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e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di
Franco Fortini
Senso e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di Franco Fortini
Erminia Passannanti
.
“Il lettore intravede un ordine nel testo ma è solo una possibilità, un appello a una umanità che chiede al lettore l’incarnazione reale.” (“Arte e proletariato”, 1951)
..
Se è vero che la poesia lirica assolve in primis alla funzione di dare espressione verbale a sentimenti o stati mentali che chiedono con forza e trasporto di esternarsi, tale funzione diventa particolarmente sintomatica quando a rappresentarla è uno scrittore come Franco Fortini che ha dedicato tutta la sua esistenza ed il suo impegno alla comunicazione di valori civili e culturali profondamente compresi e difesi, nella prospettiva mai rinunciata di un rapporto diretto, e quasi intimo, con i suoi interlocutori. Autore di poesie a carattere allegorico, Fortini manifestò nei suoi scritti poetici, come nella saggistica, una forte intenzione dialogica – e tutti convengono su questo aspetto della sua opera - avendo temperamento dialettico, unito ad una vitale inclinazione pedagogica, tanto energica da indurlo costantemente a riflettere e teorizzare sui problemi ed i modi della ricezione del testo letterario: poesia come proposta di scambio, poesia come idea comunicabile oltre i codici e i sottocodici del suo tecnoletto, e proprio in ragione di questo, anche poesia come errore e malinteso, come chiarisce senza mezzi termini il titolo della raccolta del 1959, Poesia ed errore. A proposito del rapporto tra parola, emittente e destinatario, ne L’ospite ingrato (1988), Fortini, presumendo per il poeta un ruolo mediatore simile a quello di un sacerdote, attribuzione dunque idealmente comunicativa, osservava:
.
Essere scrittore significa sapere portare al massimo di coerenza questa diversità, usando il linguaggio, non già essendone usati. Essere poeta significa arrivare a fingere di essere usati dal linguaggio, di essere attraversati come da un dio, di diventare tramite.
Molte
poesie di Fortini si presentano come atti comunicativi meticolosamente
premeditati, aperti all’interazione con il lettore, per
stimolarlo a porsi dinanzi a tracce o “segni di
percorso”, che lo aiutino ad addentrarsi nei meandri del
processo di semiosi, come suggerisce la poesia interpellativa,
“Neve e faine”, del 1949, pubblicata nel 1959 in
Poesia ed errore, in cui è presupposto
non uno ma
più interlocutori a disquisire sulla natura umana,
“nostro onore somigliare a brute cose”, e sul senso
dello scrivere poesia “c’è melodia in
queste parole?”
A questo gli altri ci hanno ridotti,
nostro onore somigliare a brute cose,
non avere traccia d’uomo. Ma dunque
c’è melodia in queste parole?
Si, ma rotta sul volare del vento.
Dunque un lamento in questi versi udite?
Si, ma delle faine per la campagna.1
Il
problema e la responsabilità del rapporto col destinatario
è infatti una costante dell’opera di Fortini, che
nei versi citati sembra dare voce a due componenti costitutive del
dialogo, correlando gli elementi che nel testo rispondono al piano dei
contenuti con quelli che attengono al piano della forma, mettendo in
risalto inoltre il logoramento del codice convenzionale di questo
scambio: “A questo gli altri ci hanno ridotti”.
Nel saggio “Crisi degli intellettuali”, Fortini
aveva spiegato come la scrittura muova da un fenomenico sensibile
già disposto secondo schemi culturali precisi che impongono
al testo le tensioni e le contraddizioni di cui lo scrittore deve
assumere responsabilità e coscienza, per superarne
ideologie, visioni del mondo, criteri di giudizio e linguaggi
ereditati. (Fortini, Verifica dei Poteri 1965: 67).
In epoca
contemporanea, spiega Fortini, ad ogni progresso della conoscenza
scientifica sembra corrispondere una diminuzione della funzione
didascalica della letteratura: una poesia non può, da sola,
superare una data visione del mondo creata dalla tensione prodotta dai
rapporti che intercorrono tra l’industria e lo scrittore
“in quanto uomo”. La scrittura, in versi o in
prosa, dovrebbe, dunque, fondarsi, se non altro, su un concetto di
“resistenza”. Questa resistenza, connaturata alla
poesia, dovrebbe essere fortemente imposta al linguaggio della critica
per evitare che si riduca a mero fideistico formalismo libresco. La
critica autenticamente impegnata deve, infatti, fondarsi sugli stessi
principi della lotta partigiana, come forza dissidente. Tale processo
implica, al contempo, passività e dinamicità,
devozione e innovazione, fino al momento in cui la presa di coscienza
non sfoci nella scelta di una tematica. Già nel 1946,
Calvino definiva Fortini: “un poeta della resistenza
perché la sua vena di tristezza non è mai di
abbandono o rinuncia, la sua nostalgia di lunghissimo esilio non
è mai impotente desiderio di evasione [...]
