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Rosa Luxemburg
Edoarda Masi
I rivoluzionari, specie comunisti, vengono oggi comunemente
rappresentati come gente di ferro, senza anima, oppure come fanatici:
comunque spietati e disumani, combattenti per principi astratti e
lontani dalla concreta reale vita degli individui – i soli
apparentemente privilegiati dalle ideologie correnti. Qualora si tratti
di donne, ovviamente le si rappresenta prive di quanto genericamente (e
spesso impropriamente) vien definito femminilità.
Leggo sul
numero dello scorso 14 ottobre della Far Eastern Economic Review una
recensione, di Jason Overdorf, del romanzo autobiografico War
Trash di Ha Jin, dove si dice «[Yu, il protagonista] più
osserva le decisioni dei dirigenti del partito nel campo – per esempio,
lotte simboliche per sventolare la bandiera cinese – più arriva a
credere che la loro fede non lascia spazio all’umanità. ‘Ero
ambivalente sul tentativo di recuperare la bandiera’. Yu riflette: ‘Da
un lato, ammiravo il coraggio mostrato dai nostri uomini, e per un
verso ero colpito da reverente timore per la loro passione e per
l’audacia che – dovevo ammetterlo – io non possedevo. Dall’altro lato,
mi chiedevo se valesse la pena di perdere la vita di un uomo per una
bandiera che, per quanto simbolica, era solo un pezzo di
stoffa’. Rendendo esplicito il sorprendente parallelo fra
fervente comunismo e fanatismo religioso, Yu conclude: ‘Avevo notato
una sorta di fanatismo religioso in alcuni di quegli uomini, capaci di
rinunciare alla loro vita per un’idea’».
La mozione che nella difesa dell’individuo anche al livello minimo
implica una rivendicazione di umanità contro la mistificazione delle
grandi idee, religiose o laiche, ha una valenza positiva e anzi
rivoluzionaria ogni qual volta quanti sono in possesso degli strumenti
di dominio, valendosi strumentalmente e falsamente delle
grandi idee, mirano ad assoggettare gli individui per altri fini. Un
grande significato positivo ha avuto una simile mozione al tempo della
prima guerra mondiale, quando le bandiere dei vari patriottismi
venivano sventolate a coprire la carneficina promossa da quelli che
Lenin chiamò “i briganti coronati” e gli sporchi interessi di cui erano
rappresentanti. Ma allora contro il patriottismo – valido in tempi
precedenti e ormai esaurito, la cui bandiera era divenuta
effettivamente solo un pezzo di stoffa – la difesa degli individui si
accompagnava all’affermazione di valori altri e più alti, assunti da
moltitudini associate nella lotta; portatrici di nuove bandiere: di
nuove idee, corrispondenti alle esigenze reali del tempo, e tali da
motivare, nuovamente, anche il sacrificio dei singoli individui che in
esse si riconoscevano: non una menzogna al fine della propria
dipendenza ma uno strumento per la propria affermazione.
Invece, secondo il modo di pensare oggi corrente, il fervore religioso
e la fede in un’idea equivalgono in
ogni caso al fanatismo; chiunque impegna la propria vita o
si sacrifica “per un’idea” è un fanatico; una bandiera infine è sempre
solo un pezzo di stoffa. Allora, da Socrate a Gesù, e via via dovunque
e per i secoli – fino a Rosa Luxemburg assassinata e gettata in un
canale della Sprea – la storia appare come un susseguirsi di sacrifici
privi di senso cui si sono offerti individui privi di considerazione
per la propria individualità; non solo, ma con la conseguenza di
imporre questa morale distorta ad altri individui, sacrificandoli a
loro volta. La conclusione è una morale che privilegia l’arroccarsi di
ciascuno nella difesa del proprio “particulare”. Non solo privandolo di
quella “idea” o “religione” che esprima il suo rapporto e la sua
comunione con gli altri e potenzi la ricchezza della propria umanità,
ma anche lasciandolo, così isolato, privo dei mezzi di difesa effettivi
contro chi – in possesso di strumenti di dominio (economico, militare,
sociale, culturale) – intenda assoggettarlo.
