home> recensioni> Le ceneri di Pasolini
Le
ceneri di Pasolini.
“Pasolini
in salsa piccante” di
Marco Belpoliti
Guanda, 2010, pp. 144, € 12,50
Ennio Abate
e questa presso la maggioranza prevale sull’altra.
(A. Asor Rosa, La Repubblica, 21 ott. 2005)
1. Carta d’identità di un lettore né
filo/né anti-Pasolini
Non sono stato un lettore appassionato di Pasolini. Non
credo per pregiudizi omofobi. Semplicemente Pasolini per me
è appartenuto a lungo a un mondo che sentivo fuori dalla mia
portata. Ricordo di aver letto di lui e in ritardo, da giovane, solo
Ragazzi di vita. Verso la fine del liceo feci
letture convulse e senza
guida. Il primo scrittore italiano che mi prese tanto da leggere quasi
tutti i suoi libri fu Cesare Pavese. Poi vari narratori americani che
uscivano nei primi Oscar Mondadori, la Recherche di
Proust,
l’Ulisse di Joyce. Seguì un
sessantottesco rifiuto
della letteratura in nome della politica; e un
riavvicinamento mediato
soprattutto dalla lettura degli articoli e saggi di Franco Fortini, per
me divenuto e rimasto «maestro a distanza» anche
quando potei incontrarlo di persona. Diventai più attento a
Pasolini e più consapevole dell’importanza della
sua opera proprio leggendo gli scritti polemici e a volte spietati che
Fortini gli ha dedicato. In particolare, fu da Attraverso
Pasolini,
letto appena uscito nel 1993, che più tardi, nel
’97, trassi spunti per un corso di scrittura, che
intitolai Fortini/Milano-Pasolini/Roma. In tale
occasione feci anche
una prima e coinvolta lettura de L’usignolo della
Chiesa
Cattolica e de Le ceneri di Gramsci. La
traccia di lavoro che
allora preparai confrontava biografie e opere dei due
scrittori. Li sentivo (e sento) complementari e antagonisti; e interni
alla problematica politica e culturale della sinistra comunista, che
avevo fatto mia. Complementari e antagoniste mi parevano pure Roma e
Milano, le città dove abitarono, ma anche i luoghi della
loro formazione giovanile: Casarsa per Pasolini e Firenze per Fortini.
E, storicamente e più in generale, i mondi a cui si legarono
emotivamente e intellettualmente - quello contadino per
Pasolini, quello urbano-industriale per Fortini - e che, tra
gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, vennero a
più duro confronto e scontro nella storia
dell’Italia. Sulla base, infine, della mia duplice esperienza
di vita - infanzia e giovinezza in un Sud cattolico (Salerno),
età adulta nel Nord industriale (Milano e hinterland) -
riconosco nelle prime somiglianze di emozioni con quella
iniziale (casarsese-romana) di Pasolini; e nella seconda una forte
vicinanza alla politicità di tipo
fortiniano. Queste le
credenziali della mia riflessione d’oggi su Pasolini.
a
2.
Commemorazioni
Il 21 ottobre 2005 sulle pagine culturali di
«Repubblica» - ora giornale principe della
“sinistra” - Sofri, Arbasino ed Asor Rosa
commemorarono Pier Paolo Pasolini a trent’anni dalla sua
morte. Quegli articoli toccarono alcuni topoi
ricorrenti nella
discussione su di lui e la sua opera. Sofri ne sottolineò
l’«irriducibile diversità»1.
Arbasino, intervistato da Antonio Gnoli, parlò con
nonchalance della «tolleranza da
parrocchia
veneta»2 verso gli omosessuali durante
gli anni Cinquanta e
dell’inasprirsi della loro condizione nei decenni
successivi3. Asor Rosa si limitò a un
onesto e lucido
discorso, solo in apparenza professorale, sul rapporto tra vita e
letteratura4, dichiarando la sua preferenza per
Calvino, meno
personaggio di Pasolini5.Parto da quelle pagine
per dire che
già allora erano divenuti minimi i cenni al ruolo di
scrittore politico e civile svolto da Pasolini, ma che sono bastati
altri 5-6 anni per assistere a un ulteriore restringimento (e
impoverimento) del dibattito sul suo lascito. Questa è
l’impressione che ho ricavato dall’introduzione di
Marco Belpoliti al suo Pasolini in salsa piccante6.
La sua attenzione
si concentra sull’omosessualità dello scrittore e
regista (ancora uno dei temi, ma non il più importante nel
dibattito di «Repubblica»), che viene presentata
come l’unica e più valida chiave di
interpretazione del personaggio e della sua opera.
a
3.
Esame di un’introduzione
I miei dubbi e le mie riflessioni riguardano proprio questo taglio
interpretativo. Mi sono chiesto: è innovativa la sua tesi?
