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Narrare la Shoah: Jan Karski, Yannick Haenel e dintorni.
Narrare la Shoah: Jan Karski, Yannick Haenel e dintorni.
Giovanna Tomassucci
1.
Il libro di Yannick
Haenel in francese si chiama semplicemente Jan Karski e in italiano Il
testimone inascoltato1. Ha ricevuto due premi importanti (Prix
du roman Fnac e Interallié) ed è stato candidato al Goncourt.
Da esso è stato tratto lo spettacolo teatrale di Arthur Nauzyciel, Jan Karski
(mon nom est une fiction), presentato nel 2011 ad Avignone.
L’ho scoperto nello scorso ottobre, durante un incontro all’Istituto francese di
Firenze e ho avuto la fortuna di poterlo presentare poco dopo accanto all’autore
al Pisa Book Festival 2012.
Haenel è uno scrittore francese apprezzato (prima di questo libro ha pubblicato
con successo quattro romanzi, accanto a saggi e libri di interviste).
Attualmente vive tra la Francia e l’Italia. Prima non si era occupato né di
questioni polacche né di Shoah, ma aveva narrato la solitudine come condizione
esistenziale estrema, perfino allucinatoria, scatenata da reazioni a eventi
storici quali l’11 settembre o Hiroshima.
Come quasi tutti, Haenel ha scoperto la storia di Jan Kozielewski (1914-2000,
più noto con il suo ultimo nome di battaglia Jan Karski) grazie a uno degli
episodi di Shoah, il film del 1985 di Claude Lanzmann, di cui Karski è
l’unico protagonista. Se negli altri episodi il regista aveva cercato di
ricostruire gli ultimi stadi della persecuzione e dello sterminio degli ebrei
attraverso testimonianze incrociate di sopravvissuti, testimoni e carnefici, in
questo è solo Karski a parlare, a lungo e con estremo dolore, delle sue due
missioni clandestine nel ghetto di Varsavia e nel campo di concentramento di
Izbica lubelska nell’estate 1942.
L’intervista – visibile oggi su You tube o nel DVD che accompagna la
sceneggiatura di Shoah2 – in realtà è un condensato di 40 minuti
di un colloquio protrattosi per oltre 8 ore, registrato nell’ottobre 1978 negli
USA, ed è stata contestata proprio a causa di quei tagli. Solo recentemente
Lanzmann ha depositato presso l’Holocaust Memorial Museum di Washington
la sua versione integrale. Solo dopo la pubblicazione del libro di Haenel (da
lui fortemente attaccato perché considerato mistificante e un plagio della sua
intervista a Karski) ha recuperato alcune parti precedentemente scartate, e ne
ha fatto un altro documentario, Il rapporto Karski, trasmesso dal canale
TV franco-tedesco Arte nel marzo 2010. Qui Karski narra i particolari
della sua missione per informare i governi di Londra e Washington dello
sterminio degli ebrei in Polonia (parlò con il ministro degli esteri Robert A.
Eden e con lo stesso Roosevelt)3.
Benché dedicata interamente alla soluzione finale, consumatasi
soprattutto nei territori polacchi (Lanzmann da una parte ha ignorato i massacri
e le deportazioni al di fuori della Polonia, dall’altra non ha voluto né
ricostruire alcun episodio di salvataggio degli ebrei polacchi né inserire nel
suo film l’incontro con l’eroe del ghetto di Varsavia Marek Edelman)4,
Shoah apparve in Polonia solo in maniera fugace, per volontà personale
del generale Jaruzelski (ciò che dice in proposito Haenel non è del tutto
esatto...5) e contro il volere di altri settori del partito. Dopo esser
stata proiettata per pochi giorni nel 1985 in alcune grandi città e in una
versione televisiva assai mutila, divenne oggetto di un attacco mediatico e
politico della dirigenza del partito, replicando i tristi toni della campagna
antisemita del 1967-68. Lanzmann venne bollato come fiancheggiatore del
fascismo e il Ministero degli Esteri rivolse una formale protesta all’ambasciata
francese a Varsavia. Per molti anni furono pochissimi i polacchi che poterono
vedere il film nella sua versione integrale: va notato che molti dei detrattori
del film, governativi o appartenenti all’opposizione, ne scrissero solo per
sentito dire. Una sua proiezione integrale fu possibile solo nel 1997, quando
venne trasmesso non dalla televisione pubblica, ma dall’emittente Canal+.
In Occidente si è poco consapevoli che in Polonia, come in altri paesi del Patto
di Varsavia, l’Olocausto e l’ebraismo sono spesso stati messi in sordina, a
volte divenendo un vero e proprio tabù, fatto paradossale, visto che, almeno
fino al 1967 molti dei dirigenti del regime, perché di origine ebraica o membri
della Resistenza, erano stati prigionieri dei lager nazisti. Tra di di loro
c’era chi un tempo era appartenuto all’Armia Krajowa (A.K.), la
formazione della Resistenza legata al Governo di Londra perseguitata dal regime
dopo la guerra, e aveva avuto a che fare personalmente con Jan Karski. Tra di
loro lo stesso premier Józef Cyrankiewicz – in seguito tristemente noto per
l’ordine di sparare contro gli operai in sciopero a Poznań (1956) e a Danzica
(1970) – che nel 1941 aveva eroicamente liberato Karski dalle mani della
Gestapo, finendo poco dopo ad Auschwitz.
