Per Michele Ranchetti
>Franco
Volpi, Le molte passioni di Ranchetti, (La repubblica, 5 febbraio 2008)
>Andrea
Cortellessa, Ranchetti storico e poeta sotto il segno
dell’inquietudine, (La stampa, 5 febbraio 2008)
>Alessandro
Zaccuri, Addio a Ranchetti, poeta «fuori
tempo» anche nella Chiesa, (Avvenire, 5 febbraio 2008)
>Addio a Michele Ranchetti, storico del
cattolicesimo,
(Repubblica Firenze, 5
febbraio 2008)
>Massimo
Raffaeli, Un vero umanista, ritroso e magnanimo.(Il manifesto, 5
febbraio 2008)
>Sergio
Bologna, Le
sue doti. Il senso del rischio e l'amore
del dono. (Il
manifesto, 5 febbraio 2008)
>Alberto
Luchetti, Tra lui e Freud. La sua passione per la psicoanalisi, (Il
manifesto, 5 febbraio 2008)
>Mauro
Bertani, Di casa in tanti saperi Ranchetti si lasciava ancora
meravigliare (Il manifesto, 5 febbraio 2008)
>Enzo
Mazzi, Michele Ranchetti, lezioni di vita e di memoria (Il manifesto 20
febbraio 2008)
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Franco Volpi,
Le molte passioni di Ranchetti
Era
una delle figure più
singolari e versatili nel panorama intellettuale del Novecento.
Studioso di Freud e Wittgenstein, traduttore di Celan e Sholem, storico
della Chiesa e severo analista della recente evoluzione del
cattolicesimo, Michele Ranchetti fu anche apprezzato poeta e si
dilettava di pittura. Ammalatosi all’improvviso, per
andarsene ha
scelto Tenerife, un misto di modernità e paesaggi selvaggi e
vulcanici.
Era nato a Milano nel 1925 e, dopo essere stato segretario di Adriano
Olivetti, dal 1955 al 1963 aveva lavorato come consulente editoriale
per Giangiacomo Feltrinelli. Poi con Paolo Boringhieri, a cui era
legato da amicizia, quindi per un periodo da Adelphi, infine con
Einaudi e negli ultimi anni con
Quodlibet (che gli ha
dedicato una bella
miscellanea: Anima e paura. Studi in
onore di Michele Ranchetti, 1998.
Parallelamente aveva mantenuto i contatti con l’ambiente
universitario
dove aveva svolto la sua attività di storico della Chiesa. A
Milano aveva seguito l’insegnamento di Federico Chabod, poi
alla
metà degli anni Sessanta era passato a Firenze, dove fu in
contatto con Delio Cantimori e dove succedette a Giuseppe Alberigo
nell’insegnamento di storia della Chiesa.
Dal lavoro storiografico – il suo lavoro più
importante in
questo campo rimane Cultura e riforma religiosa nella
storia del modernismo (Einaudi 1963) –
Ranchetti trasse
argomenti per cercare di capire come si sia formato
quell’insidioso
corto circuito teologico-politico che spinge la Chiesa odierna a
preferire un rumoroso cattolicesimo alla conversione silenziosa. La sua
aspra analisi condotta in libri come Gli ultimi preti (Cultura
della pace 1997), Chiesa cattolica ed
esperienza religiosa (secondo di tre tomi degli Scritti
diversi, [vol I e vol III
n.d.geo] a cura di Fabio Milana, Edizioni di storia e letteratura
1999-2000) e Non
c’è più religione.
Istituzione e verità nel
cattolicesimo italiano del Novecento (Garzanti
2003) – rimane
di grande attualità.
Ranchetti
lamentava la scomparsa della “cultura religiosa”.