è criticamente significativa? segna una svolta negli
studi su Pasolini? Ne dubito. Non credo (e i sostenitori
pasoliniani della «mutazione antropologica»
dovrebbero essere i primi a riconoscerlo) che
l’omosessualità di Pasolini sia ancora oggi un
aspetto rimosso «perché il nostro è un
paese profondamente cattolico, perbenista, nonostante gli scandali di
questi giorni, al vertice della società politica, lo
scandalo vero non è quello eterosessuale, ma quello
omosessuale»7. Vedo perciò
nella pubblicazione
del libro di Belpoliti un episodio di competizione tra le corporazioni
letterarie addette alla gestione dell’immagine di PPP. E,
infatti, la sua tesi è stata subito contestata.
È un sintomo più importante, invece, che si vada
imponendo uno spostamento della riflessione dall’opera al
personaggio. Lo colgo, da esterno, almeno nel lessico degli addetti ai
lavori. È, si dice, il corpo di Pasolini
(cioè
soprattutto le immagini, le foto del suo corpo, da vivo o soprattutto
da morto) che dovrebbe interessare i lettori
d’oggi. (Soprattutto? Soltanto? E perché?). Al
corpo punterebbe la curiosità dei lettori
o dei giovani che
di Pasolini sentono parlare per la prima volta? Oppure è
quello che di Pasolini interessa oggi ai post-pasoliniani? Propendo per
la seconda ipotesi. Il libro di Belpoliti mi pare
un’operazione di revisionismo letterario,
che, in parallelo
con la revisione della storia italiana del secondo Novecento8,
cucina un Pasolini gradito ai gusti postmoderni
veicolati dai mass
media, e cioè spettacolarizzato, destoricizzato,
depoliticizzato. Un tale riduzionismo non viene contrastato a
sufficienza neppure se ci si appassiona alla querelle
sulle cause della
sua morte, che trova contrapposti i sostenitori del movente politico
nell’uccisione dello scrittore e quanti lo ritengono vittima
delle sue frequentazioni notturne di prostituti. E siccome il saggio di
Belpoliti, in fondo, dà man forte a questa seconda tesi,
viene valorizzato dai giornali della cosiddetta
“destra” e suscita le ire della cosiddetta
“sinistra”9. Si tratta di
una replica nel campo
disastrato della letteratura della ormai falsa (spero non solo per me)
contrapposizione destra-sinistra, che continua a tener banco e a creare
confusione nel campo altrettanto disfatto della politica italiana.
a
4.
Il critico “complice”
Nell’introduzione Belpoliti fa sua
«l’ottica e l’etica della
«disperata vitalità» pasoliniana. Gli
dichiara una «fraterna e totale
complicità». Lo esalta come
«l’unico sociologo, o pensatore, o moralista, in
grado di interpretare la grande trasformazione italiana dagli anni
Sessanta»; e se la prende con la «sinistra
intellettuale e politica» che, negli anni ’70,
«disdegnò gli articoli del poeta comparsi su
giornali e riviste, spesso pensando, o dicendo ad alta voce, che si
trattava di cose già dette e ridette, da Marcuse, da Adorno
e Horkheimer, dalla Scuola di Francoforte, una sorta di divulgazione di
ben maggiori pensieri espressi decenni prima». Non si
sofferma sulle ragioni di quel “disdegno”. Non nega
contraddizioni nella vita di Pasolini o nella sua opera, ma sarebbe
giunta l’ora di sfrattare ogni aut aut.
Pertanto dichiara che
«si può essere con lui e contro di lui»
e che «ora è venuto il momento dell’et
et: possiamo accettarlo e respingerlo nel
contempo». Come mai
questo sia possibile oggi? Nemmeno questo spiega. Spiega, invece, come
vuole «andare oltre Pasolini con Pasolini»: se lo
scrittore di Casarsa mette sempre «il cuore in quello che
scrive, il cuore e il corpo», pure noi lettori dovremmo
metterlo. Sembra fiducioso in una facile
trasposizione di cuore e corpo (o vita) in parola. Anzi sostiene che la
«parola ..si fa carne» (una parafrasi non so se
blasfema o parodistica dell’incarnazione).
E apodittico
proclama: «Pasolini lo si accetta in toto o lo si
rifiuta», perché - secondo un’autorevole
opinione di Andrea Cortellessa - «le sue affermazioni non
possono essere confutate usando la sola ragione». Ecco un
nuovo dogma: Pasolini fu «corsaro e
luterano» (cioè, esempio di
«innocenza e colpevolezza, onestà disarmata e
mistificazione ingegnosa») e anche il lettore, rinunciando a
ogni spirito critico, dovrebbe ingegnarsi ad esserlo senza
sottilizzare tra opzioni tanto dilemmatiche? E tutto ciò
perché noi (o Belpoliti e il suo giro?) staremmo di fronte a
«una morte di cui non sembriamo più in grado di
liberarci». A questo punto, ancora al posto dei ragionamenti,
troviamo la boutade, che ha dato il
titolo al libro:
Per andare oltre Pasolini con Pasolini bisogna seguire il consiglio che il Corvo dà ai due suoi compagni di strada, Totò e Ninetto, in Uccellacci e uccellini: i maestri si mangiano in salsa piccante. Piccante, se possibile, per digerirli meglio. Attuare il procedimento di cui il poeta è stato un maestro, quello di divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età: ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza10.
