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A lezione da Maggie. In quattro tempi
Luca Lenzini
(Uno.) Nel suo libro di memorie Hitch 22 (ed. it. Torino, Einaudi, 2012) Christopher Hitchens, nato nel ’49, racconta un episodio avvenuto alla metà degli anni ’70. Attivista di sinistra, marxista eterodosso e brillante esponente della gauche oxoniense, Hitch si trova alla Camera dei Lord dove viene presentato il libro di un Pari e dove sopraggiunge, da poco eletta leader del Partito Conservatore, Margaret Thatcher. «Mi sentivo refrattario alla signora Thatcher per molti aspetti, - scrive Hitchens - dal momento che con tutto il suo irrefrenabile sostegno al “libero mercato” sembrava essere una convinta alleata del regime colonialista bianco, autoritario e protezionista della Rhodesia.» (p. 224) Avviene così che proprio sul tema della Rhodesia si accende una discussione tra i due: Hitchens è convinto delle proprie ragioni, ma la futura Iron Lady «continuò a difendere il suo sbaglio con un’energia talmente implacabile che alla fine le diedi partita vinta e accennai anche un inchino per sottolineare la mia rinuncia.» E qui viene il bello, perché la Thatcher se ne esce a questo punto con una sorprendente richiesta: «No, - disse lei – si inchini di più!»; e quando l’interlocutore obbedisce, tuttavia essa ancora non si accontenta: «No, no […] Molto di più!». Questo il finale dell’incontro:
Aggirandomi fino ad
arrivare alle mie spalle, scoprì le sue batterie e mi percosse sul fondoschiena
con il giornale parlamentare che aveva arrotolato a forma di cilindro dietro di
sé. Ripresi la posizione con una certa goffaggine. Mentre si allontanava, si
volse per gettarmi un’occhiata sopra la spalla e fece un quasi impercettibile
ancheggiamento mentre pronunciava le parole: «Birichino!» (p. 224)
Hitchens accenna poi a come la serata a Westminster anticipasse, quasi in una
micro-allegoria, gli imminenti successi della Thatcher, che di lì a poco
«intimidì tutti i maschi che avevano avuto in precedenza posizioni di leadership
nel partito sostituendoli con strumenti flessibili» (ibidem); e aggiunge
una considerazione che per l’esser in chiusa di capitolo, preludendo
ellitticamente a futuri sviluppi, acquista un peso più generale: «… E il peggio
del “thatcherismo”, mentre cominciavo a scoprirlo per gradi, era un rimescolio
che sotto traccia mi pungolava i visceri: la molesta, ma incancellabile
sensazione che su qualche tema essenziale lei avesse ragione» (ibid.)
Libro godibile e convincente nella prima parte, con il ritratto della famiglia e
degli ambienti della formazione dell’autore, Hitch 22 nel prosieguo perde
smalto e scivola progressivamente sul piano del giornalismo predicatorio, che
conduce il lettore, attraverso la fin de siècle e l’inizio del secondo
Millennio (visti questi in chiave prevalente, se non esclusiva, di
“geopolitica”), sino alle soglie della prematura fine di Hitchens, già
gravemente malato al momento in cui ne intraprese la scrittura (scomparve nel
dicembre 2011, a sessantadue anni). Con ciò, tutto l’insieme è a suo modo
esemplare, e non solo e non tanto per i contenuti manifesti e le opinioni del
giornalista, ma in primo luogo per la parabola che espone, e per la galleria di
ritratti che ne trama lo svolgimento, in cui il brio estroverso, da esperto
affabulatore, e l’ampiezza di riferimenti (di ordine letterario, storico e
ideologico) di Hitchens innescano dialettiche che trascendono il piano
soggettivo (le sue stesse intenzioni e premesse), sorvolando il crinale epocale
nei suoi luoghi più esposti e controversi. Quanto ai temi “essenziali” su cui la
Thatcher aveva (o avrebbe avuto) ragione, invece, essi restano indefiniti:
nonostante l’ampio spazio dedicato in Hitch 22 ai temi politici, non è
detto in modo esplicito quali essi siano, anche se dalla svolta del cambio di
cittadinanza, il “salto del fosso” con cui Hitchens diventa americano (e in
genere osserva il mondo virare nel settembre 2001), possiamo intuire quanto
basta. Il cuore del libro è comunque negli anni di Yvonne e del Comandante
(la madre ed il padre di Hitchens), e poi nel periodo di Oxford: a quegli anni
va ricondotta anche, a veder bene, la genesi della «sensazione» avvertita dopo
la sculacciata di Thatcher. Per chi è passato da quelle pagine, infatti, non è
difficile intendere come l’episodio s’inserisca in un contrappunto di ordine sia
psicologico che sociologico che è parte integrante, e forse elettiva del suo
significato: se la generazione del ’68 può specchiarsi nella vicenda del figlio
ribelle di una madre frustrata, tenera e discretamente trasgressiva, che muore
suicida insieme all’amante in un hotel di Atene, e di un padre che incarna
ethos e valori della Royal Navy, la Signora di Ferro interviene a
ristabilire l’ordine infranto, assumendo il ruolo dell’educatrice inflessibile –
era prassi rituale nelle scuole del Regno bersagliare di nerbate il posteriore
degli allievi, un tempo - che non fa sconti e agisce sui sensi di colpa dei
“birichini”.
