Il senso del rischio e l'amore del dono
Sergio
Bologna
Il
manifesto, 5 febbraio 2008
Ripensando alla figura di Michele Ranchetti, si ha la sensazione che il
termine «cultura» - che in parte definisce la
nostra esistenza - in realtà per noi stessi stia perdendo,
come in una dissolvenza, i suoi contorni e il suo pieno significato,
perché si stanno estinguendo le persone umane che lo
incarnano pienamente, sicché - dovendo riflettere sul senso
di quella parola - sempre più il pensiero
corre a dei vocabolari e sempre meno a dei volti. Può darsi
che questo effetto sia dovuto al meticciato crescente, sì
che quella che a noi pare «cultura» sia in
realtà la cultura «occidentale»,
cristiana e rinascimentale, illuminista e marxista. Ma il discorso vale
lo stesso, perché è proprio
«quella» cultura occidentale che si sta dissolvendo.
Michele Ranchetti era quella
cultura, le aveva dato il corpo della sua minuta persona. Non era,
grazie a Dio, uno specialista e, allo stesso modo, potremmo dire che
non era un intellettuale né un professore e non lo era
perché la vera cultura occidentale è
essenzialmente libertà senza confini, senza segnali divisori
e senza scudi protettivi. È rischio continuo, quello di
cercare punti di vista diversi, idee diverse, che confliggono con
l'opinione dominante, quindi granelli di novità,
d'innovazione, non rifrittura. Ed è rischio dominato
dall'amore per gli altri, perché si è convinti di
«dare» qualcosa con le proprie idee, di contribuire
alla libertà altrui. Un senso del dono che si accompagna a
un piacere, a un godimento personale, una privazione che si accompagna
alla sazietà. Quindi sono belle vite quelle degli uomini di
questa cultura, vite di cui - dici - «meritavano di essere
vissute», malgrado i dolori.
Michele Ranchetti con il
dolore aveva una relazione speciale, sembrava che quello fosse il
terreno a lui più familiare, lo avvicinava con forte
concentrazione, come se nell'affrontarlo richiamasse tutte le sue
energie e le sue doti, con senso di laico rispetto e di cristiana
carità. E pertanto chi era ferito dal dolore riceveva sempre
da lui sollievo. La vera cultura occidentale non ha paura né
della modernità né della più sfrenata
modernizzazione e se deve giocarsi con questa l'ultima partita se la
gioca, non si ritira in un museo, non si impietrisce in un monumento.
Meglio lasciarci le penne che percepire un sussidio di vecchiaia dai
vincitori. Michele aveva conosciuto la modernità della
grande impresa, dalla meccanica all'editoria.
Aveva praticato il lavoro
dipendente e il lavoro da freelance, con lo stesso rigore, la stessa
ironia con cui aveva ricoperto il ruolo di funzionario di stato. Aveva
accettato la condizione generale di salariato ma non l'aveva mai
negoziata con la sua libertà. Rotture e strappi sono stati
frequenti nella sua vita, poteva permetterselo. Non perché
alle spalle avesse terre o fortune ma perché poteva
trasferirsi con naturalezza nello spazio infinito della poesia, della
musica, del disegno. È stato un uomo fortunato e fortunati
noi che gli siamo stati amici.
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