Liberarsi, dunque, di un magistero (un
po’ soffocante per lo
stesso Belpoliti, pare) seguendo un consiglio di maestro Pasolini.
Sempre più scettico chiedo quanti sono i post-pasoliniani
ancora combattuti soltanto da «amore» e
«repulsa» nei confronti di Pasolini, tanto da non
saper fare altro che «amarlo fino al punto di
divorarlo, e ingerirlo per digerirlo».
a
5.
Destoricizzare Pasolini
L’invito al simbolico rito cannibalico (o a una sorta di
comunione cattolica11) serve a Belpoliti per
staccare Pasolini dalla
storia e dalla politica di quel suo tempo. Imbocca così una
scorciatoia oggi molto frequentata, facendo combaciare la storia - i
tempi lunghi della storia - con la ristretta
“storia generazionale”. Non a caso trascura ogni
accenno al periodo della formazione antifascista di Pasolini o alla
crisi del ’56 e parla di Pasolini «a partire dal
1968-‘69». Mi pare un modo elegante per cancellare
una certa storia della sinistra comunista e anche certe
aspirazioni politiche in Italia vive fino agli anni Settanta. E ancora
una volta non a caso s’appoggia - altra «fraterna e
totale complicità»! -
all’autorità di Alfonso Berardinelli, buon
conoscitore a suo parere del «vizio
dell’intellettualismo formale e del politicismo diffuso nella
cultura di sinistra» (meno forse del proprio e altrui
trasformismo). Così lui supera di botto il
«complesso-Pasolini», di cui potrebbero restare
vittime i lettori che negli scritti del casarsese cercassero tuttora
elementi - non dico per una «palingenesi generale della
nostra società» che fa ridere troppo Belpoliti -
ma per una sua critica. Non sia mai che venga voglia di ricominciare
con la critica vera (sociale, politica, culturale) proprio in
un momento in cui a Pasolini «non solo la sinistra, ma anche
la destra non fa che manifestare questa devozione senza
riserve»! Proprio in un momento, cioè, in cui, in
ossequio a sollecitazioni autorevolissime, viene imposta una (ipocrita)
memoria condivisa da tutti, che sta diventando
uniforme
d’obbligo in Italia. Belpoliti, perciò,
s’affretta a strappare l’immaginetta del Pasolini
diventato «il Padre Pio della sinistra»
per proclamare la beatificazione “laica”
di un Pasolini omosessuale per tutti. (Pochi vecchi
coglieranno
l’analogia con la formula ancora in voga agli albori del
’68 del «Gramsci per
tutti», bersaglio sulla rivista Giovane critica
degli strali
di un bravo e dimenticato storico, Stefano Merli).
a
6.
Omosessuale e basta
Semplificare Pasolini, ridurlo alla sua omosessualità. Ecco
la via imboccata dai critici bel…politi! Pasolini,
tolto al suo sodalizio politico più che documentato con la
storia del PCI, deve essere pensato come omosessuale e basta. Manco
più uno scrittore omosessuale, ma di sinistra, del PCI o
vicinissimo a quel partito. Cancellati Marx, Gramsci, il PCI,
dev’essere cancellato pure il Pasolini politico o civile.
Deve restare “la natura”,
l’omosessualità. La (per me discutibile, ma
inaggirabile) visione politica di Pasolini deve diventare una mano di
vernice culturale sulla sua
omosessualità. Questa
lettura da bigino radical
avrà di questi
tempi il vento in poppa. E Belpoliti potrà sostenere
indisturbato che Pasolini fu sempre (durante
l’intera sua vita?) un perseguitato a causa della sua
omosessualità; e che solo o soprattutto per questa venne
messo ai margini «non solo dalla destra, dai giudici, dai
giornali benpensanti e reazionari, ma anche dalla sinistra».