(Due.) Lasciamo Westminster e Hitch, ora, ma restiamo a Londra, dove
dalla fine degli anni ’30, ovvero dai tempi dell’Anschluss, abita fino al
trasferimento a Zurigo nell’88 Elias Canetti. Insediatasi Thatcher al governo,
il vecchio intellettuale – nato nel 1905, Premio Nobel nel 1981 – osserva con
sgomento e sarcasmo quanto stava avvenendo nella società inglese. Così commenta,
retrospettivamente, in Party sotto le bombe (ed. it. Milano, Adelphi,
2005):
[…] una setta di
arrampicatori in abito gessato – che si attribuivano il titolo di busy
executives e cercavano di depredare la madre patria di ciò che un tempo
quest’ultima aveva carpito a tutte le contrade del globo – si diffuse nel Paese.
L’Inghilterra decise di saccheggiare se stessa e impiegò a tale scopo un
esercito di yuppies. Come ricompensa paradisiaca, ma nell’aldiqua, venne
promessa una casa a tutti. La gente si mise di buzzo buono e, con foga davvero
poco inglese, ottenne qualche successo. Lo Stato dichiarò orgogliosamente che
non si sarebbe più fatto carico di nulla: ciascuno si sarebbe preso cura di sé,
e chi mai, d’altronde, si metterebbe a spazzare la strada altrui! […] In
brevissimo tempo la nuova parola d’ordine fu: Io per me, e gli altri
vadano al diavolo. Si scoprì allora – e con stupore, devo ammetterlo – che
l’egoismo, non meno dell’altruismo, si presta a diventare oggetto di predica. Al
ruolo di sommo apostolo nel Paese assurse una donna, la quale opponeva
regolarmente il proprio rifiuto a qualsiasi iniziativa destinata agli altri; per
gli altri tutto era troppo dispendioso, per se stessa nulla lo era abbastanza.
Acqua, aria, luce vennero messe nelle mani degli uomini d’affari – e lì, a
seconda dei casi, prosperarono o fallirono. Il più delle volte fallirono. […]
Grazie a lei molte città andarono in malora. La qualità delle scuole decadde
affinché i ragazzi imparassero per tempo a contare solo su se stessi e
diventassero spietati. Le proposte che altri personaggi pubblici avevano
avanzato a malincuore – giacché la parte migliore del cuore qualcosa da dire ce
l’aveva ancora – furono subito tradotte in realtà senza tanti giri di parole.
Poiché ogni uomo inclina alla grettezza, cui rinuncia solo con una certa fatica,
un respiro di sollievo attraversò il popolo inglese, che di colpo si sentì
autorizzato a essere abietto come gli altri popoli, guadagnandoci per giunta
lodi sperticate. (p. 194)
All’autore di Auto da fè e di Massa e potere non mancavano di
certo l’occhio e l’esperienza per riconoscere i momenti che segnano le svolte
della storia e i fenomeni che, in essi, caratterizzano la società. I punti
salienti della “cura” inflitta all’Inghilterra dalla «Governante» (così Canetti
chiama la Thatcher in Party sotto le bombe) sono già contenuti nel breve
appunto: demolizione dell’istituzione scolastica, privatizzazione dei “beni
comuni” («acqua, aria, luce»), smantellamento del Welfare State, darwinismo
sociale. La condanna dell’ideologia che presiede a tutto questo non aveva
bisogno di essere rimarcata, da parte sua, e s’iscrive nel quadro di un
pessimismo di fondo sul comportamento degli uomini; ma proprio per questo, molte
scene che compongono il libro (l’ultimo di Canetti) sugli «anni inglesi»
riescono senz’altro incisive, denunciando con uno «stupore» intriso di amarezza
quel passaggio storico, con le sue ipocrisie e rimozioni, il diffuso cinismo
nonché le tante «conversioni» di amici e conoscenti.