All’assenza di fede religiosa e di adesione a grandi idee non si
supplisce con la buona volontà. Ma una cosa è possibile:
evitare che la disgraziata condizione del presente sia proiettata
all’indietro, a deformare il passato. Si può almeno educare chi oggi è
spossessato, privo di una speranza attiva, a conoscere che questa perdita è
contingente ma non inerisce alla condizione umana in
quanto tale. A questo fine – fondamentale per la rinascita di una
resistenza efficace alle forze distruttive che oggi operano anche
all’interno delle coscienze – è essenziale la trasmissione della
storia. Non a caso le correnti ideologie funzionali alla distruzione
pretendono annullare la nozione stessa di storia e l’insegnamento della
storia come disciplina – quanto meno ai livelli più popolari.
L’attenzione alla biografia delle grandi personalità può essere un
tramite al recupero della storia. Per quanto riguarda la storia del
comunismo nel ventesimo secolo, la conoscenza dei grandi comunisti
nella loro individualità aiuta a smentire la visione deformata e
calunniosa che ne viene proposta da quanti, annientandola alla radice,
intendono garantirsi da una eventuale rinascita nelle menti di
qualsiasi ipotesi comunista. Nel contempo, aiuta a restituire agli
individui la giusta collocazione – non nel solitario isolamento ma
nell’adesione a grandi idee, che fa tutt’uno con la comunicazione e la
comunità con gli altri individui.
Nelle
lettere di Rosa Luxemburg a persone intime e ad amici emergono tratti
non sempre immediatamente visibili nella superficie della figura
pubblica, che la illuminano e arricchiscono.
Scrive nell’aprile 1899 a Leo Jogiches – il suo compagno per
diciassette anni:
È la forma
della mia
scrittura che non mi soddisfa più. Va maturando nella mia “anima” una
forma nuova, originale, che ignora ogni regola e convenzione. Le spezza
col potere delle idee e della forte convinzione. Voglio colpire come un
tuono, infiammare le menti non con i particolari ma con l’ampiezza
della mia visione, la forza della mia convinzione e il potere della mia
espressione.
È la coscienza del proprio eccezionale valore e il coraggio di
manifestarla in termini appassionati. Il pensiero come passione è la
forza del genio femminile – della femminilità che si libera
dalla soggezione e si afferma, al di sopra “delle regole e delle
convenzioni”. Uno dei grandi equivoci dei mediocri nemici delle donne
(condiviso in parte dal femminismo di bassa lega) sta nel confondere il
pensiero forte femminile con la durezza, l’assenza di sensibilità, il
“tutto cervello” e “niente corpo”; e in genere credere che la
profondità dei sentimenti e la sensibilità umana si identifichino col
sentimentalismo, il dolciastro “latte alle ginocchia”, la mollezza
scambiata per non violenza, il “pensiero debole”.
In una lettera del dicembre 1916 scritta dalla prigione a Emanuele e
Mathilde Wurm, nei riguardi del pessimismo e del tono meschinamente
lamentoso dei suoi interlocutori Rosa Luxemburg usa toni così violenti
da apparire quasi incredibili, giacché si rivolgono a una cara amica;
ma la polemica è tanto più forte quanto più profondo è l’affetto, come
si sente nelle ultime righe:
Ti basta
così, come auguri di Natale? Allora bada a rimanere uomo [Mensch]! Essere Mensch è la cosa
più importante! E questo significa: essere fermi, lucidi e allegri. Sì,
allegri nonostante tutto e tutto – giacché il piagnisteo è affare dei
deboli. Essere Mensch
significa gettare gioiosamente tutta la propria vita sulla bilancia
della sorte, quando è necessario, ma nello stesso tempo godere di ogni
giorno chiaro e di ogni bella nuvola; oh, non posso scrivere nessuna
ricetta su come essere Mensch,
so soltanto come lo si è, e anche tu lo sapevi quando passeggiavamo
qualche ora insieme nei campi di Südende e la luce rossa del crepuscolo
si stendeva sul grano. Il mondo è così bello nonostante tutto l’orrore
e sarebbe ancora più bello se non ci fossero i deboli e i vili.
E alla stessa amica nel
febbraio 1917, sempre dalla prigione:
Tutto il tuo
argomento contro il mio motto “Qui sto, non posso altrimenti” si riduce
a: Bene, sia pure, ma le masse sono troppo vili e deboli per tanto
eroismo. Ergo,
si deve adattare la tattica alla loro debolezza e all’assioma: “Chi va
piano va sano e va lontano”.