Non è escluso che sia stato anche questo il motivo per cui il nome dell’ex
emissario, reo di essere appartenuto all’A. K. di vivere in esilio negli Stati
Uniti e di insegnare all’ Università gesuita di Georgetown (tra i suoi allievi
si annovera Bill Clinton, mentre Zbigniew Brzeziński, il consigliere di Stato di
Carter di origine polacca, era un amico di famiglia), rimase occultato almeno
fino agli anni Ottanta, quando sulla più illuminata stampa polacca venne
brevemente dissepolta dall’oblio la sua missione presso il Governo di Londra e
gli Alleati.
Lanzmann è stato accusato da molti polacchi (ma con delle eccezioni eccellenti,
quali Jacek Kuroń e Karol Wojtyła) di essere tendenzioso, di avere considerato
la Polonia più corresponsabile dell’Olocausto di ogni altro paese (quando
Shoah uscì in Francia, «Liberation» lo presentò con un articolo intitolato
La Pologne au banc des accusés) e di aver passato sotto silenzio le
iniziative di aiuto agli ebrei.
Tra le voci critiche del film di Lanzmann ricordo invece quella della polacca
Ewa Kuryluk, storica dell’arte ed esponente del dissenso, dello storico
britannico Timothy Garton e dell’israeliano Israel Shahak, sopravvissuto del
Ghetto di Varsavia6.
Gustaw Herling-Grudziński scrisse nel suo Diario scritto di notte:
Oggi [26.3.1986 N. d. G.T.] ho visto la prima parte di Shoah, il film di
Lanzmann. A qualche decina d’anni dall’Olocausto il suo vero tema dovrebbe
essere l’Indifferenza del Mondo. Dovrebbe, ma non lo è stato. O piuttosto essa è
stata consapevolmente ridotta all’Indifferenza dei Polacchi, perché questo ha
meglio permesso all’“artista” di garantire al suo film una costruzione “rigorosa”. Restringendo il quadro dell’Olocausto al paese in cui esso
è stato
tecnicamente portato a termine, quella “costruzione rigorosa” ha identificato
l’Indifferenza del Mondo con l’antisemitismo polacco (prevalentemente economico
e vicino alla Chiesa). Questa operazione riduttiva è stata spinta a tal punto da
lasciare lo spettatore all’oscuro su che cosa sia accaduto ai polacchi “ariani”
durante l’Olocausto: anche loro erano forse “sottouomini” destinati a un
imminente sterminio (...) o invece vivevano placidamente, voltando le spalle ai
forni crematori e coltivando la terra sotto al loro fumo, contenti in cuor
proprio che ogni giorno nelle camere a gas venissero crocifissi i discendenti di
coloro che un giorno avevano messo Cristo in croce? (...) Ingeneroso, cieco da un
occhio e in fin dei conti menzognero l’“artista”, per cui l’“arte” conta ben più
di “tutto il resto”.
Tutto il resto oggi comprende il libro di Laqueur The Terrible Secret,
quello di Wyman, The Abandonment of The Jews of Europe, e il film
di Ophüls Le chagrin et la pitié (...). Lo spettatore della nostra parte di
Europa che vede Le chagrin et la pitié viene spinto a una riflessione: se
la Endlösung nazista avesse avuto luogo in Francia, con gli stessi metodi
e il ricorso al terrore sperimentati a est, la collaborazione francese avrebbe
colmato di gioia il cuore di Himmler. Quanto all’Inghilterra, solo
l’immaginazione dell’autore di 1984 potrebbe misurarsi con la domanda su cosa
sarebbe successo se fosse stata invasa dai tedeschi (...).
Per riuscire a vedere nell’Olocausto qualcosa di più della sua “cornice”
polacca, bisogna provare disgusto, forse perfino odio, per ogni forma di peste
totalitaristica. Dubito che Lanzmann possieda l’acutezza di un simile sguardo,
propria a uomini della levatura di un Orwell7.
Lo stesso Karski fu rimproverato da alcuni suoi compatrioti per aver collaborato
con Lanzmann senza prenderne le distanze: all’uscita del film, nel 1985, aveva
infatti definito Shoah «il più grande film sulla tragedia degli ebrei che
sia stato girato dopo la seconda guerra mondiale»8.
In realtà proprio in quell’articolo, tradotto qui sotto per la prima volta in
Italia, Karski si era dichiarato contrariato che il regista francese non avesse
fatto alcun accenno alle organizzazioni polacche di aiuto agli ebrei e avesse
tagliato «la parte più importante» dell’intervista, relativa alla sua missione
per informare gli Alleati dello sterminio degli ebrei. Come accennato, in
Shoah mancavano i resoconti dei suoi colloqui con il governo polacco di
Londra, con alcuni rappresentanti del Foreign office (dicembre 1942) e
con il presidente Roosevelt a Washington (luglio 1943). Il fatto aveva
un’estrema importanza, in quanto gli Alleati, benché dettagliatamente informati,
non avevano intrapreso alcuna azione concreta per fermare la macchina dello
sterminio nazista. Nonostante il suo eroico coinvolgimento, per tutta la vita
Karski si è sentito responsabile di quel mancato intervento e ha spesso
dichiarato: «Io volevo salvare la vita di milioni, ma non sono riuscito a
salvarne neanche una».
