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Senso e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di Franco Fortini 

Erminia Passannanti 

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“Il lettore intravede un ordine nel testo ma è solo una possibilità, un appello a una umanità che chiede al lettore l’incarnazione reale.” (“Arte e proletariato”, 1951)

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Se è vero che la poesia lirica assolve in primis alla funzione di dare espressione verbale a sentimenti o stati mentali che chiedono con forza e trasporto di esternarsi, tale funzione diventa particolarmente sintomatica quando a rappresentarla è uno scrittore come Franco Fortini che ha dedicato tutta la sua esistenza ed il suo impegno alla comunicazione di valori civili e culturali profondamente compresi e difesi, nella prospettiva mai rinunciata di un rapporto diretto, e quasi intimo, con i suoi interlocutori. Autore di poesie a carattere allegorico, Fortini manifestò nei suoi scritti poetici, come nella saggistica, una forte intenzione dialogica – e tutti convengono su questo aspetto della sua opera - avendo temperamento dialettico, unito ad una vitale inclinazione pedagogica, tanto energica da indurlo costantemente a riflettere e teorizzare sui problemi ed i modi della ricezione del testo letterario: poesia come proposta di scambio, poesia come idea comunicabile oltre i codici e i sottocodici del suo tecnoletto, e proprio in ragione di questo, anche poesia come errore e malinteso, come chiarisce senza mezzi termini il titolo della raccolta del 1959, Poesia ed errore. A proposito del rapporto tra parola, emittente e destinatario, ne L’ospite ingrato (1988), Fortini, presumendo per il poeta un ruolo mediatore simile a quello di un sacerdote, attribuzione dunque idealmente comunicativa, osservava:

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Essere scrittore significa sapere portare al massimo di coerenza questa diversità, usando il linguaggio, non già essendone usati. Essere poeta significa arrivare a fingere di essere usati dal linguaggio, di essere attraversati come da un dio, di diventare tramite.


Molte poesie di Fortini si presentano come atti comunicativi meticolosamente premeditati, aperti all’interazione con il lettore, per stimolarlo a porsi dinanzi a tracce o “segni di percorso”, che lo aiutino ad addentrarsi nei meandri del processo di semiosi, come suggerisce la poesia interpellativa, “Neve e faine”, del 1949, pubblicata nel 1959 in Poesia ed errore, in cui è presupposto non uno ma più interlocutori a disquisire sulla natura umana, “nostro onore somigliare a brute cose”, e sul senso dello scrivere poesia “c’è
melodia in queste parole?”


A questo gli altri ci hanno ridotti,
nostro onore somigliare a brute cose,
non avere traccia d’uomo. Ma dunque
c’è melodia in queste parole?
Si, ma rotta sul volare del vento.
Dunque un lamento in questi versi udite?
Si, ma delle faine per la campagna.1  


Il problema e la responsabilità del rapporto col destinatario è infatti una costante dell’opera di Fortini, che nei versi citati sembra dare voce a due componenti costitutive del dialogo, correlando gli elementi che nel testo rispondono al piano dei contenuti con quelli che attengono al piano della forma, mettendo in risalto inoltre il logoramento del codice convenzionale di questo scambio: “A questo gli altri ci hanno ridotti”.
Nel saggio “Crisi degli intellettuali”, Fortini aveva spiegato come la scrittura muova da un fenomenico sensibile già disposto secondo schemi culturali precisi che impongono al testo le tensioni e le contraddizioni di cui lo scrittore deve assumere responsabilità e coscienza, per superarne ideologie, visioni del mondo, criteri di giudizio e linguaggi ereditati. (Fortini, Verifica dei Poteri 1965: 67). In epoca contemporanea, spiega Fortini, ad ogni progresso della conoscenza scientifica sembra corrispondere una diminuzione della funzione didascalica della letteratura: una poesia non può, da sola, superare una data visione del mondo creata dalla tensione prodotta dai rapporti che intercorrono tra l’industria e lo scrittore “in quanto uomo”. La scrittura, in versi o in prosa, dovrebbe, dunque, fondarsi, se non altro, su un concetto di “resistenza”. Questa resistenza, connaturata alla poesia, dovrebbe essere fortemente imposta al linguaggio della critica per evitare che si riduca a mero fideistico formalismo libresco. La critica autenticamente impegnata deve, infatti, fondarsi sugli stessi principi della lotta partigiana, come forza dissidente. Tale processo implica, al contempo, passività e dinamicità, devozione e innovazione, fino al momento in cui la presa di coscienza non sfoci nella scelta di una tematica. Già nel 1946, Calvino definiva Fortini: “un poeta della resistenza perché la sua vena di tristezza non è mai di abbandono o rinuncia, la sua nostalgia di lunghissimo esilio non è mai impotente desiderio di evasione [...] (bensì) pacata, epigrafica tecnica di lirica cinquecentesca fatta spesso di un verseggiare divertito e addirittura a tratti parodistico come nella poesia ‘Consigli al morto’...” (Fortini, Poesie scelte 1938-1973, 1974: 25):


Sempre vigile alle sollecitazioni della storia, la coscienza civile perennemente all’opera nelle poesie di Fortini saldava le esigenze del poeta lirico con la passione politica ed ideologica dell’intellettuale engagée. Scrive Fortini: “Ebbene, questo aprirsi di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni, ma all’altro da sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale – che è di tutti i capolavori – perché il discorso continui in filosofia, in scienza, in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal Romanticismo scende alle Avanguardie e a noi.”  (Fortini, Verifica dei poteri: 117).

