misterioso, veramente indecifrabile – tra la ridda di ipotesi
più o meno verosimili – oppure che necessita di un tempo, per quanto
lunghissimo, di consuetudine e comprensione?
Petrolio e Laura, il rapporto di Trevi e Pasolini, sono in realtà allegorie: in
questo caso, di un passaggio di tempo, di un cambiamento avvenuto. Un
cambiamento maturato nell’autore. Però egli non è rappresentante solo di sé, ma
di un’intera generazione intellettuale che ha potuto guardare a Pasolini solo a
partire dalle ceneri. Detto in termini, mi rendo conto, sbrigativi: come
accennavo, Trevi è un intellettuale che nel 1992 arriva alla maturità, verso i
trenta anni. Il 1975 è passato remoto: diciassette anni corrispondono al crollo
delle certezze, a un supposto inabissamento delle ideologie. Il nuovo
intellettuale guarda alle rovine – alle macerie di quella che è stata un’idea di
mondo, di società – non più con l’orrore che incita tuttavia alla resistenza,
alla militanza, alla ricostruzione. Piuttosto alla rassegnazione: è
disincantato, depresso, cinico. Trevi non rifiuta, però, quella che potremmo
chiamare ‘funzione critica’ della scrittura (indipendentemente narrativa poetica
o critica). Certo, non si sente in grado, non sono questi i tempi, di dare ad
essa quella veste, diciamo così, civile, ufficiale, propria d’un carattere
pubblico già assunto dall’intellettuale. Il suo libro d’esordio, in uscita
proprio durante i mesi di lavoro al fondo, Istruzioni per l’uso del lupo,
dimostra pienamente questa tesi; Trevi stesso lo ammette: in quel momento è più
interessato a scrivere bene. Il binomio Betti-Pasolini è un’iniziazione
all’autenticità. Betti e Petrolio sono due espressioni, in vita e letteratura
(da intendersi come endiadi), del senso della catastrofe (cfr. pag. 27). Ovvero
il senso dell’autenticità in vita, e dunque in letteratura: cosa più di una
catastrofe è maggiormente oggettivo, rumoroso, percepibile, percussivo eppure
d’origine misteriosa? Eccoci al punto: secondo Trevi, in Petrolio si annida una
scrittura di iniziazione. Risulta fondamentale, da questo punto di vista,
l’atteggiamento dei due giovani bosniaci, personaggi di Qualcosa di scritto
(profughi a Roma e ospiti di Laura), che guardano attoniti alla tragedia che, in
quel momento, si sta consumando nel loro paese. Qual è, per loro, la forma
dell’impegno? Quale l’azione di resistenza? La pratica sadomaso. Parrebbe una
scelta nichilistica, avvolta di decadenza. Invece è la potente allegoria di un
mondo intuito come affermazione della violenza, dello scambio di violenze. Petrolio, più in grande, è ancora questa allegoria. Tuttavia, così pare,
l’impegno – inteso genericamente come azione – sparisce: resta solo il segno, la
figura.
Ora, qualcosa è cambiato nei vent’anni dal ‘92 al 2012. La curiosità stralunata
del giovane Trevi – specchiata in quella nichilistica dei coetanei serbi e
emergente ancora nelle sue opere degli anni ‘0 come I cani del nulla o Senza
verso – va oltre se stessa, si supera pur non risolvendo l’impasse che le sta
alla base. Ciò avviene, nell’autore, indagando appunto il concetto di
iniziazione, senza rinunciare – con l’aiuto delle preziose edizioni di Petrolio,
in particolare l’ultima del 2005 a cura di Silvia De Laude – al proprio talento
innato per la composizione dei materiali: frugando, in sostanza, nei materiali
stessi di Petrolio, come i saggi di Alfonso di Nola (Antropologia religiosa.
Introduzione al problema e campioni di ricerca, Vallecchi, Firenze, 1974) o di
Norman O. Brown (Corpo d’amore [1966], SE, Milano, 1991). Ma di che tipo di
iniziazione stiamo parlando? Leggiamo due passi distinti:
Che la partita, che è un vero spareggio secco, senza possibilità di rivincita, si giochi su un solo tavolo, né esattamente il «cinema», né esattamente la «letteratura», noi lo possiamo verificare anche considerando tutto da un’altra prospettiva, che è quella del rifiuto dell’opera compiuta. Quando invece – suprema intuizione realista – non c’è niente che inizia e niente, meno che mai, che finisce. Tutto ribolle nella sua demenza da serpente primordiale, nella sua luce iniziatica (p. 93).