(bensì) pacata, epigrafica tecnica di lirica cinquecentesca
fatta spesso di un verseggiare divertito e addirittura a tratti
parodistico come nella poesia ‘Consigli al
morto’...” (Fortini, Poesie scelte
1938-1973, 1974:
25):
Sempre vigile alle sollecitazioni della storia, la coscienza civile perennemente all’opera nelle poesie di Fortini saldava le esigenze del poeta lirico con la passione politica ed ideologica dell’intellettuale engagée. Scrive Fortini: “Ebbene, questo aprirsi di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni, ma all’altro da sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale – che è di tutti i capolavori – perché il discorso continui in filosofia, in scienza, in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal Romanticismo scende alle Avanguardie e a noi.” (Fortini, Verifica dei poteri: 117).
.
Pressappoco
un decennio intercorre tra la pubblicazione nel 1973 di
Questo muro, e quella di Paesaggio con
serpente, nel 1984. La nuova
raccolta si affaccia sul mercato editoriale in una fase storica che
vede l’Italia afflitta da un sistema politico ormai in crisi
istituzionale permanente, notoriamente gestita con arrogante impudenza
dal leader socialista Bettino Craxi (Paul Ginsborg, Italy and
its
Discontent 2001: 137). In questi anni, la produzione
fortiniana, di cui
altrove ho illustrato la serrata infratestualità
(Passannanti, UCL: 2004), che in questo decennio è da
riferirsi a Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984
(1985), Obbedienze.
1. Gli Anni dei Movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985
(1997) e Il
ladro di ciliegie ed altre versioni di poesia (1982), diventa
più intensa e viva, affrontando temi di critica sociale e
politica, soffermandosi su questioni inerenti alle lotte dei movimenti
femministi, alle rivolte studentesche alla politica estera in Cina,
Guatemala, Russia, consegnando alla pagina culturale anche del
Manifesto riflessioni sulla politica dello Stato di Israele e sul
sionismo, dando il suo parere su questioni scottanti di ordine
pubblico, contestando l’idea scientifica di progresso,
commentando il dissenso in URSS ed Europa, insomma collocandosi nel
pieno del dibattito tra intellettuali e società. Troviamo,
riflessi nella prosa fortiniana tra il 1973 e il 1984, soggetti che
sono commistioni di cultura, politica ed attualità, come i
referendum per il divorzio e l’aborto, l’assassinio
di Pasolini, le tragedie ambientali (Seveso), guerre e stragi nel
mondo, il divorzio tra PC e USA promosso dall’eurocomunismo
di Enrico Berlinguer, la spirale terroristica culminata con
l’assassinio di Aldo Moro nel 1978, la strage alla stazione
di Bologna nel 1980, l’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Ed
ancora, i conflitti tra l’arte ed il mercato, la decadenza
dei media, questioni di diritto tra la sfera civile e la sfera
religiosa nell’orizzonte di cambiamenti stimolati dalla
laicità, tuttavia ostacolati dai veti posti dalla
società cattolica, la cui forte ortodossia censoria frenava
perfino il concretizzarsi di riforme altrove da tempo realizzate. Oltre
alla produzione creativa di poesia, narrativa e scrittura drammaturgia,
aumentano le pagine che Fortini dedica ai saggi di critica letteraria,
ai brani diaristici e memorialistici, atti ragionativi attraverso cui
trapela il trauma dell’Italia a partire dagli anni
postbellici fino alla storia recente, filtrati dalla sua esperienza
prima di figlio di ebreo perseguitato dal regime, dissidente
convertitosi alla religione valdese, partigiano e dunque, prima della
docenza, impiegato dell’industria editoriale. Oltre agli
articoli di giornalismo politico, si intensificano in particolar modo i
saggi di storia della cultura, della quale Fortini oggi è
ritenuto, come Pasolini, Cesare Cases e Cesare Segre, interprete tra i
più colti, intuitivi e sensibili che abbia avuto
l’Italia del secondo Novecento.