Il testimone inascoltato è un testo ibrido, che Haenel ha voluto
paradossalmente chiamare romanzo. Si compone di tre parti: la prima è la
ricostruzione della vita di Karski, sulla base sia delle sue memorie, – apparse
nel 1944 negli USA, Courier from Poland: The Story of a Secret State, sia
delle biografie di E. Th. Wood e St. M. Jankowski; la seconda è una relazione
assai toccante della sua intervista nel film Shoah. La terza è più
originale: si concentra infatti proprio sull’aspetto più trascurato da Lanzmann:
la mancata reazione degli occidentali e il dolore di Karski.
Kozielewski-Karski diventa un personaggio letterario, entriamo nella sua psiche,
dentro le sue emozioni. Haenel lo fa senza aver avuto la possibilità di
conoscerlo personalmente o di consultare altre fonti in polacco: testimonianze
di amici, documentari su di lui9 o su Artur Szmul Zygielbojm, il
dirigente del Bund che Karski incontrò a Londra10. Ma è stato
certamente questo alone oscuro a renderlo più affascinante ai suoi occhi...
Lo scrittore francese non ci presenta tanto le rocambolesche missioni
dell’eroico corriere della resistenza polacca, torturato dai nazisti, quanto una
figura appartenente al mito, un messaggero che nessuno ha voluto ascoltare.
Messaggero che si oppone alla logica perversa dell’opportunità politica e che
descrive con una consapevolezza quasi nichilistica il totale fallimento delle
proprie attese.
L’abbandono e la passività degli Alleati sono per Haenel la ferita principale
dell’emissario dell’A.K.: «capita che i messaggeri, a forza di cercare chi sarà
in grado di ascoltare il loro messaggio, si perdano e approdino a contrade
sconosciute» – scrive a p. 139. Così fa dire a Karski che la Polonia, paese «mal
amato, bistrattato», e i polacchi, «martiri e santi», sono quasi
trascendentalmente votati al ruolo di «dissidenti» nel mondo. Haenel ha orrore
degli opportunismi esibiti dalle cancellerie occidentali prima, durante e dopo
la seconda guerra mondiale, di cui Roosevelt - lo stesso che metterà a tacere le
informazioni sulla responsabilità sovietica dell’eccidio di Katyń - è la
metonimica raffigurazione. In questo lo scrittore francese non è isolato: nel
romanzo storico Les sentinelles, apparso nel 2009 e dedicato in parte
anch’esso a Karski, il suo conterraneo Bruno Tessarech, ha denunciato in maniera
non dissimile il cinismo della conferenza di Evian del luglio 1938 sui rifugiati
ebrei, di cui Roosevelt era uno dei protagonisti.
Il testimone inascoltato denuncia le spartizioni del trattato di Yalta,
ordito da un «trio di avvoltoi». Il Karski di Haenel si libera finalmente del
segreto che ha censurato per decenni: nella divisione del mondo dopo il 1945 gli
Alleati non si sono dimostrati dei vincitori, ma solo dei complici del nazismo,
colpevoli dell’abbandono al loro destino di ebrei e polacchi.
«Tutti sanno che una parte del mondo massacra l’altra eppure è impossibile farlo
intendere»11 – dice Karski nel suo tenebroso monologo. Haenel
immagina che all’inizio degli anni Novanta egli torni febbrilmente agli anni
della guerra: condannato a vivere in una lattiginosa ed «eterna notte bianca», è
consapevole di essere ormai un personaggio kafkiano. Kafkiana è la tragedia del
messaggero impossibilitato a trasmettere il suo messaggio, kafkiano per Haenel è
perfino il suo nome di battaglia, dalle stesse iniziali di Josef K.
Karski è sospeso tra l’angelico e il grottesco: è un uomo fuori le righe, che
ama riflettere dentro una vasca da bagno foderata di coperte e cuscini, e che
viene visitato dai fantasmi del suo passato: i torturatori della Gestapo, le
«voci dei morti» del lager e i pasciuti e indifferenti potenti della terra.
Particolarmente dolorosa e frustrante è la rievocazione del suo incontro con
Roosevelt, caricaturalmente raffigurato tronfio e ignavo. In questo modo
l’autore pone l’accento sulla responsabilità degli Alleati, la cui strategia
militare, nonostante una pubblica dichiarazione congiunta del dicembre 1942, non
previde mai un attacco alle strutture dello sterminio.
Naturalmente tutto questo non è piaciuto né a chi aveva conosciuto bene Karski,
né a Lanzmann, né a noti storici francesi della Shoah, quali Annette Wiewiorka e
Jean-Charles Szurek. Un altro storico, Jean-Louis Panné - editor delle memorie
di Karski in Francia - ha drasticamente contestato Haenel nel suo libro Jan
Karski le “roman” et l’histoire (2010), sostenendo che le sue accuse agli
Alleati sono infondate: inoltre Haenel avrebbe creato un personaggio
assolutamente immaginario, prestandogli come un ventriloquo la propria voce12.