Il tenace tarlo del ridicolo corrode tutti i monumenti, fino a che basta un soffio per ridurli in polvere. La pienezza dell’umano, al contrario, non è frutto né dell’eufemismo né della censura. I suoi principali ingredienti sono la sofferenza e la comicità, talmente impastate e confuse che è impossibile, ormai, distinguerle. La nostra vita, unica in questo tra tutte le forme di vita conosciute, è tale che, a considerarla per quello che è, suscita simultaneamente il riso e il pianto (pp. 122-123).
Si parla nel primo caso dello statuto incompiuto di Petrolio; nel secondo della
tragicomica implosione della monumentalità bettiana. La presa di coscienza di
Trevi consiste nell’aver intuito la forza di verità quanto quella di realtà
presenti nelle contaminazioni (per dirla con termine pasoliniano), a due livelli
distinti ma strettamente accomunati – vita e letteratura. Allora, l’iniziazione
alluderebbe a una mescolanza di tragico e comico o, ancor più radicalmente – in
senso linguistico quanto fattuale –, di opposti quali femminile e maschile: la
glande, in Petrolio, per Pasolini figura quel grottesco compimento, espresso con
forza sublime, della cazza in Laura Betti; o, in definitiva, a quella mescolanza
indivisibile tra romanzo e saggio che informa Petrolio e tocca tutte le
scritture di Emanuele Trevi, al di là delle definizioni alla moda di fiction,
non fiction, autofiction3.
E dunque, come si rappresenta, come si accede alla materializzazione, pure opaca
nebulosa, di questa iniziazione? Proprio attraverso le contaminazioni: la pietà
e la sofferenza nella comicità del mostro Laura, l’ibrido in Petrolio, che è
ibrido mascolino-femminino in Laura, la scrittura ibrida di romanzo e saggio.
Uno dei meriti precipui del romanzo-saggio di Trevi è quello di aver ricercato
nelle contaminazioni pasoliniane, nello stile dunque – togliendo alla stilistica
quel velo di angusto tecnicismo, appunto per soli iniziati –, la via d’accesso
all’autenticità. Al rapporto sempre sfuggente, però oggettivo, della letteratura
col reale. Non a caso, perciò, la tensione di ricerca di Qualcosa di scritto
culmina nell’ékphrasis, forma emblematica – e già familiare all’autore di Senza
verso – attraverso cui la scrittura si sdoppia: parola e immagine, ovvero parola
che insegue l’immagine nella convinzione di un potere conoscitivo della
descrizione, del commento: della letteratura, insomma. Due i momenti basilari
(come quelli che intervallano Petrolio, con le metamorfosi sessuali del
protagonista) che, in tal senso, marcano la narrazione; il primo, oltre la metà
del libro, è la descrizione dell’affresco di Verghina raffigurante il ratto di
Persefone (pp. 163-164); il secondo, alla fine, di una statua che rappresenta il
ricongiungimento di Persefone e Demetra (221-22). È nello spazio tra rapimento e
ricongiungimento – intesi come separazione e mescolanza –, così come in quello
tra immagine e parola, che si misura il tentativo d’adesione a realtà e verità.
note
1. Come è noto, Pasolini parlava, in una pagina schematica di raccordo preparativa agli Appunti 20-30, di «romanzo non tanto ‘a schidionata’ quanto ‘a brulichio’», con riferimento alle categorie di Šklovskij (Petrolio, a c. di S. De Laude, con una nota filologica di A. Roncaglia, Mondadori, Milano, 2005, p. 126).
2. Quello della rubricazione formale è il primo problema posto dalla lettura di
Qualcosa di scritto, al di là della cosciente incompletezza della dicitura romanzo campeggiante in copertina. Ogni recensore, più o meno attentamente, l’ha notato, a iniziare dalle acute osservazioni di Niccolò Scaffai su Alias del 25 marzo 2012.
3. Non stupisce che, in un contesto spesso banalmente divulgativo come quello della trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio, il conduttore si sia trovato in imbarazzo proprio di fronte alla definizione del libro, in occasione di un’intervista all’autore.
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