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Per
un nuovo titolo: L’amore che non osaVA dire il suo nome.
Riflessioni su
“L’amore che non osa dire il suo nome” di
Flaminia Nucci
Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2011, € 15,00
Daniele Visentini
Considerando
la lotta per il diritto all’orientamento
sessuale come necessario ampliamento alla lotta per il diritto alla
sessualità, va detto che gli omosessuali italiani
– donne e uomini – non hanno ancora vissuto la fase
di liberazione “negativa”, decostruttiva in senso
ampio che ha caratterizzato le prime fasi del femminismo, quel
movimento che si propose di “sputare su Hegel”,
serioso e aggressivo sino a un auto-abbrutimento delle attiviste ma
che, tuttavia, seppe agire sulla coscienza collettiva tramite una
battaglia esperita al vivo del contesto civile e politico italiano.
Dolorosamente, in parte mettendo a repentaglio la sua stessa
credibilità, il femminismo ha rappresentato una cesura del
comune sentire patriarcale connaturato alla società italiana
ancora alle soglie degli anni Settanta; è stato in tutti i
sensi critico, ergo rivoluzionariamente dialettico. E in un paese in
cui il disegno per le quote rosa, come si sa, può fallire
tanto miseramente, quel movimento ha senso ancora oggi.
La lotta per i diritti degli omosessuali, invece,
sembrerebbe spesso frutto di una retrocessione filosofica
dall’ambito della dialettica a quello, illusoriamente
positivo e concluso, della retorica. Lo stesso termine
“lotta” (qui da intendere nella sua accezione
puramente politica) retrocede, sostituito da un vocabolo che dovrebbe
scaturire dalla lotta solo come conseguenza: orgoglio, il Gay Pride.
L’orgoglio, va da sé, comporta una celebrazione,
non certo cortei di protesta; e il Gay Pride, coerentemente,
è un evento celebrativo. In Italia, purtroppo, è
celebrazione del nulla, con inevitabile exploit macchiettistico; una
variante espansa delle beffarde «nozze maschie»
plautine, nella finzione di un licet che
è puramente
scenico: e gli arcobaleni sulle bandiere si trasformano,
automaticamente, in una quarta parete.
È bene ripeterlo: ciò vale
per l’Italia. Non certo per gli U.S.A., dove Stuart Milk
(recentemente invitato a partecipare alle “Giornate di cinema
e cultura omosessuale” organizzate dal CUC di Padova)
può permettersi di correggere quel
«tollerance» inserito dall’amica Nancy
Pelosi nella bozza di un discorso che la speaker avrebbe pronunciato,
di lì a breve, per inaugurare un edificio dedicato alla
memoria del Milk zio, Harvey, con la più positiva endiadi
«joy and celebration». Nello Stato italiano,
cristianamente democratico, votato a una pietas che non è
affatto il portato di un coscienzioso rispetto del passato funzionale
all’auspicio di miglioramenti futuri, ma mero frutto di ozio
e ignavia, la situazione è ben diversa; il nostro Stato, tra
i suoi rappresentanti politici, vanta pochissimi, inascoltati
sostenitori dei diritti omosessuali.
Insomma, la solita Italia che non ha ancora
marciato, e già balla.
Ci si scusa per questo lungo preambolo, apparentemente slegato dalla
recensione che qui si vorrebbe proporre. In realtà, tale
premessa serve soltanto a integrare il recente libro di Flaminia Nucci,
L’amore che non osa dire il suo nome
(Roma, Edizioni
Scientifiche Ma.Gi., 2011, € 15,00), con ciò di cui
esso pare privo: una fattiva, propositiva verve critica che porti a
inquadrare il fenomeno in senso non solo strettamente individuale, ma
anche collettivo.