Vi furono amici cari – da
anni ormai persi di vista – che tutto d’un tratto, quando li rincontrai, scoprii
saldi nelle loro nuove convinzioni. Si sentivano l’innocenza in persona perché,
dal momento della loro conversione, era già passato qualche tempo. Avevano fatto
carriera, traendo dal nuovo corso fama e ricchezze, e sembrava loro
perfettamente naturale difendere i privilegi acquisiti. In costoro c’era così
poca simulazione che, di fronte al mio stupore, si mostrarono sgomenti. C’erano
pure signore dalla vena sentimentale che nella vita privata si struggevano per
il denaro e in quella pubblica continuavano a sostenere la Predicatrice
dell’egoismo, anche quando le proporzioni del fallimento erano ormai palesi. (p.
195)
L’atteggiamento di Canetti è ben espresso dal passaggio seguente, dove si
racconta dell’incontro con una amica, storica di professione. Il tentativo di
nobilitare il presente ricorrendo al passato glorioso, da parte di quest’ultima,
non trova altra risposta che un indignato silenzio:
Né mancarono i tentativi di
approccio storico alla nuova situazione. Una storica, alla quale debbo infinita
riconoscenza per ciò che ha contato nella mia vita, una donna dotata di una
vivacità di spirito addirittura francese, appartenente a una delle famiglie
britanniche più ricche di menti feconde e di spiriti inventivi, una buona
conoscitrice di quell’epoca d’oro della storia inglese che fu il XVII secolo,
orgogliosissima della letteratura elisabettiana del periodo precedente, mi stupì
– erano cinque o sei anni che non la vedevo – con il suo entusiasmo per il nuovo
periodo elisabettiano dell’Inghilterra, allora, sotto la Governante. Era
sinceramente convinta: esaltazione e cecità andavano di pari passo. A me mancò
la parola, e per la prima volta in quarantacinque anni, da quando eravamo amici,
ammutolii scuro in volto facendole chiaramente capire che cosa pensassi dei suoi
discorsi deliranti. (p. 196)
(Tre.) In quel periodo (inizio anni ’80), dopo aver insegnato storia
sociale europea a Berkeley per un biennio, Tony Judt – uno tra i maggiori
storici del nostro tempo, nato un anno prima di Hitchens – ritorna a Oxford. In
California alcuni dei suoi studenti, entusiasti delle lezioni su Trotskij e la
rivoluzione russa, poco prima gli avevano chiesto di andare «a parlare degli
errori di Trotskij, e di come evitarli in futuro, al gruppo della quarta
Internazionale a San Francisco» (Novecento. Il secolo degli intellettuali e
della politica, p. 153); ma non essendoci rivoluzioni in agenda, nonostante
gli «interessi culturali immaturi della sinistra dotta post-marxista» (p. 191),
Judt non aderì all’invito, indirizzando ad altro i suoi studi e tornando in
patria. Arrivato in Inghilterra, si trova «improvvisamente di fronte a una
rivoluzione nell’economia politica – promossa dalla destra» (ibidem).
Così scrive Judt di quel momento, che per l’amica di Canetti costituiva il nuovo
rinascimento “elisabettiano”:
Avevo date per scontate
alcune conquiste della sinistra, o meglio della socialdemocrazia. Durante gli
anni ottanta, nella Gran Bretagna di Thatcher, mi resi rapidamente conto della
facilità con cui i miglioramenti del passato potevano essere demoliti e
scardinati. Le grandi conquiste del consenso socialdemocratico alla metà del
ventesimo secolo – la scuola meritocratica, l’istruzione superiore gratuita, i
trasporti pubblici sovvenzionati, un servizio sanitario nazionale funzionante,
il sostegno pubblico alla cultura, e tanto altro – potevano essere tutte
smantellate. La logica del programma di Thatcher, così come veniva presentata,
era impeccabile: la Gran Bretagna, nel declino post-imperiale, non poteva più
sostenere il livello di spesa sociale del periodo precedente. (p. 191)
Istruzione, servizio sanitario, cultura, e «tanto altro»: l’elenco delle
demolizioni abbozzato da Judt suona familiare per il lettore di Party sotto
le bombe ma, non è vero?, anche per quello dei giornali di oggi; almeno per
chi si dà la pena di leggere le “agende”, tanto numerose quanto ripetitive, che
sui media declinano i modi in cui affrontare la crisi economica subentrata a
partire dal primo decennio del secolo, prima negli U.S.A. e poi in Europa e
soprattutto in paesi come Spagna, Grecia, Italia, Portogallo. Non importa che
questi ultimi non abbiano conosciuto la fase “imperiale”, bastano e avanzano i
bilanci in disordine per dettare il ricorso alle ricette di Thatcher. Logica
impeccabile: le conquiste della socialdemocrazia non sono sostenibili in tempi
di crisi, chi potrebbe non capirlo? Così spietata può essere soltanto la verità
(molesta e – direbbe Hitch – incancellabile) che la storia ogni
volta c’insegna. Nel suo Novecento Judt ci dice come la pensasse in
proposito (non era uno che rinunciasse alla battaglia, come risulta anche da
Guasto è il mondo) - ma l’attualità è alle porte, ci chiama: siamo arrivati
all’ultimo tempo.