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Pressappoco un decennio intercorre tra la pubblicazione nel 1973 di Questo muro, e quella di Paesaggio con serpente, nel 1984. La nuova raccolta si affaccia sul mercato editoriale in una fase storica che vede l’Italia afflitta da un sistema politico ormai in crisi istituzionale permanente, notoriamente gestita con arrogante impudenza dal leader socialista Bettino Craxi (Paul Ginsborg, Italy and its Discontent 2001: 137). In questi anni, la produzione fortiniana, di cui altrove ho illustrato la serrata infratestualità (Passannanti, UCL: 2004), che in questo decennio è da riferirsi a Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984 (1985), Obbedienze. 1. Gli Anni dei Movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985 (1997) e Il ladro di ciliegie ed altre versioni di poesia (1982), diventa più intensa e viva, affrontando temi di critica sociale e politica, soffermandosi su questioni inerenti alle lotte dei movimenti femministi, alle rivolte studentesche alla politica estera in Cina, Guatemala, Russia, consegnando alla pagina culturale anche del Manifesto riflessioni sulla politica dello Stato di Israele e sul sionismo, dando il suo parere su questioni scottanti di ordine pubblico, contestando l’idea scientifica di progresso, commentando il dissenso in URSS ed Europa, insomma collocandosi nel pieno del dibattito tra intellettuali e società. Troviamo, riflessi nella prosa fortiniana tra il 1973 e il 1984, soggetti che sono commistioni di cultura, politica ed attualità, come i referendum per il divorzio e l’aborto, l’assassinio di Pasolini, le tragedie ambientali (Seveso), guerre e stragi nel mondo, il divorzio tra PC e USA promosso dall’eurocomunismo di Enrico Berlinguer, la spirale terroristica culminata con l’assassinio di Aldo Moro nel 1978, la strage alla stazione di Bologna nel 1980, l’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Ed ancora, i conflitti tra l’arte ed il mercato, la decadenza dei media, questioni di diritto tra la sfera civile e la sfera religiosa nell’orizzonte di cambiamenti stimolati dalla laicità, tuttavia ostacolati dai veti posti dalla società cattolica, la cui forte ortodossia censoria frenava perfino il concretizzarsi di riforme altrove da tempo realizzate. Oltre alla produzione creativa di poesia, narrativa e scrittura drammaturgia, aumentano le pagine che Fortini dedica ai saggi di critica letteraria, ai brani diaristici e memorialistici, atti ragionativi attraverso cui trapela il trauma dell’Italia a partire dagli anni postbellici fino alla storia recente, filtrati dalla sua esperienza prima di figlio di ebreo perseguitato dal regime, dissidente convertitosi alla religione valdese, partigiano e dunque, prima della docenza, impiegato dell’industria editoriale. Oltre agli articoli di giornalismo politico, si intensificano in particolar modo i saggi di storia della cultura, della quale Fortini oggi è ritenuto, come Pasolini, Cesare Cases e Cesare Segre, interprete tra i più colti, intuitivi e sensibili che abbia avuto l’Italia del secondo Novecento.
Paesaggio con serpente rivela, dunque, in forma di poesia, un Fortini, che si avvia alla delusione, ma pur sempre combattivo, alla costante scoperta e simultanea messa in discussione del ruolo dell’intellettuale e della funzione della poesia, uomo tra gli uomini, che vuole recuperare l’umanità dalla miseria e dall’oblio, come teorizza il Marcuse di Eros e civiltà,  con un atto di tragica fiducia nel futuro per affrancarlo dalla sua brutale preistoria (Fortini, “Due interlocutori”, Saggi ed epigrammi, 2003: 1395). Un Fortini che si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta polifonico, in cui coabitano singolarità e pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per sua natura, il testo è sempre “sociale”, “per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o esplicita” (Fortini, “Poetica in nuce”, 1962, in Saggi ed epigrammi, cit.: 962). Lo si scopre, in queste poesie, dinanzi a continui atti di coscienza, dubbi e confessioni, spesso angustiato dal presente, senza tuttavia perdere di vista il senso dello scrivere in ragione delle generazioni a venire, che egli contribuisce ad educare ad i valori progressisti ed umanistici: principi fondanti che erano stati a lui stesso indicati tra il 1936 e il 1939 dall’amico e maestro, Giacomo Noventa, durante i tre intensi anni di dibattito culturale sulle pagine di La riforma letteraria.
In Paesaggio con serpente si riversava, dunque, ma mediato dal linguaggio figurato, tutto il paesaggio del bene e del male del decennio 1974-1984, su cui Fortini aveva ampiamente scritto (si vedano in particolare i saggi compresi in L’ospite ingrato secondo), e su cui da docente era necessariamente chiamato a ragionare, al di là delle questioni connesse alle istituzioni letterarie e a quelle legate al canone. Paesaggio con serpente verosimilmente include molto di personale, a partire dalla necessità di sottrarsi dal rigore autoimpostosi dell’intellettuale tradizionale che iniziava a pesargli, e dal dispiacere per le incomprensioni con i diretti interlocutori della sfera accademica e studentesca. Tutto questo si affiancava non senza disagio alla delusione politica nata in ragione di una lotta di classe vista non più come spartiacque per i rapporti tra l’intellettuale impegnato e chi bada solo al profitto e a questioni di mero potere. In questo “fiele” epocale, Fortini mette in chiaro il proprio marxismo critico, nei saggi “Più velenoso di quanto pensiate” e “Che cos’è il comunismo”, entrambi analisi puntuali e dirette sulla Nuova Sinistra e suoi nuovi modi di censura interni al pensiero dissidente, intessuto, secondo Fortini, di fandonie fabbricate in nome della coerenza ideologica, una coerenza velata di verità, tanto più falsa quanto più imperante in dati ampi contesti sociali, storici e geografici. Le “catene” spiega Fortini rivolgendosi ai giovani del PCI, non sono solo quelle celate dall’appartenenza ad una data religione, e nemmeno quelle imposte dal pensiero delle classi dominanti, ma sono anche le “catene” connesse alla coerenza interna della militanza, che spesso si coagula in comportamenti da setta, gravandosi di sterili conflitti e penose contraddizioni interne, in misura non inferiore a quella dei propri antagonisti. (p. 1457)
Puntando sulla funzione gnostica della poesia, che in Paesaggio con serpente è rappresentata emblematicamente da un rettile che induce a cibarsi del frutto della conoscenza (Genesi: 3,1), e in tal modo uccide, Fortini pone nella sua scrittura un cardine allegorico-polemico, facendo luce su uno spaccato epocale altrimenti caotico, buio e contorto. A livello dei contenuti, le varie poesie reiterano, similmente ai saggi citati, come i paradossi insiti in ogni ideologia (o teologia) al potere, inclusa la critica marxista della società, si manifestino all’intellettuale dissidente quanto più il partito ne propagandi o ne forzi la coerenza. La scelta dei testi coerentemente informa dell’umore che in quegli anni condizionava non solo il giudizio, ma anche lo spirito di un italiano come Fortini intimamente travagliato dalle questioni politiche e culturali che affliggevano sia la propria nazione sia la propria stretta sfera ideologica: un disagio, a suo dire, finanche fisico dinanzi alla infecondità dell’assillo morale. Tutto il volume è concepito come atto comunicativo ed affida alla poesia allegorica il compito di colpire il lettore con un’indicazione di percorso. Negli atti comunicativi, infatti, teorizzano Peirce ed Eco, il processo di semiosi si mette in moto presso il destinatario sulla traccia di segni, che trascendono quelli determinati razionalmente dall’emittente. Il processo si complica quando l’autore del messaggio in questione, nella fattispecie il Fortini professore e studioso di filologia e critica del testo letterario, assolutamente consapevole delle dinamiche insite negli strumenti linguistici, stili, generi e canoni che impiega, attiva il processo semiotico in ambito didattico-comunicativo, ricorrendo qui al tropo del morso del serpente, come segno di una malattia mortale, kafkaniamente subdola, kierkegaardianamente incombente e fatale, per disseminare il testo di indizi, sintomi e comportamenti, che conducano il lettore a comprenderne e condividerne il messaggio, ovvero i fini.
Come chiarisce Luca Lenzini nel saggio introduttivo al volume antologico Franco Fortini. Saggi ed epigrammi (2003), “Le parole della promessa”, dal titolo indicativo di tale costante impegno alla comunicazione,: “Presiede a questi testi l’intenzione di una coincidenza tra lavoro intellettuale, pratica (anche stilistica) del letterato, e fini di tal lavoro e di tale pratica.” (Lenzini, 2003: XXXVIII) L’attitudine che Fortini manifesta in Paesaggio con serpente è, come si comprende, di chi si ponga dinanzi a delle verità di presunta chiarezza con i presupposti di rivelarne le effettive oscurità. Tale nozione viene esplicitata nella poesia “Molto chiare”: 


Lo sguardo è là ma non vede una storia
Di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto. 