Leggendo il saggio a ritroso, è utile
soffermarsi subito sulle Conclusioni, assai chiare,
per palesare
immediatamente lo spirito e gli intenti che informano
l’opera. Qui, con schietta affabilità, la Nucci
– psicoanalista e Presidente dell’associazione Il
filo di Arianna – non limita la problematica omosessuale a un
contesto di matrice gametica, ma parla invece di una «nuova
frontiera dell’amore» a venire;
l’analista, ispirata dal pensiero di Jung, estrapola dalla
sfera sessuale il simbolo di una condizione dell’anima e
riconduce poi l’aspetto soggettivo del fenomeno a una
condizione più elevata, da considerarsi
nell’ambito della collettività. In ragione di
ciò, la convinzione che «gli omosessuali abbiano e
debbano avere, all’interno della comunità in cui
vivono, il ruolo di innovatori e di pionieri» è
supportata da concetti che non si fa fatica a individuare come pure
astrazioni, alquanto opinabili: «la capacità di
vivere e pensare su più livelli» (retaggio
dell’ermafroditismo junghiano, appunto), e ancora
«il senso dell’umorismo e l’ironia, la
vitalità e lo spirito giovanile, l’apertura e
l’indipendenza» che secondo la Nucci
contraddistinguono gli omosessuali, «consentono loro di
essere portatori, in società, di nuovi modi
d’intendere l’amicizia, l’amore, le
relazioni, la sessualità e la famiglia». In queste
righe, la traduzione dall’inglese del termine
“gay” nel suo significato primigenio è
d’esattezza quasi millimetrica: in effetti, riportando dal
dizionario, al lemma “gay” corrisponde la
definizione originaria «happily excited, merry», o
ancor meglio «keenly alive and
exuberant: having or inducing high spirits».
Lecitamente verrebbe dunque da pensare che la Nucci si sia impegnata in
uno studio sull’omosessualità di natura
etimologica. E non servirebbe neppure specificare, con una citazione
voltairiana utilizzata dallo stesso Jung, che «en
étymologie n’importe quoi peut désigner
n’importe quoi».
Detto ciò, bisogna però continuare questo
percorso di lettura, chiedendoci in che modo la scrittrice imposti il
suo esame del mondo gay.
I primi due capitoli fondano i prodromi della
trattazione, vagliando il I le varie ipotesi circa
l’eziologia dell’omosessualità, il II le
principali proposte della psicanalisi per inquadrare questo fenomeno.
Ed ecco, sempre la solita domanda torna a suggerire teorici enigmi che
distolgono da un approccio pragmatico a ciò che non pretende
risoluzioni, in quanto non è un
‘problema’. Insomma, omosessuali si nasce o si
diventa? Omosessuali – si riafferma qui ciò che
s’è già detto altrove – si
è.
Quest’affermazione, finalmente positiva,
sarebbe forse sufficiente a neutralizzare l’approccio
dell’analista all’omosessualità,
approccio che investe non tanto lo statuto sociale del gay
nell’età contemporanea e in un paese come
l’Italia (e questo, sì, sembra un vero problema),
quanto i meccanismi psichici sottostanti alla costituzione
dell’individualità.
Nel sottolineare ciò, si vuole
soprattutto rigettare la possibilità di un approccio
psicoanalitico di natura autoreferenziale
all’omosessualità. Superando la visione
intrapsichica derivata dalle teorie di Jung, parrebbe fruttuosa una
concezione interpsichica del meccanismo di costruzione
dell’identità individuale che, attualizzando
alcuni insegnamenti di Vygotskij, garantisca un approfondimento del
rapporto con l’altro e permetta, così, di
contestualizzare sempre e comunque l’individuo, senza
isolarlo: il rapporto tra madre (famiglia) e figlio, così
come quello tra società e individuo (Stato-cittadino) vanno
investigati partendo dal termine particolare col fine di comprendere ed
eventualmente risolvere la problematicità contestuale, e
quindi tornare solo in terzo luogo al soggetto. La garanzia di
un’espressione identitaria finalmente piena, in poche parole,
non prescinde dai contesti socio-politici e storico-culturali di
riferimento, sui quali bisogna agire in maniera certamente
più decisa trattando, ad esempio, non di una vaga
identità omosessuale che si esaurisce nel soggetto, ma
piuttosto di omosessualità in chiave culturale.