Che visione storica limitata, agnellino mio! Non c’è nulla di più
mutevole della psicologia umana. La psiche delle masse come l’eterno
mare porta in sé ogni possibilità latente: la calma mortale e la
tempesta, la più bassa viltà e il più fiero eroismo. La massa è sempre
quello che deve
essere secondo le circostanze del tempo e la massa sta sempre per
diventare qualcosa di completamente differente da quello che sembra
essere. Che capitano sarebbe uno che tracciasse la sua rotta
dall’apparenza momentanea della superficie dell’acqua e fosse incapace
di prevedere l’arrivo di una tempesta dai segni nel cielo o dalle
profondità! Mia cara ragazza, la “delusione sulle masse” è la prova di
maggiore vergogna per un dirigente politico. Un vero dirigente adatta
la sua tattica non all’umore momentaneo delle masse ma alle leggi
ferree dello sviluppo; si attiene a questa tattica, a dispetto di ogni
“delusione” e per il resto lascia tranquillamente che la storia porti a
maturazione il suo lavoro. [...]
Che fare di questa particolare sofferenza degli ebrei? Le povere
vittime delle piantagioni di gomma di Putumayo [Colombia], i negri
dell’Africa con i cui corpi gli europei giocano a una partita di
caccia, mi sono più vicini. [...]
Qui, come in molte altre occasioni, si rivela il fortissimo senso del
proprio io, la responsabilità della dirigente che non risponde solo di
sé, che fa storia, e una sorta di profonda serenità che le viene da
questo, e le consente di porsi al di sopra dei giudizi basati sullo
psicologismo; e come ebrea, al di sopra del misero piagnisteo per
esprimere invece la più alta qualità dello spirito universalistico
ebraico. L’interesse umano immediato per la gente colonizzata e
calpestata non è senza rapporto con l’internazionalismo autentico e la
ricerca teorica sul capitalismo nelle zone periferiche.
Da una lettera a Sonja Liebknecht nel maggio 1917
[Wronke]:
Una mattina
l’aprile scorso, ricordi, vi ho chiamati d’urgenza al telefono alle
dieci per andare a sentire l’usignolo che dava un concerto nell’orto
botanico. [...]
Che cosa leggo? Per la maggior parte, scienze naturali: geografia delle
piante e degli animali. Sempre più la silvicoltura sistematica, il
giardinaggio e l’agricoltura vanno distruggendo a passo a passo la
nidificazione e la riproduzione naturale. Alberi cavi, terreni incolti,
roveti, foglie secche sul suolo dei giardini. Mi ha talmente addolorata
leggerlo. Non per i canti che cantano per la gente, ma è piuttosto
l’immagine della silenziosa, irresistibile estinzione di quelle piccole
creature senza difesa che mi colpisce fino a farmi piangere. Mi
ricordava un libro russo che avevo letto quando ero ancora a Zurigo, ,
un libro del professor Sieber sul massacro dei pellerossa nel Nord
America. Esattamente nello stesso modo, a passo a passo, sono stati
scacciati dalla loro terra agli uomini civili e abbandonati a perire in
silenzio e crudelmente.
Forse sono un po’ spostata a sentire tutto così intensamente. Sai a
volte mi sembra di non essere realmente una creatura umana ma piuttosto
un uccello o una bestia in forma umana. Mi sento molto più a casa in un
giardinetto come qui, e ancor più nei campi quando l’erba ronza per le
api, che in uno dei nostri congressi di partito. Posso dirtelo, giacché
tu non mi sospetterai immediatamente di tradire il socialismo! Sai che,
nonostante tutto, veramente spero di morire al mio posto, in un
combattimento di strada o in prigione.
Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai
“compagni”. Non perché io trovi nella natura un rifugio riposante come
tanti politici moralmente falliti. Al contrario, anche nella natura, a
ogni passo, trovo tanta crudeltà che ne soffro molto. Per esempio,
pensa che non posso cacciare dalla mente questa piccola esperienza. La
scorsa primavera stavo rientrando a casa da una passeggiata nei campi
lungo la mia via silenziosa, stretta, quando notai un piccolo segno
scuro sul pavimento. Mi chinai e vidi una tragedia silenziosa: un
grosso scarabeo giaceva sul dorso, difendendosi disperatamente con le
zampe, mentre un gruppo di formichine brulicava su di lui e lo mangiava
vivo! Mi si accapponò la pelle! Tirai fuori il mio fazzoletto e presi a
scacciare quegli animaletti brutali. Ma erano così insolenti e ostinati
che dovetti combattere contro di loro una lunga battaglia. Quando
finalmente liberai la povera vittima e la raddrizzai sull’erba, vidi
che due delle zampe erano già state mangiate.... Me ne andai col
sentimento angoscioso che alla fine gli avevo reso un assai dubbio
favore. [...]