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Si avverte, in questa sequenza di versi, il dilemma di una “voce” autoriale, che, autoriflettendosi, si presenta come esito di un processo di coscienza che si fa carico della “crisi della critica”. L’errore è dell’individuo, ma altresì dell’ideologia, e dunque del partito, allorquando creda nel proprio “perfezionamento illimitato” (Fortini, “Che cos’è il comunismo”, in Saggi ed epigrammi, 2003: 1655). L’errore, culturalmente ereditato dallo scientismo e dall’Illuminismo, è credersi capace di uscire fuori dai limiti del proprio ciclo “biologico e temporale”, diventando pensiero sovraumano, capace non già di creare unità, fraternità e condivisione, nell’orizzonte della fallibilità e radicale infermità della specie umana, ma solo di creare “sottouomini”, indotti ai limiti della pretesa del sapere e della sapienza etico-religiosa. In linea con le istanze del “pensiero della crisi”, soprattutto con le tesi di Horkheimer e Adorno, polemici verso la cultura tedesca liberal-capitalistica, Fortini è radicalmente avverso a quello che comporta il vivere  integrati e subordinati alle premesse e condizioni alienanti della modernità massificata; in particolare, il testo introduce il motivo della contraddizione per suggerire i modi in cui la cultura di massa, emarginando ed asservendo le forme ideologiche sue antagoniste, adombri le differenti realtà compresenti del vivere collettivo, con incessanti processi di mistificazione, che, sopprimendo ed assimilando a sé la dissidenza, creano l’illusione che una data inglobante concezione del mondo possa effettivamente neutralizzare positivamente ingiustizie e conflitti sociali.
Sia in “L’ordine e il disordine”, già pubblicata in Questo muro e riproposta in apertura di Paesaggio con serpente, sia in “Molto chiare”, la poesia che chiude la raccolta, Fortini ripropone la presenza di dicotomie nella natura stessa di quella che consideriamo la coerente e compatta realtà, (“chiarezza/oscurità”, “noto/ignoto”). Nel rapporto tra ciò che è reale con ciò che è psichico (“l’ostinato che a notte annera le carte”,”Puoi contare ogni foglia”, “L’autobus ne porta via qualcuna”, “Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi”), le tracce visive delle cose nel mondo sono riportate con rigore straniato (“Non vede una storia”, “Non sa più chi sia”). Nell’ambiguità di questa distanza percettiva, la decodificazione del messaggio del soggetto deve rimanere incerta (“È niente? È qualcosa?”), in quanto condotta “coi segni di una lingua non più sua”, che non chiarisce, ma “replica il suo errore”. Si noti il ricorso a frasi interrogative e ad un lessico che apre ipotesi, dubbi e dilemmi. L’interazione con gli aspetti fenomenologici del reale è definita nella prima stanza come “un lavoro imperfetto”. L’endecasillabo dell’incipit “Molto chiare si vedono le cose” contrasta distintamente con il penultimo verso, che si presenta con tono colloquiale, “quando è passata, è passata l’estate”. Adottando ritmi vicini al parlato, Fortini riflette sulla fine della giovinezza con un tipo di rassegnazione che potrebbe apparire senso comune. La percezione desolata della perdita del proprio tempo vitale, “la forza di luglio era grande”, che si consola al vaglio della ragione è  palese nel verso “Però l’estate non è tutto”. Qui si rafforza l’altro tema della seconda fase della poetica di Fortini, quello del senso del limite (della ragione lasciata al senso degli Altri).
La caratteristica ulteriore della raccolta Paesaggio con serpente è la tendenza al “concettismo”, ripreso da autori del Seicento e Settecento, che consentirà a Fortini di assumere quella “strabica” posa pseudo-classicista, di cui lo rimprovera Luperini ne La lotta mentale. A questo proposito, nell’intervista del 1993,  “Che cos’è la poesia?”, Fortini dichiarava:


Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimè, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico. [...] Insomma, nella poesia ci si trova di tutto ma lo si trova ad una distanza tale che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze. Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno. (Fortini, “Cos’è la poesia”, RAI Educational, 1993).