È tuttavia paradossale che Panné non abbia ricordato ai suoi lettori che le
accuse di Haenel ricalcano quelle di noti storici della Shoah, quali Walter
Laquer o David D. S. Wyman13.
L’autore del Testimone inascoltato si è difeso sostenendo di non aver
tanto puntato a una ricostruzione storica, quanto a una personale rivisitazione
del personaggio Karski e del suo paese, entrambi traditi dagli occidentali. E di
aver messo in scena il dramma sia di un uomo che si sente responsabile per
qualcosa che non ha commesso, sia di una Polonia – paese più – il paese più
dimenticato e abbandonato dal mondo - assalita alle spalle dalla Germania di
Hitler e dall’URSS di Stalin.
Mentre in Francia Il testimone inascoltato ha suscitato anche molti
entusiasmi, in Polonia è stato criticato, per alcune sue inesattezze
biografico-storiche, per la drastica accusa agli Alleati attribuita a Karski e
per la dichiarazione del fallimento della sua missione (mentre gli storici della
Shoah, biografi e amici – tra i quali Eli Wiesel – sono di altro parere). La
cosa mi appare paradossale, perché Haenel ha scritto un testo in cui la storia
sconfina nel fantastico e perché ha avuto l’innegabile merito di contribuire a
far conoscere a un più vasto pubblico la figura dimenticata dell’eroico
emissario dell’A. K. (a differenza che in Francia, dove ha avuto due edizioni,
in Italia, il suo Story of a secret State [1944] è rimasto ancora
inedito, e solo tra breve - forse anche grazie al recente scalpore – apparirà in
traduzione italiana presso Adelphi). Haenel è inoltre è uno dei rari occidentali
che assolve i polacchi dalla tremenda accusa di «aiutanti della morte», accusa
che spesso viene a loro associata in maniera automatica e stereotipata (si pensi
che proprio durante il conferimento postumo a Karski del Medal of Freedom
il 29 maggio 2012, il presidente Obama ha chiamato i lager nazisti «campi di
concentramento polacchi»).
Privo di ogni nazionalismo xenofobo e critico acceso dell’antisemitismo polacco,
il «Giusto tra le nazioni» Karski rappresenta quella parte della società
tollerante e aperta verso le minoranze etniche che in Polonia cercò di opporsi
allo sterminio e che purtroppo è in larga parte ancora ignorata in patria e
all’estero. La sua autodefinizione di «cristiano ebreo, cattolico praticante»14,
cui si fa cenno nel libro di Haenel, riecheggia quella di «Ebreo del Nuovo
Testamento», formulata durante la guerra dal poeta Czesław Miłosz e contenuta
nella poesia Un povero cristiano guarda il ghetto (1943).
Molte altre storie potrebbero essere narrate accanto alla sua: ad es. quella di
Henryk Sławik (1894-1944) il militante del Partito Socialista polacco rifugiato
in Ungheria, che si prodigò aiutando gli esuli ebrei e fondando un orfanotrofio
per i loro bambini, e che per questo fu torturato e morì a Mauthausen. O di
Irena Sendler (1910-2008), che fece uscire dal ghetto circa circa 2500 bambini
ebrei e che fu segnata per sempre dalle torture della Gestapo.
Nel ricercare le storie dimenticate della guerra sarebbe tuttavia fuorviante
servirsi di una divisione tra buoni progressisti di sinistra e cattivi
nazionalisti di destra. Nell’A.K. – emanazione interna del Governo polacco in
esilio – erano rappresentate le più varie forze politiche presenti nel
parlamento polacco, da quelle governative, legate all’antisemita Sanacja,
al Partito Socialista. Karski era un emissario segreto dell’Ufficio di
Propaganda e di Informazione e membro del Front Odrodzenia Polski
(F.O.P., Fronte di Rinascita della Polonia), creato nel 1941 dalla scrittrice
dell’Azione Cattolica Zofia Kossak, cui era molto vicino. Il F.O.P aveva al suo
interno un nucleo ristretto di 180 membri, Żegota, che organizzava azioni
di aiuto agli ebrei (anche Irena Sendler e Władysław Bartoszewski, con cui
Lanzmann non ha voluto parlare, vi appartenevano)15. Simpatizzante
delle formazioni di destra antisemite negli anni Trenta, protagonista della
Resistenza dopo lo scoppio della guerra, la Kossak fu attiva nell’aiutare e nel
chiedere di aiutare gli ebrei. Per questo venne arrestata, torturata e internata
ad Auschwitz nell’ottobre 1943 ed è stata riconosciuta dallo Yad Vashem una dei
Giusti tra le nazioni.
Insieme ad alcuni settori dell’ A.K. , il F.O.P. fu l’organizzazione che più si
pose il compito di informare il mondo dello sterminio degli ebrei (tra le prime
denunce ricordiamo quelle lette da Thomas Mann nel 1942 alla BBC e confluite
nella pubblicazione Terror in Europe: the Fate of the Jews, cui partecipò
anonimamente anche Karski). Anche se non privo di riferimenti antisemiti,
l’appello di Zofia Kossak Protest nel 1942, trasmesso al Consiglio
Nazionale a Londra, fu il primo a invitare pubblicamente i polacchi ad aiutare
gli ebrei16.