(Quattro.) Novembre 2011, Londra. Alla Bbc è organizzato un dibattito
sulla crisi italiana. Tra i partecipanti c’è un giornalista italiano, inviato
della Rai già da molti anni in Inghilterra. Non uno qualsiasi: laurea alla
Sapienza di Roma, negli anni caldi; relatore Lucio Colletti; argomento: Etica
ed Economia in Adam Smith.
Tra i partecipanti alla trasmissione l’italiano (Antonio Caprarica) è l’unico a
negare quel che tutti denunciano: il Belpaese è sull’orlo del collasso. Amor di
patria, s’intende: dentro di sé il navigato giornalista, affabile e con
curriculum in regola, sa bene che il declino è innegabile: debito pubblico fuori
controllo, industrie boccheggianti quando non dismesse, disoccupazione
galoppante; tant’è vero che nella stampa europea si vocifera apertamente di una
imminente richiesta di aiuti al Fondo Monetario Internazionale. Ma ecco,
d’improvviso una sensazione di déja vu lo assale: non si tratta forse di
uno scenario già visto? Dal passato riemerge un fantasma, un altro inverno di
molti, molti anni prima. Quello del ’79, quando l’Inghilterra versava in una
situazione analoga a quella dell’Italia della débâcle. A microfoni
spenti, nella sera londinese un pensiero si fa strada in lui, che via via
ripercorre la storia degli anni di Thatcher… – la Governante. Ecco la soluzione,
l’esempio che potrebbe guidare il Belpaese fuori dai suoi interminabili guai: la
possibile salvezza, il nuovo risorgimento. Ma non basta un articolo per
elaborare il parallelismo e dare l’annuncio; ci vuole un libro, un saggio che
traguardi Italia e Inghilterra, oggi e ieri. Il titolo è presto trovato,
colloquiale e diretto: Ci vorrebbe una Thatcher. Un anno dopo, 2012, è in
libreria per i tipi di Sperling & Kupfer.
«Tre magnifici lustri in Inghilterra non hanno fatto di me un monarchico –
chiedo venia, Maestà! –, ma tanto meno avrei immaginato che potessero accendere
la mia ammirazione per una delle donne più detestate della mia remota
giovinezza. A noi ex Sessantottini ancora non sazi di utopia socialista Margaret
Thatcher gettava in faccia, come un guanto di sfida, il suo proclama: “Non
esiste una cosa come la società”.» Così Antonio Caprarica nell’Introduzione
al libro, con successo itinerante tra talk show e Rotary Club. Due
citazioni campeggiano in epigrafe: dal discorso di Maggie alla House of Commons
del 1980 e dalla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. Chi l’avrebbe mai
detto, un Sessantottino folgorato a posteriori da Thatcher? Nulla di
strano, anzi: è proprio questo il modo con cui la storia ci viene incontro ai
nostri giorni, in forma di flash back. Tra la sculacciata di Westminster
e l’illuminazione alla Bbc, un cerchio si chiude: sulle giovinezze di un tempo,
sul socialismo e sul Welfare. Inchiniamoci dunque, è venuto il tempo.
Post scriptum. Per uno di quei misteriosi appuntamenti che il destino sa
dispensare, nell’inverno 2011 si formava in Italia il “governo dei tecnici” e
quasi in contemporanea usciva sugli schermi del mondo il film The Iron Lady,
diretto da Phyllida Lloyd e interpretato nel ruolo di Thatcher da Meryl Streep.
Quando il Ministero del Lavoro fu affidato a Elsa Fornero, vi fu chi scorse in
quest’ultima, forse per una certa sua rigidezza sabauda (oltre che per l’esser
donna), una possibile erede della Governante. Ma fu breve illusione: non era
passata che qualche settimana, che annunciando il «blocco della perequazione
delle pensioni» (4 dicembre 2011) Fornero pianse. Dopo quell’episodio, fu
chiaro a tutti i neoliberisti che qualcosa non andava nel governo Monti,
nonostante si fosse appena conclusa l’era del Piazzista di Arcore. Ed a nulla
valse da parte di Fornero, nell’ottobre 2012, il tentativo di rimettersi almeno
verbalmente in carreggiata, invitando i giovani a non essere «choosy»
(schifiltosi) nella ricerca di un lavoro. La mancanza di spietatezza era ormai
risaputa. Nessuna sculacciatrice ci avrebbe salvato, per il momento.
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[12 febbraio 2013]
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