Forse ricordarsi del Freud de Il disagio della
civiltà o del
Marcuse di Eros e civiltà renderebbe
più cauti,
riconoscendo almeno quel disagio ad omosessuali ed eterosessuali. Ma
lasciamo perdere. Che per Pasolini la «sua scandalosa
omosessualità, mai nascosta ma sempre
esibita»12 sia
«fonte e ragione della
sua ispirazione poetica» o «soprattutto
politica» è ipotesi che si può e si
deve discutere. A patto, però, che non si faccia
derivare tutta l’opera (o fosse pure la
contraddittorietà dell’opera) esclusivamente dalla
sua “fonte” omosessuale. Equivarrebbe a ripetere
l’errore di chi spiega il pessimismo di Leopardi con le sue
infermità o la famosa gobba. Ci fu davvero un filo diretto
tra vita e opera, tra esperienza omosessuale e
scelte culturali che Pasolini andò facendo nel
tempo? Ed è indispensabile, decisivo (per la
“fede” dei suoi fans o per dei
lettori seri?)
prendere «atto della sua omosessualità»?
Se la si mantenesse o mettesse tra parentesi o sullo sfondo (non
per volontà di rimuovere o sublimare,
semplicemente tenendo ferma la distinzione non infondata tra vita e
opera e la si considerasse “materia” comunque
sottoposta a una formalizzazione, anche quando
l’autore lo negasse) non si capirebbe niente
dell’opera di Pasolini o della sua personalità?
a
7.
Giovani anti-esteti e politicizzati (una volta)
Quando poi Belpoliti scrive: «Certo c’è
chi l’ha amato incondizionatamente anche a sinistra, in
particolare tra i giovani aderenti al Partito comunista, cui Pasolini
ha dedicato dopo il 1970 una forte attenzione e
un’incrollabile speranza; ma anche questi ammiratori con ogni
probabilità non hanno mai davvero preso atto della sua
omosessualità, l’hanno ideologicamente sublimata,
come accade sovente nell’entusiasmo dell’essere
giovani, cogliendone gli esiti politici polemici ma non certo le
premesse estetiche»13,
c’è da
trasecolare. Dunque, i giovani degli anni Settanta non potevano essere
attratti da quel che diceva o scriveva Pasolini e che andava anche
oltre il suo essere omosessuale? In
quell’«entusiasmo dell’essere
giovani», sfuggendo loro «le premesse
estetiche» (omosessuali) di Pasolini, non coglievano forse
altro e proprio sul piano politico? Il
pensiero che in
quegli anni la politica non fosse fogna con liquami mai prima
così abbondanti, che potesse essere vera e diffusa passione
e che questa si andasse strutturando in cultura attiva (e
non solo in “ideologia”) non
sfiorerà più la mente di Belpoliti, intento
com’è (non so da quando) a rovistare finalmente in
santa pace tra le «premesse estetiche» in
questo eterno presente languidamente estetizzato. Può darsi
allora che quel «paese mancato»14,
di cui ha
parlato lo storico Guido Crainz, non si sia realizzato per la stessa
«nemesi divina»15, che
avrebbe secondo
Belpoliti posto fine alla “persecuzione”
di Pasolini. Cosa dire? Speriamo che il prossimo saggio su Pasolini,
che dovesse essere concepito da qualcuno dei nuovi saggisti alla moda,
non pretenda di spiegare lo scrittore partendo dal suo segno zodiacale.
a
8.
Un consiglio di buona critica
Per sottrarsi alla tentazione di prendere troppo sul serio queste
indagini dei filo-anti-post-pasoliniani sulle inclinazioni sessuali di
Pasolini e sui moventi della sua uccisione, che restano indecifrati e
forse diventeranno, com’è avvenuto per le stragi
di piazza Fontana o di Brescia, indecifrabili, visto il
declino di una vita civile nazionale e lo smarrimento di un pensiero
politico che da Machiavelli aveva tratto un minimo di
dignità teorica, bisognerebbe cambiare aria, distanziarsi,
aggrapparsi a qualche buon libro. E allora mi permetto un consiglio:
leggete o rileggete Attraverso Pasolini di Franco
Fortini, saggio di
sicuro assente dalla libreria di Belpoliti16.
Avviso: trattasi
soltanto di una «buona rovina»
di
un’epoca conclusa. Se vi convinceste a maneggiarla,
disponetevi alla fatica di chi tenti un ritorno ai classici
(del
passato prossimo); e siate pazienti come quando
andate a far visita ai
nonni o a dei bisnonni. A scanso di equivoci e sapendo che la
proposta (a pochi in verità…) suonerà
strana, si sappia che Fortini, sulla base del suo carteggio
con Pasolini e dei saggi che gli dedicò, conduce
un’acuminata critica al personaggio e alla sua opera (specie
agli scritti “politici”). A leggerlo si colgono
subito le distanze di epoca, di metodo e di qualità rigorosa
della critica. Fortini attraversava in lungo e in
largo la complessa
biografia e visione della vita, della storia, della politica, della
religione di Pasolini, per salvare - questo il suo scopo - le
verità cristallizzatesi nella sua opera
(soprattutto nella poesia). Le voleva salvare («Proteggete le
nostre verità» fu uno dei suoi ultimi motti)
perché vedeva diventare l’opera di Pasolini
«uno dei supporti ideologici della reazione
politica»17. Perciò
invitava a disaggregarla, a
separare «la biografia dall’opera e
nell’opera l’autenticità dalle
recitazioni di sé», ad isolare, tra la
«congerie di enunciati e perorazioni», gli
«elementi radioattivi», gli unici che permettono di
«reinterpretare l’insieme». E
faceva critica a tutto campo. Voglio anche ricordare che il tema
dell’omosessualità non è
evitato. In Attraverso Pasolini non
c’è
traccia di omofobia. Va ricordato pure che Fortini si offrì
di testimoniare a uno dei primi processi subiti da Pasolini. E in una
lettera non spedita del 3 luglio 1959, pur ribadendo la distinzione tra
vita e letteratura, non negava a Pasolini «una vera
esperienza traumatica» o l’esistenza nella sua
giovinezza di un «trasparente dramma
familiare».