Paesaggio con serpente rivela, dunque, in forma di
poesia, un Fortini,
che si avvia alla delusione, ma pur sempre combattivo, alla costante
scoperta e simultanea messa in discussione del ruolo
dell’intellettuale e della funzione della poesia, uomo tra
gli uomini, che vuole recuperare l’umanità dalla
miseria e dall’oblio, come teorizza il Marcuse di Eros
e
civiltà, con un atto di tragica fiducia
nel futuro
per affrancarlo dalla sua brutale preistoria (Fortini, “Due
interlocutori”, Saggi ed epigrammi, 2003:
1395). Un Fortini
che si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a
riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta
polifonico, in cui coabitano singolarità e
pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche
avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per
sua natura, il testo è sempre “sociale”,
“per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o
esplicita” (Fortini, “Poetica in nuce”,
1962, in Saggi ed epigrammi, cit.: 962). Lo si
scopre, in queste
poesie, dinanzi a continui atti di coscienza, dubbi e confessioni,
spesso angustiato dal presente, senza tuttavia perdere di vista il
senso dello scrivere in ragione delle generazioni a venire, che egli
contribuisce ad educare ad i valori progressisti ed umanistici:
principi fondanti che erano stati a lui stesso indicati tra il 1936 e
il 1939 dall’amico e maestro, Giacomo Noventa, durante i tre
intensi anni di dibattito culturale sulle pagine di La riforma
letteraria.
In Paesaggio con serpente si riversava, dunque, ma
mediato dal
linguaggio figurato, tutto il paesaggio del bene e del male del
decennio 1974-1984, su cui Fortini aveva ampiamente scritto (si vedano
in particolare i saggi compresi in L’ospite ingrato
secondo),
e su cui da docente era necessariamente chiamato a ragionare, al di
là delle questioni connesse alle istituzioni letterarie e a
quelle legate al canone. Paesaggio con serpente
verosimilmente include
molto di personale, a partire dalla necessità di sottrarsi
dal rigore autoimpostosi dell’intellettuale tradizionale che
iniziava a pesargli, e dal dispiacere per le incomprensioni con i
diretti interlocutori della sfera accademica e studentesca. Tutto
questo si affiancava non senza disagio alla delusione politica nata in
ragione di una lotta di classe vista non più come
spartiacque per i rapporti tra l’intellettuale impegnato e
chi bada solo al profitto e a questioni di mero potere. In questo
“fiele” epocale, Fortini mette in chiaro il proprio
marxismo critico, nei saggi “Più velenoso di
quanto pensiate” e “Che cos’è
il comunismo”,
entrambi analisi
puntuali e dirette sulla Nuova Sinistra e suoi nuovi modi di censura
interni al pensiero dissidente, intessuto, secondo Fortini, di fandonie
fabbricate in nome della coerenza ideologica, una coerenza velata di
verità, tanto più falsa quanto più
imperante in dati ampi contesti sociali, storici e geografici. Le
“catene” spiega Fortini rivolgendosi ai giovani del
PCI, non sono solo quelle celate dall’appartenenza ad una
data religione, e nemmeno quelle imposte dal pensiero delle classi
dominanti, ma sono anche le “catene” connesse alla
coerenza interna della militanza, che spesso si coagula in
comportamenti da setta, gravandosi di sterili conflitti e penose
contraddizioni interne, in misura non inferiore a quella dei propri
antagonisti. (p. 1457)
Puntando sulla funzione gnostica della poesia, che in Paesaggio
con
serpente è rappresentata emblematicamente da un
rettile che
induce a cibarsi del frutto della conoscenza (Genesi: 3,1), e in tal
modo uccide, Fortini pone nella sua scrittura un cardine
allegorico-polemico, facendo luce su uno spaccato epocale altrimenti
caotico, buio e contorto. A livello dei contenuti, le varie poesie
reiterano, similmente ai saggi citati, come i paradossi insiti in ogni
ideologia (o teologia) al potere, inclusa la critica marxista della
società, si manifestino all’intellettuale
dissidente quanto più il partito ne propagandi o ne forzi la
coerenza. La scelta dei testi coerentemente informa
dell’umore che in quegli anni condizionava non solo il
giudizio, ma anche lo spirito di un italiano come Fortini intimamente
travagliato dalle questioni politiche e culturali che affliggevano sia
la propria nazione sia la propria stretta sfera ideologica: un disagio,
a suo dire, finanche fisico dinanzi alla infecondità
dell’assillo morale. Tutto il volume è concepito
come atto comunicativo ed affida alla poesia allegorica il compito di
colpire il lettore con un’indicazione di percorso. Negli atti
comunicativi, infatti, teorizzano Peirce ed Eco, il processo di semiosi
si mette in moto presso il destinatario sulla traccia di segni, che
trascendono quelli determinati razionalmente dall’emittente.
Il processo si complica quando l’autore del messaggio in
questione, nella fattispecie il Fortini professore e studioso di
filologia e critica del testo letterario, assolutamente consapevole
delle dinamiche insite negli strumenti linguistici, stili, generi e
canoni che impiega, attiva il processo semiotico in ambito
didattico-comunicativo, ricorrendo qui al tropo del morso del serpente,
come segno di una malattia mortale, kafkaniamente subdola,
kierkegaardianamente incombente e fatale, per disseminare il testo di
indizi, sintomi e comportamenti, che conducano il lettore a
comprenderne e condividerne il messaggio, ovvero i fini.