Nel libro di Haenel non si troveranno informazioni su questo né sulla città
natale di Karski, Łódź – da cui proviene anche Jerzy Kosiński – in cui viveva il
31,7% di ebrei, contro il 59% di polacchi e l’ 8,9% di tedeschi – e dove
l’accettazione della diversità (lo stesso Karski era vissuto in una casa in cui
la maggioranza dei vicini era ebrea) faceva parte dello spirito del luogo. Né la
storia del fratello, Marian Kozielewski, che fu il primo comandante della
Polizia Blu, istituita dagli occupanti nazisti, e al tempo stesso agente al
servizio del Governo di Londra, fu detenuto ad Auschwitz e che, dopo essersi
traferito negli U.S.A., si suicidò nel 1964. O di quella del suo matrimonio nel
1965 con l’affascinante ballerina ebrea-polacca Pola Nireńska (1910-1992), che
aveva vista danzare nel 1938 e conosciuta solo nel 1954. Una storia d’amore, che
per molti versi sarebbe potuta uscire dalla penna di Isaac Bashevs Singer: lei
aveva avuto l’intera famiglia sterminata dai nazisti, lui la spinse a
convertirsi al cattolicesimo, tra di loro parlavano solo un precario inglese,
perché Pola, che aveva perso la famiglia anche a causa delle denunce di
collaborazionisti, si rifiutava di parlare il polacco. Poi anche lei si suicidò,
gettandosi dalla finestra...
Haenel ci racconta un’altra storia, provocatoria e fantastica. La innesta su
alcune dichiarazioni fatte dallo stesso Karski negli anni Ottanta e Novanta: gli
ebrei sono stati abbandonati dai governi, dalla Chiesa, dalle istituzioni, da
«coloro che avevano un potere fisico o spirituale»17. Non ci parla,
non può parlarci della Polonia durante l’occupazione. Interpretando in chiave
nichilistica le affermazioni di Karski, esce nei territori del mito e della
visionarietà . La rivisitazione fantastica della Shoah, sempre più plausibile per
le generazioni che non l’hanno vissuta, era stata già praticata da David
Grossman, che in Vedi alla Voce amore aveva immaginato che Bruno Schulz
si fosse reincarnato in un salmone, aggregandosi a un branco di suoi simili nel
mar Baltico18, senza che per questo nessuno gridasse particolarmente
allo scandalo.
Haenel si muove in maniera simile: oltre che Kafka, ha letto certamente lo
stesso Schulz, maestro nel trasformare in mito grottesco la realtà . Gli storici
che contestano Il testimone inascoltato non prendono mai in considerazione la
forma letteraria con cui il personaggio Karski si esprime: un monologo
interiore, dall’impianto teatrale, ai confini tra sogno e delirio, ben lontano
da ogni ricostruzione realistica. Da questo punto di vista (ma non solo!) la
narrazione di Il testimone inascoltato è coerente, compatta, ben
condotta.
E infine – come è stato notato anche da altri recensori – Il testimone
inascoltato dovrebbe essere letto per la descrizione che ci lascia del
Cavaliere polacco di Rembrandt19, quadro un tempo appartenuto
all’ultimo re di Polonia, Stanislao Augusto, e oggi alla Frick collection di New
York.
Ricordandoci però che anche in questo caso la storia viene trasfigurata. In
realtà il bellissimo ritratto del giovane polacco a cavallo rappresenta un
Lisowczyk, cioè un appartenente alle truppe di mercenari tristemente celebri
per le loro scorribande, razzie e violenze ai danni delle popolazioni civili del
Centro Europa durante la guerra dei Trent’anni. Per Haenel diviene un simbolo
dell’assoluta solitudine dei polacchi, di Karski e di sua moglie Pola.
novembre 2012-gennaio 2013
.
note
1. Y. Haenel, Il
testimone inascoltato, Guanda, Parma 2010.
2. C. Lanzmann,
Shoah, Torino, Einaudi, 2007, pp. 176-190.
3. Cfr. l’intervista di Claude Lanzmann ad Anna Bikont dell’ottobre 1997,
leggibile in web> http://
niniwa2.cba.pl/BIKONT.HTM Gazeta Wyborcza, in cui il regista francese ha
giustificato la sua scelta di tagliare completamente la parte relativa
all’incontro con Roosevelt di Karski perché più «aneddotica» e priva della
tensione presente invece del suo racconto sul ghetto di Varsavia.
4. Cfr. ibid. e N. Davies, The Survivor’s Voice, «The New York Review of Books»,
November 20, 1986.
5. Y. Haenel, Il testimone inascoltato, cit., p. 157.
6. E. Kuryluk, Memory and Responsibility: Claude Lanzmann’s Shoah, «New
Criterion» 4, n. 3 (November 1985), pp. 14–20 ; T. G. Ash, The Life od Death,
«The New York Review of Books», December 19, 1985; I. Shahak, The Life of
Death’: An Exchange. «The New York Review of Books», January 29, 1987 (entrambi
i testi sono apparsi anche sul n. monografico dedicato alla questione ebraica
dalla rivista polacca del dissenso, edita a Londra, «Aneks» (1986, n. 41-42, pp.
36-66).