a
9.
Attraverso (non avverso a)
Pasolini18
Credo che Attraverso Pasolini - testimonianza
dichiaratamente
soggettiva sullo scrittore di Casarsa - sia importante quanto gli
scritti più noti e diffusi di altri suoi coetanei e
amici o studiosi (Zanzotto, Naldini, Siti); e che, in
confronto alla produzione apologetica o
“immedesimata” di pasoliniani e post-pasoliniani,
colga in modo problematico il meglio di Pasolini. A
chi,
dunque, ancora storcesse il naso
(“Vorresti che ci affidassimo proprio a un
moralista come Fortini, che di Pasolini fu nemico e
detrattore!”), replicherei: vedete che Fortini ha
posto problemi fondamentali sia direttamente a Pasolini vivo,
che glielo riconobbe19, sia dopo la sua morte.
Leggere, dunque,
Pasolini anche attraverso i suoi occhiali
“razionali” o “moralistici” non
è tempo perso; e aiuta a non lasciarsi ipnotizzare dalla
leggenda del Pasolini “mostro sacro” o
dalle mode. Lungi dal ridurci a tifosi dell’uno o
dell’altro, troveremmo la spinta per interrogare la
sua «disperata vitalità» con pietas
e
rispetto, senza subirne il «ricatto» o esserne
“complici” o riproporla come un feticcio o fingere
di liberarsene cucinandola in una delle tante salse
da supermarket culturale odierno. Si tenga conto, infine, che
le critiche fortiniane,
comunque da soppesare una per una, non hanno mai comportato
una svalutazione della figura umana e tragica dello scrittore
di Casarsa né della sua grandezza poetica.
a
a
10.
L’insieme storico non il dettaglio biografico feticizzato
In Attraverso Pasolini ritroviamo tutta la
complessità di un
rapporto tra due scrittori amici-nemici, cresciuti e scontratisi sulle
problematiche della sinistra comunista italiana dal dopoguerra agli
anni Settanta. Di quel rapporto sono toccati tutti gli aspetti:
poetici, politici, intellettuali, biografici, caratteriali. E sempre in
stretta relazione con le vicende storiche e politiche di un tempo
particolarmente duro e di grande trasformazione per
l’Italia. Le riflessioni su tale rapporto, che
Fortini dice «non di ostilità, ma di
inconciliabilità», sulla poesia di Pasolini, che
egli trova così “ossimorica”, sulle
polemiche politiche in occasione di eventi cruciali (il 1956, il
’68), sulle speranze man mano deluse di una trasformazione in
senso socialista, sull’ergersi di Pasolini sempre
più a «forza del
passato» contro quella che egli chiamò
«mutazione antropologica» e che Fortini
lesse come fine di una secolare «Grande Causa»
danno uno spaccato vivo di come i due vivevano certi problemi
di storia, psicologia, morale, politica, estetica e religione. La vita
e l’opera di Pasolini - dice Fortini - non sarebbero
comprensibili senza collegare «le stagioni della sua
attività» con gli eventi pubblici e politici
(guerra fascista 1940-1943; scomparsa dell’ipotesi socialista
1945-‘48; la guerra fredda e il 1956; il
‘68-‘69 e la «latente guerra
civile» fra 1969 e ‘74). Quella fu
un’epoca in cui ancora pareva possibile «la
fondazione di una società pluralista e
democratica», in cui era ancora vivo «un enorme
cumulo di simboli, connessi con l’idea di comunismo e di
rivoluzione» e il «lascito della guerra
antifascista» non era ancora esaurito. Oggi nulla
più di tutto ciò. La pasoliniana
«forza del passato» s’è
dimostrata debolezza, ricerca evasiva di nuovi miti. Più
egli sentì esaurita l’ipotesi comunista,
più si attaccò al suo passato contadino, al
corpo, al mito (Grecia arcaica, Africa) e vide come fascismo
l’omologazione e il consumismo che avevano distrutto il suo
“piccolo mondo antico” assieme alle lucciole. Ma il
trapasso dal neocapitalismo anni Sessanta al capitalismo globalizzato
ha distrutto anche l’ipotesi “operaista”,
alla quale Fortini, sulla scia di Panzieri, legò le sue
speranze. Pasolini visse forse le contraddizioni della storia
“da adolescente”, Fortini “da
adulto”, ma la storia ha travolto entrambi.