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Commentando la consapevolezza acquisita circa i limiti della parola poetica, a proposito di Dante “avanguardista”, Fortini notava: “La testimonianza vivente della sofferenza ininterrotta che la divaricazione fra significante e significato infligge, istituzionalizzata dall’età nostra, alla parola umana.” (Fortini, «Il messaggero», 14 luglio 1981). In Paesaggio con serpente, similmente, la parola poetica, combattuta tra forze contrapposte, si fa forza di un extratesto pittorico, che nella fattispecie è quello di Rosso Fiorentino. La pittura lascia sul terreno segni che non sono concessi con la stessa intensità e rapidità comunicativa al linguaggio. Il ritorno alle virtù rivoluzionarie del barocco avviene per Fortini attraverso i dipinti di Poussin e Rubens, da una parte, ma, dall’altra, anche dei versi di Góngora, Milton e Tasso. Il titolo stesso del volume si riferisce ad un dipinto dell’artista barocco Nicolas Poussin, Paesaggio con uomo ucciso da un serpente (1648), il cui “sublime terrifico” richiama allegoricamente l’impatto delle catastrofi naturali sul corso delle vicende umane,  e lo fa mediante l’immagine di un’imminente tempesta che fa irrompere il caos sulla apparente quiete del paesaggio, richiamando la dignità eroica e l’ideale del “gusto grande” del barocco francese. Poussin, con il suo gusto per gli scenari naturali che fanno da sfondo a inquietanti eventi epici o mitici, offre, infatti, a Fortini lo spunto di un “modernismo anti-moderno”, come lo ha definito Guy Scarpetta, una sorta di mondo al contrario dotato di falsa armonia, un gioco di riflessi e di inganni come di una realtà che resiste a svelarsi, celata dietro l’apparenza delle cose. La concomitante ripresa in questa raccolta dello stile delle avanguardie simbolista, modernista ed espressionista è intesa ad articolare rimandi, capaci di determinare ambiguità perfino a livello strutturale, con una commistione non solo di stili, ma anche linguistica che include citazioni in varie lingue straniere, come nella poesia “Stammheim”. Sul piano tecnico, i rifacimenti e le traduzioni dalla lirica barocca spagnola e inglese (si pensi alle sue versioni dei sonetti di Góngora o delle elegie di Milton) che Fortini inserisce nella struttura del volume, agevolano la polifonia della raccolta, una tecnica che troverà il suo apice in Composita solvantur, del 1994. A partire dal titolo, Paesaggio con serpente assembla motivi desunti sia dal concettismo di Góngora, sia dal Tasso. Come l’Ortega y Gasset delle Meditazioni sul Don Chisciotte (1961), qui il nostro autore sviluppa un intenso interesse per la lotta dell’uomo contro le potenze distruttrici, come fa il Milton di Paradise Lost o il Goethe di Faust.
Non c’è modo più forte di attirare l’attenzione del lettore che presentagli dinanzi i segni residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza, ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre della Madre Terra. L’iconografia biblica classica, infatti, raffigura il Serpente mentre tenta Eva a disobbedire al dio padrone per essere partecipe della Conoscenza del mondo qual è, disobbedienza che costa la dannazione eterna. In tal senso, il rimando di Fortini all’uso che Poussin fa del serpente in due suoi dipinti paesaggistici,  Il giardino di Flora (1631), che pone il mito al centro di una scena di nudi epicurei e baccanti,  e Paesaggio con uomo ucciso da serpente (1648), che allude invece ad un dramma umano, ha una duplice intenzione didascalica di andare al di là dell’interdizione che la cultura ebraica ha fatto del simbolo del serpente. Raffigurato mentre sbuca fuori dalle profondità delle radici in culture altre da quella giudaico-cristiana, in cui tendenzialmente appare nel cavo di un albero, o avvolto intorno ad un emblema di forza e potere virile,  il serpente indica non già le insidie celate nelle profondità, ma l’energia vitale stessa che si desta e si slancia verso l’alto, emergendo dall’oscurità come la cieca violenza della natura verso il lume della sapienza.
Il barocco offriva a Fortini lo stile per deformare il messaggio con mezzi espressivi ritenuti ormai desueti, per i quali l’iperornamento, l’eccesso retorico, l’ambiguità, e l’elevazione del paradosso a modello di pensiero diventavano di nuovo legittimi. Il serpente di questa raccolta altro non anticipa che la lirica “L’animale”, del 1985, analizzata nei dettagli da Luperini ne La lotta mentale: il grande dramma di Poussin, ripreso in Paesaggio con serpente, apre infatti magnificamente la strada alla composizione del piccolo-grande dramma “ecologico” (p. 107) in cui allegoricamente la bestiola uccisa come in un rito sadico, insegna a stare in guardia contro gli allettamenti del delitto teso da un animale avversario in agguato, e leggere le tracce di questo spirito sanguinario, che altro non sono che i segni dei rapporti umani di sfruttamento e dipendenza reciproca, patto che in arte diventa quasi inebriante, e avvolge in un unico movimento distruzione e rigenerazione. La volontà di lotta della poesia “L’animale”, emblematica di un’umanità disperata che si dibatte tra pulsioni opposte,  è accessibile per via allegorica, oltre che segnica:


Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere e fulmineo eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
e non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà.


Quale simbolo dell’Io, l’animale che uccide ed è, a sua volta, ucciso, rappresenta la base umana istintuale e sfrenata, che la mente razionale rifiuta. Ne “L’animale”, gli eccessi vitalistici sono seguiti dagli esiti empi e drammatici (“e ora cieco di luce stride e combatte e implora dagli spini pietà”) di cui è artefice il “piccolo animale sanguinario”, a sua volta vittima (l’animale sanguinario ha morso il serpente e ne ha a sua volta subito il fatale morso avvelenato). La seconda parte della poesia fa subentrare alla crudeltà della scena notturna dell’uccisione quella serena di un falso l’equilibrio contemplativo, che stabilisce una contraddittorietà di fondo tra realtà (“parti fetide e amare”) e utopia (“Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele/ e non è vero”).
Probabilmente, per Fortini, indicare la strada al lettore per accedere al potere di questo simbolo tramite sia il dipinto di Poussin sia le figure retoriche del linguaggio poetico, significava coltivarlo e tramandarlo quale saggezza ritrovata alle radici della sanguinaria umanità. Vale per questo motivo chiedersi che senso abbia avuto per Fortini, a livello personale, richiamare la figura del serpente che uccide un uomo in un paesaggio su cui incombente tempesta, soprattutto se lo si immagina costantemente intento sia come individuo sia come intellettuale engagé nel compito difficile e mai risolto del proprio cammino esistenziale ed artistico. Rappresentando i conflitti del proprio ambiente ideologico e poetico, egli sembrerebbe rivolgere i testi di questa raccolta, sviluppata all’insegna del dilemma morale, attarverso il simbolo del serpente, ad interlocutori altrettanto impegnati e colti – i soli probabilmente in grado di comprenderne le stratificazioni di senso e le contraddittorietà. Ma in realtà, a livello del messaggio, l’allegoria mira ad altro e la coerenza del testo poetico si risolve come sempre in un irrisolvibile conflitto di contenuto e forma, traccia di un conflitto di prospettive sperato, mai sedato, sicché dal confronto nasce il senso.