Con lungimiranza
metteva in guardia coloro che ritenevano superato il dissidio fra
Chiesa e Stato: i due ordini, il sacro e il profano, procedono
sì paralleli adempiendo ciascuno alla sua vocazione, ma
più che di una libera autonomia fra entità
indipendenti –
libera Chiesa in libero Stato – si sarebbe prodotta una
alleanza tra
dittature. E incalzava: “Cosa mai fosse l’ordine
religioso e come
potesse comportarsi con quell’ordine civile, e soprattutto
cosa mai
fosse o potesse essere il sacro, nella sua violenza e nella sua
estraneità alle ragioni della ragione, questo non sembra che
potessero saperlo, o almeno non vi è traccia di una
resistenza
‘religiosa’ all’interno dei due
schieramenti […]. La Chiesa Romana
sarebbe così diventata quella chiesa romana che si vede, che
si
tocca. Di tutte le note caratteristiche che nel corso dei secoli e
nella tradizione cristiana avevano distinto la Chiesa, si sarebbero
fatte prevalere l’autorità e la
visibilità “: Un’analisi
pungente, impietosa che pare scritta oggi.
L’altro grande interesse di Ranchetti era la psicoanalisi,
specie la
figura e il pensiero del suo fondatore, cui aveva dedicato vari studi
raccolti nel terzo tomo degli Scritti diversi con
l’eloquente
titolo: “Lo
spettro della psicoanalisi”. Questa
disciplina dai contorni scientifici incerti e
mal definiti, congiuntamente all’esigenza di assicurarle un
vocabolario
tecnico rigoroso, era stato un suo assillo fin da quando aveva
cominciato a lavorare a fianco di Paolo Boringhieri
all’edizione
italiana delle opere di Freud. E alla fine diventò
un’ossessione
che lo spinse a progettare una ritraduzione degli scritti capitali di
Freud: una temeraria impresa nella quale si avventurò anche
contro l’evidenza delle meritorie e consolidate traduzioni di
Renata
Colorni.
Ma per Ranchetti nulla era così importante perché
non gli
importasse come era scritto. Di questa convinzione si nutriva la sua
attenzione per la parola ovvero – come recita il primo tomo
dei suoi Scritti
diversi – la sua “Etica del testo”, che egli
coltivava soprattutto con la pratica della
poesia. Alle due raccolte La mente musicale (Garzanti
1988) e Verbale (Garzanti
2001), una meditazione sul male di vivere che gli valse il premio
Viareggio, ne aveva giusto preparata una terza, Poesie ultime e prime, che
Quodlibet annuncia per fine marzo.
A ricordare la sua attenzione per la parola c’è il
suo lavoro di
traduttore: Wittgenstein (di cui raccolse una biografia per immagini
pubblicata dall’editore
Suhrkamp), la
riedizione con
Gianfranco Botola, delle celebri tesi di Walter Benjamin
Sul
concetto di storia (Einaudi
1997), le
poesie inedite
di Paul Celan e il grande libro di
Gershom Scholem su
Sabbetay Sevi.
Perdiamo con Michele Ranchetti uno di quei personaggi rari e
inclassificabili che hanno dato vivacità al mondo
intellettuale
ed editoriale di questo paese.
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Nella
notte di domenica è morto Michele
Ranchetti. Quella dell'inquietudine è una delle categorie
più abusate; dare anzi dell'inquieto a un pensatore
è
persino tautologico: chi pensa davvero come può farlo senza
mettere tutto in questione, a partire dalla propria identità
pensante? Ma se a qualcuno la si doveva proprio applicare, la
categoria, questi era senz'altro Ranchetti. Scrivendo della
più
defilata ma non certo della meno importante fra le sue
attività
- quella di poeta, «esplosa» solo nel 1988 col
formidabile
La mente musicale, pubblicato da Garzanti come il successivo
Verbale
- Pier Vincenzo Mengaldo ha notato come «l'esistenza non
esiste
quasi in lui se non ruminata interiormente»; e lui stesso,
ricordando uno dei suoi più grandi amici, Franco Fortini,
scrisse che «l'esperienza poetica precede l'esperienza
vissuta,
ne è in certo modo la premessa che non ha alcun bisogno di
trovare o meno conferma». Il che vale a dire che vita della
mente
e vita del corpo erano, in lui, una cosa sola: mai definibili se non in
relazione ad altro.