Qui, come da un brano di un’altra lettera a Sonja Liebknecht di metà
dicembre 1917 [Breslau], ricordato nel film di Margarethe von Trotta,
dove si rappresenta l’appassionata condivisione dello strazio di un
bufalo malmenato, emerge l’empatia per tutte le sofferenze non solo
degli uomini ma di ogni creatura, la comunione fra gli esseri viventi.
Questo sentire, che è anche un pensare, si collega, ripeto, alla
visione autenticamente internazionalista che porta Rosa Luxemburg al di
là dell’etnocentrismo, al suo tempo presente se pur non dichiarato in
tanti marxisti; la porta pure ad anticipare di quasi un secolo
l’allarme per la distruzione dell’ambiente e delle specie viventi.
Leggo un brano da un’altra lettera del dicembre 1917, sempre
indirizzata a Sophie Liebknecht:
[...] La
scorsa notte andavo pensando: “Come è strano che io sia sempre in una
sorta di allegra ubriachezza, senza motivo sufficiente. Qui giaccio in
una cella scura su un materasso duro come la pietra; l’edificio ha la
sua solita quiete da camposanto, tanto che si potrebbe essere già
seppelliti; attraverso la finestra cade sul letto un barlume di luce
dalla lampada accesa tutta la notte davanti alla prigione. A intervalli
posso udire debole nella distanza il rumore di un treno che passa o,
qui vicino, la tosse secca del guardiano della prigione che nei suoi
pesanti stivali fa quattro passi per stirarsi le membra. Lo
scricchiolio della ghiaia sotto i suoi piedi suona così disperato che
tutto il tedio e la futilità dell’esistenza sembrano irradiarsi nella
notte umida e cupa. Io giaccio qui sola e in silenzio, avvolta nel
multiforme involucro di oscurità, tedio, non-libertà, e inverno –
eppure il mio cuore batte con una incommensurabile e incomprensibile
gioia interiore, come se mi muovessi nella radiante luce del sole
attraverso un prato fiorito. E nell’oscurità sorrido alla vita, come
possedessi un talismano che mi permettesse di trasformare tutto ciò che
è male e tragico in serenità e felicità.” Ma se cerco nella mia mente
la causa di questa gioia, non la trovo, non posso che ridere di me.
Credo che la chiave dell’enigma sia semplicemente la vita stessa.
Questa profonda oscurità della notte è morbida e bella come velluto, se
solo la si guarda nel modo giusto. Lo scricchiolio della ghiaia umida
sotto il passo lento e pesante del guardiano della prigione è simile a
un’amabile canzoncina della vita – per una che abbia le orecchie per
udire. In momenti simili penso a te, e vorrei poter consegnare anche a
te questa chiave magica. Allora, in qualsiasi tempo e in qualsiasi
luogo, potresti vedere la bellezza e la gioia della vita; allora anche
tu potresti vivere nella dolce ubriacatura, e camminare attraverso un
prato fiorito. Non pensare che ti offra gioie immaginarie, o che vada
predicando l’ascetismo. Voglio che tu gusti tutti i reali piaceri dei
sensi. Il mio solo desiderio è di darti in più il mio inesauribile
senso di benedizione interiore [...].
Il dolore individuale si perde in quello collettivo e l’individuo si
risolve in forza (non solo di tipo stoico, né nel solo ottimismo della
volontà) ma nel sentire della gioia. Così nei grandi mistici (san
Francesco, molti buddhisti) e nei grandi materialisti, dove la gioia è
nel sentimento stesso della vita, e nel dare forma. Anche, forma al
futuro.
*
Scritto forse per il convegno internazionale “Una candela che brucia
dalle due parti. Rosa Luxemburg e la critica dell’economia politica”
(organizzato forse da Riccardo Bellofiore, 16-18 dicembre 2004,
Università degli studi di Bergamo).
[24 settembre 2012]
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