Fortini procedeva costantemente su due binari, quello letterario e quello politico, e ne vorrei qui dare un esempio. Rifacendomi a una sua riflessione sul comunismo quale modello di un procedimento “per rendere sensibile ed intellettuale la materialità delle cose dette spirituali” (“Che cos’è il comunismo, Saggi ed epigrammi, cit.: 1656), mi azzardo a dire che il nostro autore desume l’idealità’ di tale definizione teorica dalla funzione stessa della poesia. È la poesia che sopra ogni altra attività umana, conoscenza o scienza, si prefigge il fine di indicare come interpretare le tracce del passaggio dell’uomo su una crosta terrestre, la quale inghiotte queste tracce e complica la semiosi di chi ne vada alla ricerca, o le riceva ormai sbiadite, prive di senso apparente. A ben vedere, la poesia, nel suo darsi come sistema di pensiero, istituzione, oltre che foggia che esiste nel suo compiersi, si presenta come procedimento che, per quanto tramato di errori, ha la pretesa, attraverso epoche e tendenze, di indicare, non di rado anche con violenza concettuale, o altrimenti con agire vatico, come leggere, attraverso la persona del poeta, nel libro della sua fisicità, tutta la storia tragica dell’umanità affidata al tempo. Fortini ne è consapevole quando, nel saggio “Opus servile”, assume il punto di vista di Adorno per il quale la poesia “canta sempre alla tavola dei potenti”. (
Saggi ed epigrammi, cit.: p. 1650) È questa condizione di idealità, che Fortini nega alla poesia, che egli ancora assegna al comunismo. Mentre definisce la militanza del giusto comunista, Fortini non fa che definire il proprio ideale di poeta, un ideale quasi cristologico, capace di riscattare e liberare l’umanità, e che dissemina dappertutto nei suoi testi: “Chi questa lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini”. (p. 1655) A livello strutturale, inoltre, Paesaggio con serpente è opera composita. L’estetica di Fortini, influenzata dalle tesi di Lukács e Adorno, in questo decennio è sostanzialmente attenta all’analisi che Benjamin aveva presentato delle tecniche del collage e del montage, in cui esprimeva fiducia nella riproduzione meccanica dell’arte, la quale socializzerebbe (commercializzandola) l’opera, affrancandola da ogni valenza auratica fuori e oltre l’apprezzamento intellettuale delle élites.2
Ma passiamo all’analisi testuale di alcune poesie di Paesaggio con serpente. Già pubblicata in Questo muro, la poesia allegorica “L’ordine e il disordine”, ripresa dal Brecht di “A causa del crescente disordine” (1932-4) – che rinviene costantemente la presenza dell’antitesi nelle cose umane, è costruita sulla giustapposizione dialettica di armonia e caos nel mondo del molteplice. Fortini si distacca dalla compostezza letteraria del linguaggio lirico, per adottare uno stile espressionistico “Ma parlare in futuro solo del disordine…. godi delle contraddizioni della vita macchiata di sangue / che conosci”), atto a comunicare il proprio disagio morale (“contorta esistenza”, “sfruttamenti”, “carne lurida”, “giustizia di classe”, “vita macchiata di sangue”). Il polemos nel gruppo di versi qui di seguito riportati mette in luce forze oppositive interne sia al reale sia all’Io. In questa complessa griglia di influenze, urgenze, e obblighi morali, la ricerca da parte del poeta di un equilibro formale appare, suggerisce Fortini, quasi un’insolenza, come recita anche il noto testo di Brecht, “Brutti tempi per la poesia”. La coscienza dell’impudenza dello scrivere poesia ritorna a confrontarsi con la ragione storica nella poesia “Come una dopo l’altra”:     


Come una dopo l’altra dall’altra una
E un’altra ininterrottamente come lente o veloci
O come stagioni o come le ore o le api o le voci
O il pianto degli innocenti o lo stridio delle foglie
O il vocio delle onde delle gocce delle scaglie
Di pigna o l’ondulio della ragione nella sua cuna
O della dolorosa fortuna il lamento
Ma sopra come la dominante ostinata ragiona
E dice e ridice una verità.


Il nucleo della raccolta è costituito dalla sezione “Di seconda intenzione”, che si apre con la poesia “Via Cardinal Federico”, la quale allude al supplizio del rogo inflitto alle donne accusate di stregoneria durante la reggenza di Federico Borromeo. Segue “Monologo del Tasso a Sant’Anna”, ispirato all’operetta morale leopardiana “Il dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”, in cui il folle e autoironico dolore dell’io monologante del grande poeta epico Cinquecentesco fa da specchio ad un tentativo di ritratto autoriale,  e ciò nonostante Fortini avesse altrove notato: “bisogna cercare di evitare l’inganno della identificazione che è così corrente scolasticamente”. (Fortini, “Cos’è la poesia”, RAI Educational, 1993) Le poesie di questo periodo segnano il fenomeno del “grande riflusso”, che coinvolse anche le forze di sinistra, fase questa che implicò la messa in discussione dei maggiori sistemi ideologici ormai dimostratisi inadatti a fornire risposte reali alle esigenze della società e del Paese. In relazione a tale situazione epocale, e richiamandosi alla condizione di Torquato Tasso nella prigione di Sant’Anna, l’espressisene che Fortini conia per autodefinirsi, “ospite ingrato”, probabilmente designa, nell’orizzonte di un suo generale calo di fiducia nella militanza politica, certo indotto dalle aspre polemiche scoppiate all’interno degli ambienti intellettuali marxisti, non privi certo di pregiudizi ed opinioni collettive omologate, soprattutto il attaccarsi ad un obbligo di resistenza mentale contro quello che Fortini riteneva essere il vuoto conformismo avanguardistico della Nuova Sinistra. Nei versi di questi anni, contribuisce a rappresentare il trauma storico degli anni segnati dallo “stragismo, l’adozione di un registro espressivo più aspro e veemente, a tratti ostinatamente argomentativo, a tratti orgogliosamente oscuro, quasi manifestando la condizione psicologica dello spirito in rivolta. La poesia dal titolo “Al pensiero della morte e dell’inferno” è un rifacimento di un sonetto di Góngora. L’interesse per Tasso e Góngora motiva analogamente la presenza, in questa parte della raccolta, di una serie di poesie che si mettono in relazione dialogica con la tradizione letteraria alta, dai temi della grande drammaturgia europea, del teatro shakespeariano (“Da Shakespeare”), del dramma pastorale (“Traducendo Milton”), dell’allegorismo pittorico barocco (“Nota su Poussin”) al razionalismo filosofico di Cartesio (“Il massimo di luce”).
In “Leggendo una poesia”, in memoria di Vittorio Sereni, inclusa nella sezione “Una obbedienza”, ritorna l’idea di un soggetto fatalmente ferito dalla vita, che crea un distacco con se stesso e dal contesto offensivo, per assumere una distanza critica perfino dai propri assunti. Tuttavia, il dolore per un mondo deviato, dove i fratelli sono divenuti nemici, dove il Capitalismo ed il materialismo hanno schiacciato la realtà, mistificandola e consegnandola alla non-autenticità, non confonde il Fortini poeta, vigile ai segni pur minimi di rinascita:

  

Mi è stato fatto non so quando un male.
Una ingiustizia strana e indecifrabile
Mi ha reso stolto e  forte per sempre.
Leggo i versi di Sereni per Nicolò Gallo
E scrivo ancora una volta parola per parola.
Non tutto allora è vero quello che ho detto sin qui.
Posso anche io intendere chi noi siamo.

Partendo dal pessimismo cosmico di Leopardi, la ripresa di Fortini della sofferenza come topos novecentesco, passando attraverso la totalità del “male di vivere” montaliano di Ossi di Seppia, giunge all’inquieta nozione di intima “ferita”, del Rebora di “Curriculum Vitae”, dove è detta una condizione di lutto di sé:


un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto…
(Rebora, Canti dell’infermità, 1956)

Il tema dei segni lasciati sul terreno per essere interpretati dal lettore ora sono quelli della ferita narcisistica, come si legge in altre due liriche dai contenuti analoghi, “La buonanotte” e “Molto chiare”. Ne “La buonanotte”, disteso nella solitudine che precede il sonno, arrovellandosi, la voce poetante perviene ad uno stadio di ipercoscienza:


Dimmi, riesci a credere
di potere sollevare la coperta
e in  uno dei prossimi giorni d’inverno
guardare come sono quelle tue mani?