Fortini, pur rivendicando orgogliosamente quella partecipazione
(«non eravamo né pazzi né
fanatici», ha espresso lapidariamente il suo bilancio:
«Aveva torto e non avevo ragione»20.
E, secondo me,
ha anche segnalato tutta la tragicità, attualità
e irrisolta tensione di quella storia con estrema lucidità
politica in questo passo:
il tratto di vita nazionale che ha coinciso con la vita di chi scrive e con quella di Pasolini è stato asservito oltre ogni immaginazione, prima e oltre il conflitto delle cosiddette superpotenze, alla volontà politica e militare degli Stati Uniti. I partiti di opposizione, d’accordo con quelli di governo, col ceto imprenditoriale e con i meccanismi dell’informazione hanno convenuto nel mantenere il silenzio sul grado di quella subordinazione»21
Nessuna conciliazione, manco parziale, tra natura e cultura,
s’è fatta strada. Ma possiamo appoggiare la
barbarie crescente, intendendo la «mutazione
antropologica» pasoliniana o la fine della
«Grande Causa» fortiniana come “fine
della storia” e ritorno alla “natura”?
Non lo penso. Continuiamo il nostro lavoro e insistiamo a confrontare
Fortini e Pasolini22 e ad interrogare
la storia del secondo
Novecento coi suoi lampi che parevano di rivoluzione ed erano invece
avvisaglie di restaurazione. La conclusione di quell’epoca
forse chiarisce meglio la posta che fu in gioco nel
biennio cruciale del ’68- ’69, quando Pasolini e
Fortini rappresentarono nella dimensione politica le figure del
“cattocomunista” e
dell’”extraparlamentare”. Fortini
è severissimo verso il Pasolini politico, fino a sostenere
paradossalmente che solo «la poesia di Pasolini è
politica nel miglior senso della parola». Troppo populismo
ottocentesco. Troppa diffidenza verso le esperienze minoritarie ma
innovative (per lui quelle dei Quaderni Piacentini
e dei
torinesi Quaderni rossi) o ignoranza dei testi
della Scuola di
Francoforte, che - sempre per Fortini - avevano predisposto
«gli strumenti concettuali con i quali interpretare
l’avvento del neocapitalismo». Pasolini non fa che
accusare l’antagonista di «una certa
astrazione moralistica e mistica». Il loro contrasto su
questi ed altri punti va ricontrollato, ma non può
essere abolito. Pasolini fu davvero utile al conservatorismo del PCI
«quando prese posizione contro gli studenti del
Sessantotto» o agevolò con la sua opera23
quel
«dialogo» tra gruppi dirigenti di partito e
gerarchie ecclesiastiche che sfocerà nel
fallimentare «compromesso storico». Eppure,
come Fortini ammette, «nei suoi ultimi scritti (e
in Salò) ha visto con occhi asciutti e
lucidi quel che
sarebbe venuto: «l’asservimento del comunismo al
modo di produzione del moderno capitalismo».Ed aver
«testimoniato lo scandalo […] gli vale la nostra
riconoscenza». Ma lo stesso può dirsi
per l’opera svolta in altri modi da Fortini.
a
11.
Poeta di una scissione
Quali dunque le ceneri di Pasolini da onorare oggi?
Non quelle del
maudit, dell’intellettuale organico al
PCI, ma
quelle - e qui resto ancora d’accordo con Fortini - del poeta
scisso tra passato e presente, tra mondo contadino e industriale; del
poeta che «ci ha dato, e splendidamente, la figura di un
intellettuale piccolo borghese del dopoguerra alle prese con i
temi ideologici e morali del socialismo italiano».
L’immagine fortiniana di un Pasolini testimone della tragedia
storica dell’Italia del secondo Novecento è ben
diversa da quella del Pasolini maudit,
reietto, eversore,
perseguitato per la sua omosessualità, tante volte
riproposta dai mass media e ripresa ora da Belpoliti. Per Fortini, come
per Belpoliti, Pasolini vive e testimonia la contraddizione. Ma Fortini
non contrabbanda gli aut aut con gli et
et, non concilia l’inconciliabile come fa
Belpoliti. Per lui la contraddizione di Pasolini non è
aggirabile: resta sia «nell’opera», dove
egli è «spartito tra esasperazione formale e
immediatezza tematica» e sia «nella
biografia», dove si è dibattuto «fra
narcisismo radicale e autentica passione per il passato e
l’avvenire storico-sociale». E se
«l’opera ‘sta in piedi’ dove le
due componenti si esasperano al massimo», Fortini
non dimentica mai che «la biografia corre al suicidio per
mancanza di individuazione, di fissazione dell’eros in forme
adulte ossia d’amore». Non esita perciò,
invece di accodarsi ai rituali apologetici, a presentare Pasolini come
un egocentrico, sadomasochista, decadente, poco dialogante e in fondo
nichilista («non credeva veramente né in Dio
né nella storia»24). Ne
salva però
con convinzione la poesia. E non è poco25.