Accademicamente discepolo di Martini e di Chabod a Milano, dove era
nato nel 1925, Ranchetti ha insegnato Storia della Chiesa
all'Università di Firenze dal '66 al '95, prima al fianco
poi al
posto di Delio Cantimori. Molto prima, però, con Adriano
Olivetti, per poi prestare la sua competenza a un'editoria che, come
l'utopia olivettiana, ci pare oggi di un altro mondo. Alla Feltrinelli
e poi con Adelphi, Boringhieri, Einaudi, Mondadori: di volta in volta
editando e traducendo classici come Freud, Wittgenstein, Bonhoeffer,
Benjamin, Taubes e Celan. Il suo ultimo progetto, la collana
«Verbarium», è stato appena
sontuosamente varato da
Quodlibet. Passare in rassegna i titoli pubblicati (dalla Guida
spirituale degli attentatori dell'11 settembre 2001 all'Autobiografia
documentaria di Renato Solmi) basta a evidenziare
l'ampiezza
sorprendente dei suoi campi d'interesse.
E insomma andrebbe scritto con la maiuscola, l'Altro prima evocato:
sempre al di là di ciò che possiamo vedere e
toccare.
Rileggendo le sue poesie, ci si rende conto che in pochi come lui - un
unico nome si può fare, quello di Clemente Rèbora
- la
definizione della vita si correla sempre al proprio limite:
cioè
con quanto viene dopo. Una mirabile serie di aforismi, in
Verbale,
conia un sintomatico sintagma, rigor vitæ.
E spiega:
«Precipita la vita nella sorte / della non vita da cui viene
/ e
si confronta a quel nulla / la misura del vivere: il morire».
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Enzo Mazzi, Michele
Ranchetti, lezioni di vita e di memoria (Il manifesto 20
febbraio 2008)
Si parla
ormai di Michele Ranchetti al passato. Per parte mia preferisco, a un
mese dalla sua morte, parlarne al presente. E' lui stesso che c'ispira.
«Vivo in una cassa da vivo: morto sarò
risorto» scrive nella raccolta poetica Verbale (Garzanti
2001).
E' proprio il presente il tempo in cui irrompe il suo complesso
messaggio di storico della Chiesa che da un lato vede
l'impossibilità strutturale dell'istituzione ecclesiastica
di aprirsi a un dialogo vero, sincero, con la democrazia e d'altra
parte individua con l'ottimismo della speranza spazi di apertura nella
prassi del cattolicesimo di base. E' una bella lezione per la politica
tutta orientata, da sempre ma oggi con più ossequioso
trasporto, a accattivarsi le gerarchie ecclesiastiche ignorando
completamente il nuovo che nasce alla base della realtà
ecclesiale.
Mettiamo a confronto, a titolo di esempio, due suoi messaggi
estremamente attuali che rappresentano plasticamente come i due poli di
una personalità combattuta fra pessimismo e speranza,
affaticata dal bisogno e dall'impegno di pacificazione fra la vita e il
proprio limite, cioè fra le due realtà del nostro
essere che sono una cosa sola ma che la cultura sacrale violentemente
separa: «Precipita la vita nella sorte/ della non vita da cui
viene/ e si confronta a quel nulla/ la misura del vivere: il
morire», scrive ancora nel Verbale.
Il primo messaggio, quello che parla il linguaggio del pessimismo,
così a me sembra, è un'analisi spietata
pubblicata su La Rivista del manifesto (numero 10-ottobre 2000) col
titolo Praevalebunt.
Partendo dal pontificato di Wojtyla compie un magistrale escursus,
fortemente e lucidamente critico, sulla storia della Chiesa cattolica
nel secolo scorso per concludere, pessimisticamente appunto, con una
dichiarazione esplicita di dissenso senza apparentemente un barlume di
speranza.
«Questa Chiesa ... non ha alcun bisogno di mediazioni: essa
è e vuole. Vuole la beatificazione di tutti suoi capi,
indipendentemente dalla storia 'profana', si appropria di tutti i
martiri, costruisce un universo di santi a sua immagine e somiglianza,
invade tutti i territori della vita politica, civile, religiosa, tutti
gli schermi e le formule di imbonimento (quanti frati figurano come i
migliori suggeritori di prodotti culinari, come se la loro competenza
provocasse la vendita di prosciutti e biscotti), disattende qualsiasi
forma di meditazione, di raccoglimento, sfoggia i suoi giovani, pronti
a acclamare un pontefice sofferente prima di accorrere a acclamare un
probabile capo del governo che, a sua volta, si presenta come esempio
di virtù cristiane, davvero improbabili.