L’interesse per la dimensione preonirica (sonno/veglia), o per gli stati di demenza e follia, acquisisce importanza in questa ed altre liriche in quanto allude, come si chiarirà in Composita Solvantur, ad un vissuto extraindividuale, una dimensione e percezione intersoggettiva, nel senso che l’intertestualità, di cui è fittamente intessuta l’opera di Fortini, irrompe nella soggettività, disseminandola di voci e tracce. Per dirle con un’immagine: incubo e realtà qui si presentano con impeto, invadendosi vicendevolmente, come in un dialogo incessante, dissolvendo il soggetto e moltiplicandone il pensiero in molteplici voci e prospettive, tutte che si affacciano alla mente. Vigile nella fase che precede il sonno, ovvero tenace nella sua imprudenza introspettiva, questa individualità vede fantasmi dotati di fisicità sconfinare nella stanza, indicandogli l’irrilevanza della poesia per il brutale mondo della produzione, della competizione, delle competenze:

Verrà nella stanza da bagno un chiarore di neve.
Buon latte d’aria, mite crema, affetto
che sempre hai desiderato e ora basta com’è.
Potrei volgere la mente alle tue cellule
dove palpitano stente
desinenze, musiche orbe,
brame goffe, gesti d’ira;
e chiedere ah non pietà ma di tornare
nel letto ancora a dormire.

Finché non esiga irritato il telefono
“Signore, prego, parli!”  – la scelta, la data
del contratto, l’ora della riunione,
il differimento di te a te medesimo,
la certezza che sono disfatti
gli antichi miceli nervosi, annientato il disegno
delle labbra in sogno ancora tenere
di chi un giorno ti chiamò amore.

La difficoltà di stabilire un dialogo con il mondo esterno ed il futuro è un campo visivo che di sfoca, aprendosi su tenebre che somigliano alla morte. A questo futuro personale, psichico, che declina, subentra l’altrui futuro, innegabile. Ne emerge l’amara autoironia con cui Fortini successivamente, in una poesia inclusa in Penultime, rappresenta il processo stesso del comporre versi in “Allora comincerò...”:

                                                            Comincerò
una composizione che ignoro. Anime sante,
poeti e parenti, onorati e inonorati, voi
che le catene avete solo in  sogno  spezzate ma
(e sempre piangendo di averle spezzate ma
solo in sogno) monumenti venerabili e amari
e voi, nonni e antenati, rattrappiti nei colombari
che aveste il tempo della vita intero
per domandarvi che cosa mai fosse e perché
voi  e perché non voi e le bestie perché
e perché il sogno spaventoso dello scuoiato,
voi tutte queste sillabe aiutatele
che accecate un nipote compone
prima della sua fine
con quelle imprendendo già tronca un’azione
come chi per incerto cielo parte
e seppure confidi che li aerei furiosi
alla scala casalinga vorranno restituirlo,
può trapassarlo il fuoco, precipitare urlando
e tutta lasciare in disordine la tua stanza sbalordita. E ancora:
il clamoroso parlare, la lingua sonora
degli italiani non potrà aiutarmi.

Il testo ripropone il linguaggio sofisticato, quietamente disperato, ma scettico e ancor più crudele del “Monologo del Tasso a Sant’Anna”, dove il raggiunto limite tra realtà e follia confonde il poeta nella sua individualità malata e dolorosa, ma non il suo senso di cosa sia il “sapere”, laddove gli viene concesso dal “potere” di conversare intellettualmente con gli interlocutori sui soggetti della letteratura e della religione, ed essere al contempo libero di restare corrotto nel corpo e nella mente, ma nel chiuso della cella, “ospite ingrato” nella sua prigione d’oro, difettosa e perversa idea di libertà, questa, come nemmeno fu concessa di goderne a Pasolini:


Da quanti anni sappiamo, no? Che una rosa
non è una rosa, che un’acqua non è un’acqua,
che parola rimanda a parola e ogni cosa
a un’altra cosa, egualmente estranee al vero?
Bravi filosofi, menti necessarie e voi quanti
negli istituti  di ricerca del mondo poderoso
a mattini d’inverno dopo l’ora del tennis
fissate i tabulati, le analisi, le statistiche lucenti
la cultura dei batteri, il restauro degli argenti,
ah nulla potete insegnarmi
che io già non sappia, anche parlaste ore e ore.
Non è onnipotenza questa mia, è pianto di rabbia.
Neanche per la mia ignoranza domando scusa,
non c’è colpa né scusa.
Almeno una immagine, una visione sabbatica,
queste cadenze miserabili animasse!
Ma no, senza conoscenza né buona coscienza,
senza teologia, senza arte manuale
e nemmeno poesia, sebbene più ilare
che triste, più ansioso che sazio, più indistruttibile,
anche nella stanchezza di tutto il vissuto secolo,
mi avvio veloce verso il mio rancore.

La sfida (“ah nulla potete insegnarmi che io già non sappia”) è posta solo provocatoriamente sul piano della metaletterarietà come comunicazione/interpretazione del testo poetico. Ciascuna poesia può aiutare ad intraprendere più vaste e attente considerazioni. Esattamente questo suggeriscono i versi conclusivi: al di là del sapere, oltre ogni contorta elucubrazione intellettuale e disputa ideologica, oltre i paesaggi interiori, su cui il poeta e i suoi astiosi interlocutori consumano il loro tempo, c’è il mondo con la sua reale, spesso ambigua, fruibilità. Hölderlinianamente, Fortini sembra dire, nella natura è la sola verità:


E chi aprirà i vecchi miei lessici e legga
le carte soffiando sulla polvere, almeno
abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi
se la mattina è acuta, esca.

Qui da poeta e pedagogo, Fortini già riflette su quella che, in una selezione di testimonianze di scrittori contemporanei, che sentono di avere ereditato gli insegnamenti del nostro autore, Luca Lenzini ha definito la “funzione Fortini” (“La funzione nei poeti contemporanei. Questionario, I, II”, in L’Ospite ingrato, 2009). Una funzione con molte sfaccettature, che comprende l’insegnamento di un percorso o filosofia di vita, il quale raggiunge il lettore soprattutto attraverso l’avvicinamento ai suoi versi, che hanno carattere più “corale” che lirico. (Velio Abati, Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, 2003).