30 aprile 2011
note 1.
Scrive: «Lui guarda in faccia il mondo, lui vive quello di
cui altri si limitano a parlare […] Contro gli altri,
“che non vivono queste cose”, Pasolini getta sul
terreno, coi pensieri, il proprio corpo - ed è infine il suo
corpo martoriato che resta sul terreno”». Vede una
spinta verso un massimo di oltranza nel brogliaccio di
Petrolio, dove «si misura, con una stupefazione turbata,
quanto fosse ancora distante il Pasolini notturno da quello dei giorni
e dei giornali» e sottolinea il divario fra gli scritti
pubblici e Petrolio, una «summa definitiva» della
sua opera di scrittore multiforme. 2.
Riporto uno stralcio dell’intervista: 3.
«In quegli anni non c’erano termini che
designassero omosessualità o pedofilia. Oggi sono
espressioni politicamente corrette. Allora non esisteva il nome e
dunque non esisteva neppure la cosa. Assenza di pregiudizi. Non
c’erano i film hard, le edicole non traboccavano di riviste
porno. I giovani cercavano sfoghi sbrigativi e senza impegno. Al
massimo ci scappava una pizza e un pacchetto di sigarette». 4.
Afferma: «L’intreccio (talvolta la confusione) fra
letteratura e vita è una costante della
letteratura (e dell’arte)
otto-novecentesca»; e cita Wilde e
D’Annunzio, individuando in Pasolini
«l’ultimo grande personaggio» di quella
tendenza. E sottolinea: «lui non è stato soltanto
la sua opera: lui è stato la sua vita, il suo personaggio e
il suo corpo, gettati di traverso al putrido declinare
dell’ipocrisia storica italiana come provocazioni evocate
dall’inferno, dal suo inferno. Insomma,
c’è l’opera Pasolini; e
c’è la leggenda Pasolini, e questa presso la
maggioranza prevale sull’altra». 5.
«Quando si pensa a lui, si pensa al Sentiero dei
nidi di
ragno, a Una pietra sopra, alle Città
invisibili, a Se una
notte d’inverno un viaggiatore, alle Lezioni
americane. Per
precipitare anche lui nel solco pubblicitario giornalistico della
“letteratura come vita” o della “vita
come letteratura”, bisogna infatti disseppellirne (come si
è visto recentemente) i documenti amorosi e farne oggetto di
scandalo. Ma che importanza hanno questi documenti amorosi per la sua
opera? Il suo messaggio, penso, è non meno forte
dell’altro [di Pasolini] ma per coglierlo bisogna leggerne
gli scritti». 6.
Marco Belpoliti, Pasolini in salsa piccante,
Guanda, Parma 2010. Ho
letto l’introduzione sul sito di Nazione Indiana
(
http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/).
7.
http://www.wuz.it/intervista-libro/5241/marco-belpoliti-pasolini-salsa-piccante.html
Il riferimento agli «scandali di questi
giorni» è ovviamente alle vicende di
Berlusconi e del suo entourage. 8.
Sulla quale non mi soffermo, rimandando ai numerosi esempi di riletture
squalificanti della Resistenza o del Risorgimento esaminati ne La
storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura
di Angelo
Del Boca, Neri Pozza, Vicenza 2010 . 9.
Un botta e risposta tra Belpoliti e Carla Benedetti si legge sul sito
di «Nazione Indiana» rispettivamente a questi
indirizzi: http://www.nazioneindiana.com/2010/04/01/il-corpo-insepolto-di-pasolini/; 10.
http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/ 11.
«Nessuna novità, in questo, si tratta sempre della
prima comunione, di comunicarsi e mangiare il corpo di
Cristo….»: si legge in un commento al post su
NAZIONE INDIANA (http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/) 12.
Non è bacchettonismo ricordare che altri omosessuali
- scrittori o meno - hanno vissuto e vivono in modi meno
scandalosi e laceranti la propria natura e chiedersi perché
Pasolini cercasse di dare tanto “scandalo”.
Emergerebbero fattori storici di vario tipo (economici, sociali,
culturali) - ad es. il passaggio da Casarsa a Roma,
dall’iniziale esperienza di borgataro a quello di star della
letteratura e poi dei media – non così
meccanicamente riconducibili
all’omosessualità. 13.
http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/ 14.