Comunque la stessa Nucci, dopo i primi due
capitoli, ne propone un III in cui si occupa delle attuali posizioni di
Stato e Chiesa, ossia del contesto storico, politico e religioso in cui
vivono al momento gli omosessuali italiani. Dopo una disamina
diacronica del contesto legislativo nazionale, la conclusione del
discorso giunge secca, efficace nella sua amara ironia:
In Europa, tutti i paesi assimilabili, per sviluppo sociale, culturale ed economico, all’Italia, hanno fatto proprio il divieto di discriminazione degli omosessuali, promosso dall’Unione Europea. […] I paesi europei (non tutti appartenenti all’UE) che non sono ancora stati in grado di disciplinare in alcun modo le unioni omosessuali sono l’Albania, la Bielorussia, la Bosnia Erzegovina, la Bulgaria, Cipro, l’Estonia, la Grecia, la Lettonia, la Lituania, Malta, la Moldavia, il Montenegro, il Principato di Monaco, la Repubblica di Macedonia, la Romania, la Russia, San Marino, la Serbia, la Slovacchia, la Turchia e l’Ucraina. E naturalmente l In Europa, tutti i paesi assimilabili, per sviluppo sociale, culturale ed economico, all’Italia, hanno fatto proprio il divieto di discriminazione degli omosessuali, promosso dall’Unione Europea. […] I paesi europei (non tutti appartenenti all’UE) che non sono ancora stati in grado di disciplinare in alcun modo le unioni omosessuali sono l’Albania, la Bielorussia, la Bosnia Erzegovina, la Bulgaria, Cipro, l’Estonia, la Grecia, la Lettonia, la Lituania, Malta, la Moldavia, il Montenegro, il Principato di Monaco, la Repubblica di Macedonia, la Romania, la Russia, San Marino, la Serbia, la Slovacchia, la Turchia e l’Ucraina. E naturalmente l’Italia.
Questo capitolo III (probabilmente il
più interessante del
libro) ha però il difetto che si segnalava
all’inizio della recensione: è, cioè,
scarsamente propositivo. Sebbene la scrittrice manifesti la
necessità per l’Italia d’adeguarsi
quantomeno agli standard europei in fatto di tutela degli omosessuali,
l’impianto della trattazione rimane descrittivo
dall’inizio alla fine.
Tale parentesi, fra l’altro,
è quanto mai breve. A seguito si profila la ben
più cospicua parte centrale del libro: tre capitoli in cui
si prende atto di quella che Flaminia Nucci definisce, come si
accennava poco su, «identità
omosessuale». Essa viene vagliata sempre attraverso Jung,
partendo cioè dal concetto del
‘Sé’; si riportano, perciò,
stralci di colloqui intrattenuti dall’analista con uomini e
donne omosessuali, o dall’orientamento sessuale non al tutto
definito, i cui sogni vengono interpretati simbolicamente. Nei capitoli
V e VI, quindi, si indaga rispettivamente sui luoghi psicologici
dell’omosessualità maschile e femminile,
riproponendo alcuni assunti elaborati da Schellenbaum (Tra
Uomini,
1991) il quale, ribaltando le teorie freudiane, ipotizzò che
l’omosessualità maschile consistesse nel tentativo
di prendere le distanze dalla madre cercando un vincolo stretto con le
figure virili più vicine al soggetto. Alla fine del capitolo
su «L’identità omosessuale»,
la Nucci ribadisce laconicamente lo scopo della sua analisi, il quale
consiste nel dimostrare che «non è mai
l’orientamento sessuale ad essere la causa delle patologie,
né in un senso né nell’altro, ma
può esserlo il modo in cui si accetta e si vive la
sessualità».
Anche in questo caso, dunque, Flaminia Nucci parte
dall’individuo per ritornare, dopo una lunga parafrasi della
vita psicologica dell’individuo, di nuovo
all’individuo, quasi che il significato
dell’omosessualità si risolva tutto a livello
simbolico e non abbia, al contrario, ampie ripercussioni pragmatiche
sull’assetto culturale e politico dello Stato (e il
riferimento, ovviamente, va in primo luogo all’Italia). In
una prospettiva simile, il coming-out (la cui
importanza per arginare
le discriminazioni omofobe e permettere agli omosessuali di prendere
apertamente parte ai processi di cambiamento all’interno
della società civile è innegabile) viene
subordinato all’«accettazione interiore»
che, spiega l’autrice del libro, col coming-out
«non corrisponde ancora, se mai vi
corrisponderà».
Ora, essendo la stessa Flaminia Nucci ad ammettere
che la differenza tra etero e omosessuali sta nel fatto che per i primi
«la consapevolezza interiore va di pari passo con il
riconoscimento sociale», mentre questo per i secondi non
succede, davvero non si comprende come si possa puntare a
un’analisi strettamente simbolica, interessata per
l’appunto a indagare l’omosessualità da
una prospettiva interna, junghianamente
“spirituale”, invece che investire su uno studio
socio-culturale e politico più complesso e ampio. E infine
affermativo, non interrogativo.