Tornando a “Molto chiare”, la poesia posta a chiusura di Paesaggio con serpente, e alla dimensione “corale” della poesia di Fortini, questa dice il progressivo timore della voce lirica di emergere dal caos omologante del crescente neocapitalismo, e di portare a termine il proprio mandato intellettuale come responsabilità etica e coerenza politica: dinanzi alla coscienza si apre una visione pessimistica del mondo, la quale, benché guidata dalla volontà della ragione, appare intimamente lacerata :“Lo sguardo è là ma non vede una storia/ di sé e degli altri”. Il motivo della chiarezza (“limpidezza/nelle foglie illuminate, negli intonaci/ delle case nuove, che ancora vedo”), nel suo essere una domanda di vita, si oppone al temuto incupimento della coscienza.  Il torpore che precede il sonno non offre conforto al poeta, né può consolarlo la visione lattiginosa e indistinta d’una figura china al suo capezzale. La facoltà di percepire se stesso diminuisce, le immagini si scompongono, si addensano alla mente voci di contemporanei, forse quelle di Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, Luzi e Caproni, che nei loro versi hanno già mostrano le crisi e le fratture a cui le poetiche contemporanee vanno fatalmente incontro, come nota Luigi Corosso in “Educare tra le rovine” (in P. Giovannetti, Se tu vorrai sapere. Cinque lezioni su Franco Fortini, 2005: 58) Il testo di “Molto chiare” presenta Fortini nel suo notturno confrontarsi con un interlocutore interiore, inflessibile antagonista di se stesso, a cui dice la propria ostilità:

Non ho sentimento di amicizia per te
anzi più passano gli anni
più, amico mio, mi è difficile comprendere
quello che turba la tua mente. E anche la mia!

L’incapacità di attingere il proprio significato biologico e pulsionale è dato, in senso lacaniano, come rifiuto di identificazione nella propria funzione vitale. La gravità del conflitto si manifesta nel desiderio di autosoppressione dell’invocazione amletica: “Questo puoi, ora questo: dormire”. Ne “La buonanotte”, tale condizione di dissociazione rende riconoscibile al poeta la propria umana incompiutezza. “Molto chiare” e “La buonanotte” mostrano, pertanto, una forte concomitanza per il ricorso al tema dell’errore, della delusione e della sconfitta propria e collettiva, una pietas creaturale ed insieme un assillo per una condizione di impotenza e incompiutezza che non concede affrancamento. E dunque, in Paesaggio con serpente, penultima raccolta di Fortini, emerge tanto più forte, mentre affoga nel dubbio e nella caduta upotica, la speranza di una poesia salvata dal diluvio (Corosso: 66). Anche in questo testo, l’inquietudine derivante dalla vaghezza delle immagini pre-oniriche, o di imminente demenza o di follia, che affollano lo stato di coscienza, conferma il timore del poeta di non comprendere gli altri, e di non esserne compreso, una sorta di nichilismo, causato da una grave e più estesa crisi epocale, che si impone con insensata e lugubre nostalgia testamentaria, ma che chiede di essere convinto del contrario. Vi è in questi versi l’intensità del Kierkegaard di Timore e tremore, che Fortini ebbe a tradurre nel 1948. La soggettività che si autoriflette e accusa non nega il reale, anzi lo riconosce come principio sovrano, regolato dalla morale. Come nella poesia di Hölderlin, “L’autunno” (“Le voci, che dalla terra si dipartono, / Dallo spirito, che è stato e che ritorna, / Si svolgo all’umano, e molto noi impariamo / Dal tempo, che veloce si consuma….”, “le voci grigie” fortiniane sembrerebbero richiamare il poeta ad una missione disertata:


Ora chiamano me
non miti e non crudeli le voci grigie.
Verso il loro mormorio
nella sera calma e certa dopo il pianto
va questa mia risposta.

Deleuze e Guattari hanno sottolineato l’esistenza, in un testo, di forze destrutturanti che ne attentano la logicità, consentendo agli elementi liberatori di emergere. Non si tratta però di un processo anarchico o schizofrenico – ma pratico, vitale, semiotico che dissemina il testo di tracce. Così interviene Pasolini, in un giudizio sulla poesia di Fortini:

Così, lacerato da forze che lo trascinano in due direzioni opposte, egli (Fortini)  ruota un po’ disperato su se stesso, si impoverisce e affabula accanitamente: trovandosi così quasi sempre respinto magari di un soffio fuori dalla rosa del tiro della grazia. Eppure si ha la netta impressione che egli, nel fondo, voglia proprio questo. Essere cioè dimostrazione vissuta – “martire” nel senso etimologico della parola – di una nuova cultura e di una nuova ideologia letteraria, che escludono, per definizione, sia l’umanesimo che l’irrazionalismo della poesia.  (Pasolini, Passione e ideologia, 1960: 469)

Caduto il sogno utopico di Foglio di via e Poesia e errore, e dispiegatosi il tema del conflitto tra disordine e ordine, la tendenza dominante nella poesia fortiniana di questo periodo vede la concretizzazione di allegorie informate – forse perfino manieristicamente ed espressionisticamente, come già si era manifestato in Poesia delle rose, del 19623 – da una forte propensione al pessimismo circa l’incomunicabilità tra gli uomini e il declino delle funzioni poetiche nel presente massmediatico e post-capitalistico. Nella sezione Penultime (1984-1990) ritorna l’atmosfera di “Questo verso”, in cui vita e morte, felicità e disperazione, realtà e immaginazione si confrontano nel timore costante della responsabilità del giudizio morale. L’identità dell’“ombra” è duplice, storica e metaletteraria, e rimanda all’identificazione di Fortini con le istanze della poesia surrealista, come si desume dal riferimento ad un verso di Éluard ,“egli fermava contro il ferro la sua tempia”:


Perché pietà per quell’ombra, perché
la scongiuro se scorgo
le orme di minuscole ferite
sui ginocchi dei ragazzi e, mi rammento,
gustavo fra i denti le croste brunite
raschiate alle mie cicatrici.
Atterrito dal mondo e da se stesso
egli fermava contro il ferro la sua tempia.

Rispondo che è per pietà per l’avvenire,
per il patire interminato che
entro tanto splendore uno spavento
come una bestia immane dall’azzurro
annunziava a quel misero tremante
nella felicità che il pianto libera.
Da qui lo assito, da qui ora lo consolo.