G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico
agli
anni ottanta, Donzelli, Roma 2003. 15.
«Il mondo intellettuale, la società letteraria e
quella giornalistica, e perfino la politica, sia di destra sia di
sinistra hanno vissuto la morte di Pasolini alla stregua di
un’accusa, come un ricatto cui era impossibile sottrarsi.
Come in una nemesi divina, l’ammirazione verso il poeta ha
finito per nascondere una sorta di rancore, di risentimento, prodotto
dalla sua «diversità», e tramutato nel
suo opposto» (http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/) 15.
Gliel’ho consigliato, credo invano, in un commento sempre al
post citato: 17.
F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi,
Torino 1993, p.211. Tutte le
citazioni che farò da qui in poi vengono da questo libro. 18.
Spiega Fortini nell’introduzione:«Il titolo non
vorrebbe solo alludere a un percorso difficile dentro o lungo
l’opera e il fantasma biografico» di Pasolini. Egli
da al verbo ‘attraversare’ «anche un
altro e non secondario significato: quello di reciproco intoppo,
contraddizione, ostacolo. Non ‘avverso’ ma
‘di traverso’ (Ivi, p. XIV). 19.
In una lettera del 1964 scriveva a Fortini:« io
tengo sempre presente nel mio fare questa tua intelligenza»,
(ivi p. 123) 20.
Ivi, p. VII. 21.
Ivi p. XIII. 22.
Ricordo che in passato non mancarono tentativi di muoversi in tale
direzione, ad es. La lotta mentale di
Romano Luperini
(Editori Riuniti, Roma 1986), contenente un saggio intitolato
L’«eredità» di
Pasolini e
quella di Fortini. Ma il confronto andrebbe fatto anche con
Calvino,
Volponi, Sanguineti, Majorino e tanti altri… 23.
In particolare col film Il Vangelo secondo Matteo
del 1964 dedicato a
Giovanni XXIII, che Fortini giudicò «guazzabuglio
di populismo e Rousseau» (F. Fortini, Attraverso
Pasolini, cit.,
p. 204). 24.
Ivi p. 179. 25.
Perché la contraddizione in Pasolini «non lede
affatto la sua poesia, anzi la fonda. Lede invece la sua letteratura
… che soffre di estetizzazione tanto della sfera del
religioso quanto di quella del politico. Come molti della sua
età egli si dibatteva in una falsa religione e in una falsa
politica. Ne usciva solo entro i limiti… della
verità poetica» (Ivi, p. 180).
Lei accennava a una certa assenza di pregiudizi negli anni
cinquanta
Però Pasolini fu cacciato dal Pci per immoralità..
«Fu un fatto di puritanesimo piccolo borghese. Neppure nella
Dc, dove c’erano politici che non facevano mistero delle loro
avventure notturne, sarebbe potuto accadere».
.Vuole dire che era un partito più tollerante?
«Una tolleranza da parrocchia veneta, che accettava i gusti
di un campanaro o di un sagrestano.
Comunque negli anni cinquanta un moralismo piccolo borghese veniva
fuori, come ostentazione nel proletariato, con quei giovanotti che si
incontravano nei cinema, sui bastioni, nei cessi delle stazioni, ai
giardinetti, cioè in tutti i luoghi dove si poteva consumare
sul posto».
E nelle classi alte?
«Non c’era nessun moralismo. Froci tantissimi.
Magari alcuni di loro erano oggetto di discussione ideologica nei
partiti, o di pettegolezzo sui giornali piccolo borghesi di sinistra o
di destra. Ma certo non si faceva alcun mistero nel raccontare
avventure e prodezze. Come del resto facevano Comisso e
Palazzeschi che con rimpianto dicevano: “ahhh, non sa
cos’è la douceur du vivre chi non ha conosciuto i
moschettieri del duce, quei gerarchi maschioni che venivano chiamati
Ferruccio di giorno e Maria di notte. Ma questo era il vero gossip. Che
certi vecchi famosi ornavano con la domanda essenziale: “ma
quello lì è un danculo o un
prenculo?”».
Ha una immagine lievemente idilliaca
dell’omosessualità.
«È stato un periodo relativamente breve. In
seguito il paesaggio sociale si modificherà. E questo
avrà il suo peso su Pasolini».
In che senso?
«I ragazzini non sono più poveri, nascono vere e
proprie categorie professionali. Per giunta si approfondisce il divario
fra un cinquantenne come Pasolini e un quindicenne».
http://www.nazioneindiana.com/2010/04/08/sullomicidio-di-pasolini-replica-a-marco-belpoliti/
http://www.nazioneindiana.com/2010/11/15/pasolini-in-salsa-piccante/
[20
giugno 2011]