7. G. Herling-Grudziński, Dziennik pisany nocą 1984-1988, Warszawa,
Czytelnik, 1996 p. 227-228. La traduzione è mia, perché l’unica edizione
italiana (Diario scritto di notte, Milano, Feltrinelli, 1992) è parziale.
8. J. Karski, Szoa (Zagłada), «Kultura», novembre 1985, n. 11, p.
121 (versione parziale francese: «Esprit», febbraio, 1986, pp 112-114):
pubblichiamo la versione integrale nel testo in calce a questo articolo.
9. Cfr. Daremna misja [Una missione vana] di Janusz Weychert (1993) e
Człowiek, który chciał zatrzymać holocaust [L’uomo che voleva fermare
l’olocausto] di Jan Grzyb (2005).
10. Mur (Il muro) di Mieczysława Wazacz (2001).
11. Y. Haenel, Il testimone inascoltato, cit., p. 103.
12. J.L. Panné, Jan Karski, le ‘roman’ et l’histoire, Paris, Pascal Galodé,
2010, p. 172 e passim.
13. W. Laqueur, The Terrible Secret: the Suppression of the Truth about Hitler’s
“Final Solution”, Boston-Toronto, Lit-tle, Brown, 1980; D. S. Wyman,
The
Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, New York, Pantheon Books,
1984.
14. J. Karski, Les dirigeants du monde libre connaissaient la vérité sur
l’extermination en 1943, «Les cahiers historiques», 1982, in J.L. Panné, Jan
Karski...cit., p. 119.
15. Per una bibliografia su Żegota in italiano e francese cfr. W. Bartoszewski,
Le sang versé nous unit (sur l’histoire de l’aide aux juifs en Pologne
pendant l’occupation), Varsovie, Interpress, 1970, Teresa Prekerowa,
Żegota: commission d’aide aux Juifs, Monaco, Éditions du Rocher, 1999, C.
Tonini, Il tempo dell’odio e il tempo della cura, Torino, Silvio Zamorani
editore, 2005. Karski incontrò due volte Bartoszewski prima di partire per
l’Inghilterra nel 1942.
16. Particolari sulla rocambolesca diffusione di notizie dalla Polonia, cui si
inserisce anche la missione di Karski, si possono leggere nei bei libri di Carla
Tonini, Operazione Madagascar: la questione ebraica in Polonia, 1918-1968,
Bologna, Clueb, 1999 e il già citato Il tempo dell’odio e il tempo della cura.
17. Si veda il testo di Karski del 1985, qui tradotto e la sua successiva
intervista del 1995 a Hanna Rosen, pubblicata in J.L. Panné, Jan Karski...,
cit., p.
126.
18. Sulla fantastica rivisitazione della figura di Bruno Schulz nella narrativa,
mi permetto di rimandare al mio saggio Bruno Schulz in Italia, «Rivista di
letterature moderne e comparate», v. 56, n. 3, pp 297-316.
19. Y. Haenel, Il testimone inascoltato, cit., p. 131 e 141.
* * *
2.
Pubblichiamo la traduzione – finora inedita in Italia – del testo di Jan
Karski su Shoah di Claude Lanzmann, apparsa nel novembre 1985 sulla rivista
dell’emigrazione polacca «Kultura» (Parigi), di cui Karski era un collboratore.
La lettera venne pubblicata in contemporanea all’uscita in Occidente del film.
Jan Karski, Shoah (Sterminio)20
A metà ottobre di quest’anno [1985 n.d. G.T.] sono stato invitato ad assistere a
una proiezione riservata del film Shoah, assieme ad alcune altre persone:
Monsignor George Higgins, professore di Teologia cattolica, Richard Davies, ex
ambasciatore degli Stati Uniti a Varsavia, sincero amico dei polacchi, e Abraham
Bumberg, apprezzato scrittore, anche lui simpatizzante per la Polonia.
Il film dura oltre nove ore. Non vi sono attori, ma solo interviste con le
vittime dell’ inferno dell’Olocausto, con i suoi diretti carnefici e con i
testimoni oculari. Vengono mostrati anche documenti originali e rapporti
tedeschi. Alcune interviste (con i tedeschi) sono state filmate di nascosto. Si
vedono inoltre i lager, le camere a gas, i villaggi e le cittadine che si
trovavano nei pressi dei campi, sia come apparivano durante la guerra, sia nel
loro stato attuale.
Il regista, Claude Lanzmann, è francese. Ha girato il suo film in Polonia,
Cecoslovacchia, Grecia, Olanda, Israele, Svizzera, Romania e in America. Per
realizzarlo ha impiegato quasi quindici anni della sua vita.
Shoah è certamente il più grande film sulla tragedia degli ebrei che sia
stato girato dopo la seconda guerra mondiale. Nessuno è riuscito a rappresentare
lo sterminio degli ebrei durante la guerra con una simile profondità e
brutalità , con così scarsa pietà verso lo spettatore, cui si gela il sangue
nelle vene. Ma grazie sua alla sua costruzione, che collega tra loro eventi,
persone, il tempo passato e la natura, riesce a emanare al tempo stesso una
magica poesia. La rasserenante bellezza degli alberi cresciuti sui luoghi dei
supplizi, l’immacolato specchio d’acqua che cela le ceneri degli ebrei arsi
vivi, i prati e i filari che nascondono i segreti atroci dei campi di
concentramento, una processione che esce dalla chiesa dove erano stati rinchiusi
gli ebrei deportati, le toccanti preghiere dei sopravvissuti in una sinagoga,
un’anziana donna che si è salvata e che canta un canzone “di quei tempi”...Tutto
ciò non solo sconvolge e atterrisce, ma anche ammalia per la sua bellezza. È
disumanamente atroce e indicibilmente innocente. Chi ha visto il film non potrà
mai dimenticarlo.