Chiudono il libro tre capitoli meno generici,
dedicati ad altrettanti aspetti peculiari della tematica omosessuale:
la clandestinità, l’omofobia, la relazione con
l’altro nelle coppie gay.
Tra questi il capitolo VIII
sull’omofobia, fenomeno che implica un riscontro sociale
evidente, spicca per interessante sugli altri. Gli argomenti trattati
all’interno di questo passaggio sono molteplici: omofobia
negli eterosessuali; omofobia negli omosessuali; negazione
dell’omosessualità; atteggiamenti persecutori e
paranoici; vergogna, insicurezza e deficit di aggressività
nei gay. Malgrado sia presente nella Nucci la volontà di
scoraggiare l’omofobia tout court (ma, d’altro
canto, anche un conservatore dello stampo di Francis Maude aveva capito
che disapprovare l’omosessualità è
sciocco come disapprovare la pioggia), in nessun punto del capitolo si
accenna all’omofobia pienamente espressa e alla sua
perentoria natura criminale, quell’omofobia che, come
Borrillo lucidamente sintetizza, «non rappresenta soltanto
una forma di violenza contro gli omosessuali, ma anche
un’aggressione contro i valori che fondano la
democrazia» (cfr. Omofobia. Storia e critica di un
pregiudizio, Bari, edizioni Dedalo, 2009, p. 107). Anche se
nel
capitolo III si denunciava la mancanza di una normativa che annoverasse
tra le diverse tipologie di discriminazione anche quella sessuale,
trattando specificamente di questo argomento Flaminia Nucci si sofferma
principalmente, se non esclusivamente, a descrivere
l’omofobia come un fenomeno psicologico
«interiorizzato».
E si ritorna, così, alle Conclusioni da
cui si era partiti:
l’omosessuale è sempre uno, un individuo simbolico
che vale per tutti, ma allo stesso tempo non fa gruppo:
«condividere lo stesso orientamento sessuale»,
dà per scontato infatti l’analista, «non
significa certo essere reciprocamente affini»; questo in
quanto, per inverso, «nessun eterosessuale considererebbe mai
l’eterosessualità una condizione sufficiente per
garantire l’affinità!». Fermo restando
che nel mondo occidentale cristiano – ma ancora di
più in quello arabo –
l’affinità tra individui è stata ed
è a tutt’oggi misurata in molti casi proprio sulla
base dell’eterosessualità, il paragone proposto
dalla Nucci è comunque fuorviante: come si può
mettere sullo stesso piano chi gode, per ragioni intese dai
più come ‘naturali’, di spontanei
vantaggi sociali, civili, culturali con chi, per gli stessi motivi e
con la stessa irrazionale spontaneità, si è visto
soltanto penalizzare e deporre nell’ombra?
Va qui affermato con forza proprio
l’esatto contrario di ciò che la Nucci suppone
tanto ovvio, specificando ciò che si diceva in incipit alla
recensione: oggi si può, anzi si deve parlare di cultura
omosessuale1. Una cultura per nulla stereotipa
di cui vanno
rintracciate le caratteristiche, i più specifici aspetti
denotativi al fine non di realizzare una scissione col resto della
congerie sociale, o di creare tutele speciali che vadano al di
là d’ordinarie leggi contro le discriminazioni, ma
di diffondere un’adeguata, puntuale, pragmatica conoscenza
del mondo gay anche nel nostro paese2.
Non più l’uomo-girasole che
appare sulla copertina del libro, senza volto nella sua istintiva
solarità, descrivibile solo a partire da una prospettiva
interna e, per giunta, come un eterno bambino in cui spiccano
«il senso dell’umorismo e l’ironia, la
vitalità e lo spirito giovanile, l’apertura e
l’indipendenza»: l’omosessuale, figura
umana complessa, deve essere conosciuto, più che
riconosciuto, anche in Italia, e nel contempo potersi sentire cittadino
tra cittadini. Perché il verbo “osare”
– dall’explicit di Two loves di
Alfred Douglas, che
dà il titolo al libro della Nucci – possa di qui a
breve essere coniugato all’imperfetto, gli omosessuali
dovrebbero poter partecipare attivamente alla costituzione del corpo
sociale, finalmente con delle sicurezze legislative alle spalle. Essi,
pertanto, devono essere inseriti nella storia, ricondotti
cioè fuori da qualsivoglia banalizzazione, come fuori dalla
gabbia elastica degli psicologismi fine a se stessi.