L’immagine è quella del poeta allarmato dal vedersi ripiegato in una dimensione, privata ed imprigionante, che si vede contestare il diritto di opinione –burbero promulgatore di valori progressisti, legislatore di modelli letterari, mediatore culturale inflessibile e integerrimo, pedagogo non delle masse, come Pasolini, ma suo malgrado delle elites accademiche, che nella memoria si ritrova bambino “atterrito”, come il proprio padre, “dal mondo e da se stesso” L’incompletezza percepita da Fortini, assimilato al fantasma del padre (“lo assisto”, “lo consolo”), acutizza l’incontro con i segni e gesti della sua disperazione (“su quella ringhiera posavo la fronte”). L’attenzione della memoria ricade su un mondo percepito attraverso lo “sguardo” della reminiscenza, che non consente alcuna certezza e verità, come invece meglio riesce a fare il saggio, memoria rielaborata su affetti perduti, messaggi incompresi, o irrisolti, verso cui solo è data la semiosi delle tracce, come l’enigma stesso del proprio ruolo e della propria esistenza. La parola poetica ha dunque la funzione qui di evocare un’identità, o totalità, per sempre scissa, divenuta penosamente inattuale, ed esercitare da lontano il suo tributo alla natura sempre rea degli individui quando non si diano al rigore della disciplina dell’impegno. Laddove la ratio consente di mettere insieme le forze tramite l’autocontrollo, che si esercita anche a livello del linguaggio, in poesia tutto si compone nell’orizzonte di un istantaneo spreco, che fa venire meno ogni scommessa di senso, ogni illusione di coerenza e certa fine.
Infine introdurrei un’altra riflessione su quale fosse, per il Fortini critico e polemista, il medium della comunicazione del dire poetico con il  mondo prosastico, disumano e violento della storia, e di come fosse importante farsi interpretare. Nel saggio “Brecht e l’origine dei Fronti Popolari”, Fortini chiariva come, a partire dal 1930, fosse diventato impraticabile e paradossale ogni idea positiva dei rapporti a venire tra gli scrittori e i partiti. Nonostante la generale avversione nei confronti del vitalismo rivoluzionario e delle istanze avanguardistiche postmoderniste, Fortini rimaneva tuttavia in necessario rapporto di contemporaneità con la tematica del limite, proposta da Lyotard ne La condition postmoderne, del 1979. La tensione intellettuale con cui Fortini conduceva la sua opera, lo condusse dunque ad entrare in controversia perfino con se stesso. Non poche sono le poesie dell’ultima produzione fortiniana in cui ricorre il tema della frantumazione della razionalità ad opera delle dinamiche in atto nelle società tardocapitalistiche. Come specifica l’autore stesso nella premessa all’edizione ampliata del 1974 di Verifica dei poteri:


Il rischio di scambiare difficoltà personali con situazioni a dir poco universali, di mitologare la biografia? Certo. Ma se rileggo quel che scrivevo, nel 1957, a conclusione di Dieci inverni, mi dico che è proprio vero: quando non si spera più nulla per sé si comincia a vedere più chiaro. C’è luogo a procedere: nell’ordine dell’agire pratico ossia politico e anche in quello, paradossale più di sempre, della parola letteraria. Che ormai solo se accetta di venir emessa senza speranza di ritorno o di eco può attraversare, quando che sia, il corpo dei suoi destinatari. D’altronde, come far capire che la nostra speranza non è in un futuro cronologico se (come suona una amica parola) “il mio futuro non è che il presente di un altro”’? (Fortini, Verifica dei poteri, 1965)    

In tal senso, la scrittura poetica diviene premessa di un discorso condivisibile, evidenza dialogica dell’esperienza dell’Altro, nel suo darsi come momento ed incontro di senso, un senso che Fortini vuole scambievolmente determinato, come nota Nava in “Le ragioni dell’altro”’ (1998), laddove il destinatario - che non è solo il critico, proveniente da un dato ambiente accademico e letterario, in dialogo intimo e consueto con la sua opera, come accade per i monografisti di Fortini, Nava, Berardinelli, Luperini, Pagnanelli, Jachia, Peterson, Lenzini e Raffaeli, Abati – è autorizzato a pronunciarsi sulle ragioni ed i fini del testo in versi, sulle sue costruzioni/decostruzioni/dissoluzioni, sui suoi epicentri, limiti, sensi, errori e paradossi, (ovvero a mettersi sulle tracce dei circuiti ideologici, stilistici, perfino matrici, creati vuoi consapevolmente vuoi inconsapevolmente dal poeta) e a diventarne, a pieno diritto, conoscitore ed interprete: in altre parole a cedere al consenso iniziale necessario all’autore, a disporsi a questo scambio, ovvero alla possibilità che la forza mentale degli uomini in dialogo tra loro attraverso l’arte e la letteratura possa diventare un atto autenticamente rivoluzionario, che dissipa intrinseche ambiguità, connaturate al testo letterario, affrancarsi dai retaggi sia dell’industria culturale sia da quelli ben piu’ insidiosi e discriminanti delle istituzioni letterarie (Fortini, “L’istituzione letteraria”, Verifica dei Poteri, 1965).

Per indicazioni bio-bibliografiche, si veda Fini, Carlo, Indici per Fortini / Carlo Fini, Luca Lenzini, Pia Mondelli; con due contributi di Franco Fortini, Firenze: F. Le Monnier, 1989.


Bibliografia fortiniana citata:

- Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 19461, 19672.
- Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista Feltrinelli, Milano 1957; II ed. De Donato, Bari 1974.
- Poesia ed errore, Feltrinelli,  Milano 1959; II ed. riveduta Mondadori, Milano 1969.
- Verifica dei poteri. Scritti di critica e istituzioni letterarie, Il Saggiatore, Milano 19651, 19692;
- L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, Bari 1996; II ed. Marietti, Casale Monferrato 1985.
- Questo muro, Mondadori, Milano 1973.
- Poesie scelte (1938-1973) a c. di P. V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1974.
- Il ladro di ciliegie e altre versioni di poesia, Einaudi, Torino 1982.
- Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984.
- Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Garzanti, Milano 1985.
- Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994.
Obbedienze. 1. Gli Anni dei Movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985, Manfestolibri, Roma 1997.
-
Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a c. di V. Abati, Bollati Boringhieri, Milano 2003.
- Saggi ed epigrammi, a c. di L. Lenzini, pref. di R. Rossanda, Mondadori, Milano 2003.

Bibliografia della critica citata:

- R. Luperini, La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini, Editori Riuniti, Roma 1986.
- C. Fini, L. Lenzini, P. Mondelli (as c. di), Indici per Fortini, Le Monnier, Firenze 1989.
- P. Giovannetti (a c. di), «Se tu vorrai sapere...». Cinque lezioni su Franco Fortini, Punto Rosso, Milano 2005.


note

1. PS, p. 73.

2. Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, (1966). Questa attenzione alle tesi di Benjamin, già presente in Paesaggio con serpente, si sostanzierà in Composita Solvantur (1994) sul piano dell’adesione ai nuovi codici espressivi.

3. Mi permetto di rimandare alla mia plaquette, Poem of the roses. Linguistic expressionism in the poetry of Franco Fortini, Leicester: Troubador, 2004.

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[5 luglio 2011]

home> fortinianaSenso e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di Franco Fortini