Informato su Shoah, durante un’udienza pontificia a ex membri della
resistenza francese e belga, il papa l’ha voluta lodare per il suo significato
morale e la coscienziosità del suo autore.
Il film narra le indicibili sofferenze e lo sterminio di ebrei inermi, tra i
quali oltre tre milioni di cittadini polacchi di origine o religione ebraica.
Nulla più. Non descrive i retroscena degli anni di guerra, la conquista da parte
del III Reich di quasi l’intera Europa e le crudeltà nei confronti dei popoli
soggiogati. Non parla delle sofferenze delle popolazioni non ebraiche in
Polonia, Russia, Grecia o Serbia. La sua ferrea costruzione non lo permette.
Lo scopo di Lanzmann è di rendere consapevoli che lo sterminio degli ebrei è
stato un fenomeno unico, imparagonabile a nessun altro. In questo ha
indubbiamente ragione. Il voler paragonare lo sterminio degli ebrei con le
sofferenze delle popolazioni civili non ebraiche – anche se comprensibile dal
punto di vista emotivo – è un errore. Naturalmente tutti i popoli hanno
riportato perdite maggiori o minori, ma le perdite tra gli ebrei sono state
totali. Questo Lanzmann non lo dimentica neanche per un istante: lo capisce bene
chiunque veda il suo film.
Una simile drastica delimitazione tematica crea l’impressione che gli ebrei
siano stati abbandonati dall’intera umanità e che l’intera umanità sia rimasta
insensibile alla loro sorte. Si tratta invece di un’impressione inadeguata,
oltretutto deprimente, in particolare per le generazioni di ebrei nate dopo la
guerra e per quelle venture. Gli ebrei sono stati abbandonati dai governi, da
coloro che avevano un potere fisico o spirituale, non dall’umanità . In Europa
alcune centinaia di migliaia di ebrei sono stati salvati, in Polonia alcune
decine di migliaia. In Polonia chi nascondeva un ebreo rischiava la pena di
morte insieme alla propria famiglia. Anche in Europa occidentale – anche se le
pene non erano altrettanto dure – il nascondere o l’aiutare un ebreo esponeva a
rischi estremi. Ciò nonostante centinaia di migliaia di contadini, operai,
intellettuali, sacerdoti, suore hanno aiutato gli ebrei in ogni paese d’Europa,
spesso mettendo a repentaglio la propria vita e quella delle persone loro
vicine. Quanti tra di loro siano periti, lo sa solo Iddio.
In Polonia era sorta un’organizzazione clandestina il cui compito precipuo era
quello di aiutare e nascondere gli ebrei. Il suo capo, Władysław Bartoszewski,
vive a Varsavia. A Łódź vive invece l’eroico capo dell’insurrezione del ghetto
di Varsavia, Marek Edelman, mentre altri abitano in altri paesi: nel film
avrebbero dovuto essere almeno ricordati. Indipendentemente dalla sua
costruzione, mi pare che sarebbe stato opportuno rendere consapevoli gli
spettatori, in particolare le giovani generazioni di ebrei e non ebrei, che
persone del genere sono esistite. Gli ebrei hanno bisogno di saperlo per non
perdere fede nell’umanità e nel proprio posto tra di essa. I non ebrei per poter
comprendere a cosa possano condurre la mancanza di tolleranza, il razzismo,
l’antisemitismo e l’odio e cosa invece possa fare l’amore per il prossimo.
Questo è ben più importante di qualsivoglia costruzione. Soprattutto se si
tratta di un film tanto grande e potente da influenzare lo spettatore.
La tecnica di Shoah si fonda su interviste, programmate o casuali, con
persone sconosciute a Lanzmann. Tra questi alcuni polacchi, abitanti dei paesi o
di città vicine ai campi di concentramento. Alcune loro dichiarazioni
testimoniano della loro compassione e bontà di cuore, altre – la maggioranza –
sono invece sconvolgenti.
Ecco delle donne di piccole cittadine, che, alla domanda di cosa pensino dello
sterminio degli ebrei, rispondono che dopo la loro vita è migliorata: sono
andate ad abitare nelle case che erano appartenute agli ebrei, più lussuose di
quelle in cui stavano prima della guerra. Una donna di un altro gruppo, senza
essere stata interpellata, fa invece la predica a Lanzmann: quello che è
capitato agli ebrei è stata una punizione divina per aver mandato a morte
Cristo. Siamo nei pressi di una chiesa davanti a cui sfila una processione:
evidentemente i precetti del Concilio Vaticano II – che hanno bollato come
peccato un simile atteggiamento – non sono mai giunti fino a quella parrocchia.