note:
1. Il
termine “cultura” va qui
inteso in un senso che si potrebbe definire euristico. La sua accezione
semantica orizzontale (nonché potenzialmente diacronica,
come tra gli altri ha puntualizzato Jean Louis Flandrin in Il
sesso e
l’Occidente, Milano, Mondadori, 1983) serve
soprattutto a
correggere l’abuso del termine
“identità”. Riprendendo le parole di
Daniel Borrillo, infatti, si deve affermare che «la
“personalità omosessuale” non esiste.
Questa idea, elaborata da un’ideologia normativa di tipo
medico-igienista, è completamente inefficace per la
salvaguardia delle persone; tra l’altro perché non
ha mai avuto un’intenzione protettrice ma piuttosto
repressiva» (cfr. Daniel Borrillo, Omofobia. Storia
e critica
di un pregiudizio, cit., p. 121). Tenuto conto di
ciò, il
termine “cultura” (si badi, non
“identità culturale”, ma
“cultura”), inquadrando sovrastrutturalmente il
fenomeno, ha il vantaggio di riconoscere il totale inserimento degli
omosessuali nella struttura economica, politica, sociale dello Stato;
nel contempo, promuove però un approfondimento
multidisciplinare dell’omosessualità – e
specularmente dell’omofobia – esperibile al di
là d’ingannevoli eziologie. Come spiega
Dall’Orto, poi, «il concetto di “cultura
omosessuale” può avere un’ulteriore
virtù taumaturgica: costringere a mettere una volta per
tutte le carte in tavola a proposito di quel che si intende con la
parola “omosessualità”, togliere spazio
al “sia sa”, al “si dice” o
all’ipse dixit, per obbligare a un approccio finalmente
documentato della realtà di vita omosessuale»
(cfr. G. Dall’Orto, Può esistere una
“cultura omosessuale”?, in Quando
le nostre labbra
si parlano – Omosessualità e cultura , a
cura di G.
Delfino, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1986, pp. 47-56;
l’articolo è riportato integralmente
all’indirizzo
www.giovannidallorto.com/cultura/genova/genova.html).
Riassumendo: lungi dall’asserire una
“specificità gay”, il termine
“cultura” che qui si è scelto di usare
non ha altro fine che quello d’incentivare una conoscenza
dinamica, anti-normativa e allo stesso tempo propositiva
dell’omosessualità. D’altronde si
potrebbe anche sperare che proprio attraverso il concetto di
orientamento sessuale, apparentemente tanto sfuggente, si riesca a
restituire al termine “cultura” (dopo la mareggiata
postmoderna dei particolarismi culturali) un senso tutt’altro
che finalistico, ma anzi propedeutico alla conoscenza tout court
dell’ “altro” che alberga dentro ognuno
di noi.
2.
Va però ricordato che alcuni
fondamentali contributi vennero forniti dai membri del Fronte Unitario
Omosessuale Rivoluzionario Italiano (F.U.O.R.I.); tra questi, si
ricordino in primis Mario Mieli e Angelo Pezzana,
che fu tra i primi in
ordine di tempo a parlare di cultura omosessuale nel nostro paese. Per
approfondire l’argomento, si rimanda qui ai lavori del
già menzionato Giovanni Dall’Orto (vd. La
pagina
strappata. Interviste su omosessualità e cultura,
Torino,
Edizioni Gruppo Abele, 1985) il cui sito internet
(www.giovannidallorto.com)
tenta tra l’altro un approccio
esplicitamente culturale l’omosessualità; a
Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci –
Letteratura, omosessualità, mondo, Milano, Feltrinelli,
2004. Si veda, infine, la recente miscellanea Scrittori
contro
l’omofobia, a cura di Massimiliano Palmese
(un’anticipazione di essa si può trovare al
seguente indirizzo:
www.issuu.com/massimilianopalmese/docs/scrittori_contro_l_omofobia_-_saggi
).
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maggio 2011]
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