Era necessario questo esito? È certamente coerente e
corrisponde alla progressiva, forse ineludibile erosione della cultura
umanistica a vantaggio delle nuove forme, anch'esse di cultura, dei
nuovi strumenti che hanno, appunto, nell'immagine e nella
disponibilità dei nuovi accessi all'informazione non mediata
i propri caratteri. Una Chiesa come questa corrisponde anche,
così sembra, all'abbandono, non detto ma praticato, del
cristianesimo come religione in favore di una Chiesa visibile in cui si
compendia la storia secondo il prologo della 'Lettera agli Ebrei'.
Senza alcuna forma di ossequio o di consenso, occorre prenderne
atto».
Il secondo polo, la speranza, lo troviamo, sempre a mo' esempio, nella
prefazione da lui scritta al libro della Comunità
dell'Isolotto Oltre i confini, Lef, Firenze, 1995. Fu il primo incontro
diretto fra una personalità apparentemente schiva ma in
realtà partecipe e la comunità «il cui
carattere e la cui forza - come lui scrive - non sono mai derivate dal
riferimento a figure carismatiche».
Egli parte dall'Isolotto, ma il suo sguardo si estende su tutta l'area
del «dissenso creativo» fiorentino, nazionale,
mondiale. Lì nella base critica della chiesa e della
società, che non è contrapposizione ma
costruzione positiva di una «chiesa altra» e di una
«società altra», vede e analizza
acutamente germi di speranza. Per la realtà ecclesiale ma
anche per tutta la società.
«La vicenda ... Isolotto appartiene contemporaneamente a
almeno tre contesti: la storia di Firenze, la storia della chiesa
locale, la storia della chiesa. Appartiene anche, molto più
di quanto si sia fino ad ora considerato, alla 'storia del mondo' ...
Dal 1954 a oggi, in Firenze si sono succedute diverse forme particolari
di esperienza e vita religiosa, e grandi figure rappresentative di
essa. Da Elia Dalla Costa a don Facibeni, a La Pira, a padre Davide
Turoldo, a don Lorenzo Milani, a Luigi Rosadoni, a padre Emesto
Balducci, i modelli di obbedienza e di proposta religiosa e civile si
sono succeduti come momenti irripetibili, ciascuno nella sua
unicità, e pure appartenenti a una sorta di costellazione
religiosa, quasi un privilegio di grazia».
Un elemento importante di speranza lo vede nel carattere evolutivo e
dialettico della storia: «Questo consentirà di
liberare la storia dell'Isolotto dalla prospettiva, in cui viene per
solito chiusa, di una conflittualità particolare, quasi
caratteriale, privata, presente sì ma come elemento
'perenne' della dialettica propria della storia della chiesa e alla
fine riconducibile alla dicotomia fra trascendenza e immanenza o fra
particolare e universale o fra visibile e invisibile o profezia e
storia, ossia alle coppie e ai nessi su cui si costruisce l'esperienza
religiosa».
Infine lo sguardo prospettico, la profezia, il gettare
«oltre» la luce della speranza, coerentemente col
titolo del libro per cui scrive la prefazione: «Per questo,
in certo modo, il Concilio e le sue carenze, ma anche la restaurazione
appartengono ancora, o così sembra, alle categorie del
sacro, dell'istituzione, della Chiesa discente e docente, a distinzioni
e caratteri che la storia di oggi, e non solo la storia religiosa, non
sa più e non deve più forse riconoscere come
presenti e operanti».
In questo prepotente ritorno del sacro che ci sconcerta, in questa
stagione culturale e politica in cui sono così centrali i
temi etici e il rapporto con la Chiesa, le riflessioni dello storico
illuminato e fine poeta sono parecchio illuminanti. Purtroppo la
politica difetta di cultura e non è capace di approfittare
di queste lezioni di memoria e di vita.
Michele Ranchetti è ognuno di noi, la sua lotta fra
pessimismo e speranza è la nostra lotta, la sua fatica di
pacificazione interiore e di liberazione dal dominio del sacro
è la nostra fatica.
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