Ed ecco un intellettuale di città , che di sua iniziativa esce dalla folla per
dichiarare davanti alla cinepresa e a Lanzmann quello che avrebbe visto un suo
amico: un rabbino avrebbe spiegato agli ebrei destinati alla deportazione che
quella loro sorte era la conseguenza di ciò che avevano fatto i loro antichi
padri: mandando a morire Cristo avevano fatto ricadere il suo sangue sui propri
discendenti. L’intellettuale però non spiega che gli ebrei e il rabbino erano
circondati da SS armate di pistole e manganelli. Viene poi chiesto a un
contadino se non gli dispiaccia che non ci siano più ebrei e lui con un
sorrisetto risponde: un po’ sì un po’ no, quando era giovane gli piacevano le
ebree, ora che è vecchio la cosa gli è indifferente. Un altro polacco nei pressi
di Treblinka racconta di aver visto un trasporto di ebrei dall’Europa
occidentale: alla stazione finale prima di Treblinka arrivavano
carrozze-pullman, dentro c’erano corpulenti ebrei e ebree pettinate a tutto
punto. Sui tavolini delle carrozze c’erano “flaconi di profumi”, dice di aver
visto valige piene di ori. Alla stazione uno degli ebrei scese dal treno e andò
al buffet della stazione a comprarsi qualcosa, le porte del vagone non erano
controllate, si poteva uscire a piacimento...A due passi da Treblinka...Mio Dio!
Nel film c’è anche un’intervista con me. Le circostanze in cui è stata concepita
fanno intuire il metodo di Lanzmann e le delimitazioni da lui previste per
Shoah. Lanzmann mi venne a trovare nel 1977, portandomi materiale che lo
riguardava: le sue qualifiche, i suoi film precedenti, le recensioni positive
ecc. Mi parlò del suo progetto: aveva sentito parlare e aveva letto di me.
Sosteneva che era mio dovere rilasciargli un’intervista. All’inizio io mi
rifiutai, mi ero lasciato alle spalle il mio passato di guerra e per oltre
trent’anni non vi ero più tornato. Alla fine accettai, chiedendo che mi ponesse
delle domande per iscritto, volevo potermi preparare. Lanzmann non fu d’accordo:
niente risposte già pronte, mi avrebbe chiesto solo quello che concerneva il suo
film, io dovevo raccontare ciò che ricordavo. Accettai, a condizione che non mi
coinvolgesse in alcun dibattito, valutazione o conclusione di carattere
politico: lui disse che non rientrava affatto nelle sue intenzioni.
L’intervista ebbe luogo nel 1978 a casa mia: fu girata in due giorni, in tutto
circa otto ore. Lanzmann è un uomo difficile, passionale, totalmente votato al
proprio lavoro, intransigente nell’indagare e stabilire i fatti. Io ebbi più
volte un cedimento nervoso, a lui capitò una volta. Mia moglie, non potendo
sopportare tutto ciò, dovette uscire di casa.
Di otto ore di riprese della mia intervista, sullo schermo ho visto circa
quaranta minuti, in cui venivano descritte le sofferenze degli ebrei nel ghetto
di Varsavia, le proteste e disperate richieste di aiuto dei dirigenti ebrei
clandestini ai governi occidentali. Il tempo riservato alla mia relazione e la
costruzione di Shoah hanno costretto Lanzmann a omettere la parte
dell’intervista su quella mia missione ebraica della fine 1942 che a mio parere
era la più importante. Altri avevano già parlato – per oltre sette ore – delle
sofferenze degli ebrei, molti lo avevano certamente fatto meglio di me. Per me
il fulcro della mia intervista era il fatto di essere passato in Occidente,
informando sulla tragedia e le richieste degli ebrei quattro membri – con Eden
in testa – del Gabinetto di Guerra britannico, il presidente Roosevelt con tre
componenti chiave del governo americano, il nunzio apostolico a Washington, dei
dirigenti ebraico-americani e importanti scrittori e commentatori politici.
Senza dubbio nessun’altro oltre a me poteva parlare di questo nel film,
mostrando come i governi Alleati – gli unici che avrebbero potuto aiutare gli
ebrei – li avevano invece abbandonati al loro destino.
Se in Shoah si fosse assemblato questo materiale e si fosse fornita
un’informazione generale sui tentativi di venire in aiuto agli ebrei, si sarebbe
rappresentato il loro sterminio in una prospettiva storica certamente più
adeguata. Sono stati i capi delle nazioni e i governi più potenti a deciderlo o
a prendervi direttamente parte, oppure a rimanere indifferenti di fronte a esso.
La gente, la gente normale, migliaia di persone, è stata solidale con gli ebrei
o li ha aiutati.
Il potente talento, la potente volontà e la crudele verità di Shoah e
questa sua stessa autodelimitazione rendono necessario un altro film –
altrettanto potente, altrettanto vero – che possa rappresentare quell’altra
realtà dello sterminio. I governi, le organizzazioni sociali, le chiese, la
gente di talento e di cuore dovrebbero individuare le forme di un impegno comune
per poter produrre un’opera del genere. Non per smentire ciò che ha mostrato
Shoah, ma per integrarlo. Le terribili sofferenze della seconda guerra
mondiale pesano come un anatema sull’umanità .
JAN KARSKI, Georgetown University
(traduzione di Giovanna Tomassucci)
note
20. «Kultura», novembre
1985, n. 11, pp. 121- 124.
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