Come chiarisce Luca Lenzini nel saggio introduttivo al volume
antologico Franco Fortini. Saggi ed epigrammi
(2003), “Le
parole della promessa”, dal titolo indicativo di tale
costante impegno alla comunicazione,: “Presiede a questi
testi l’intenzione di una coincidenza tra lavoro
intellettuale, pratica (anche stilistica) del letterato, e fini di tal
lavoro e di tale pratica.” (Lenzini, 2003: XXXVIII)
L’attitudine che Fortini manifesta in Paesaggio con
serpente
è, come si comprende, di chi si ponga dinanzi a delle
verità di presunta chiarezza con i presupposti di rivelarne
le effettive oscurità. Tale nozione viene esplicitata nella
poesia “Molto chiare”:
Lo
sguardo è là ma non vede una storia .
Si
avverte,
in questa sequenza di versi, il dilemma di una
“voce” autoriale, che, autoriflettendosi, si
presenta come esito di un processo di coscienza che si fa carico della
“crisi della critica”. L’errore
è dell’individuo, ma altresì
dell’ideologia, e dunque del partito, allorquando creda nel
proprio “perfezionamento illimitato” (Fortini,
“Che cos’è il comunismo”, in
Saggi ed epigrammi, 2003: 1655). L’errore,
culturalmente
ereditato dallo scientismo e dall’Illuminismo, è
credersi capace di uscire fuori dai limiti del proprio ciclo
“biologico e temporale”, diventando pensiero
sovraumano, capace non già di creare unità,
fraternità e condivisione, nell’orizzonte della
fallibilità e radicale infermità della specie
umana, ma solo di creare “sottouomini”, indotti ai
limiti della pretesa del sapere e della sapienza etico-religiosa. In
linea con le istanze del “pensiero della crisi”,
soprattutto con le tesi di Horkheimer e Adorno, polemici verso la
cultura tedesca liberal-capitalistica, Fortini è
radicalmente avverso a quello che comporta il vivere
integrati e subordinati alle premesse e condizioni alienanti della
modernità massificata; in particolare, il testo introduce il
motivo della contraddizione per suggerire i modi in cui la cultura di
massa, emarginando ed asservendo le forme ideologiche sue antagoniste,
adombri le differenti realtà compresenti del vivere
collettivo, con incessanti processi di mistificazione, che, sopprimendo
ed assimilando a sé la dissidenza, creano
l’illusione che una data inglobante concezione del mondo
possa effettivamente neutralizzare positivamente ingiustizie e
conflitti sociali. Scrivere
versi diventa un modo rapido, un modo economico e,
ahimè, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita
psicologica o un trattamento psicanalitico. [...] Insomma, nella poesia
ci si trova di tutto ma lo si trova ad una distanza tale che ricorda
continuamente la necessità di prendere le distanze. Qualcuno
alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in
presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece
che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un
sogno. (Fortini, “Cos’è la
poesia”, RAI Educational, 1993). . Commentando
la consapevolezza acquisita circa i limiti della parola poetica, a
proposito di Dante “avanguardista”, Fortini notava:
“La testimonianza vivente della sofferenza ininterrotta che
la divaricazione fra significante e significato infligge,
istituzionalizzata dall’età nostra, alla parola
umana.” (Fortini, «Il messaggero», 14
luglio 1981). In Paesaggio
con serpente, similmente, la parola poetica, combattuta tra
forze
contrapposte, si fa forza di un extratesto pittorico, che nella
fattispecie è quello di Rosso Fiorentino. La pittura lascia
sul terreno segni che non sono concessi con la stessa
intensità e rapidità comunicativa al linguaggio.
Il ritorno alle virtù rivoluzionarie del barocco avviene per
Fortini attraverso i dipinti di Poussin e Rubens, da una parte, ma,
dall’altra, anche dei versi di Góngora, Milton e
Tasso. Il titolo stesso del volume si riferisce ad un dipinto
dell’artista barocco Nicolas Poussin, Paesaggio con
uomo
ucciso da un serpente (1648), il cui “sublime
terrifico” richiama allegoricamente l’impatto delle
catastrofi naturali sul corso delle vicende umane, e lo fa
mediante l’immagine di un’imminente tempesta che fa
irrompere il caos sulla apparente quiete del paesaggio, richiamando la
dignità eroica e l’ideale del “gusto
grande” del barocco francese. Poussin, con il suo gusto per
gli scenari naturali che fanno da sfondo a inquietanti eventi epici o
mitici, offre, infatti, a Fortini lo spunto di un “modernismo
anti-moderno”, come lo ha definito Guy Scarpetta, una sorta
di mondo al contrario dotato di falsa armonia, un gioco di riflessi e
di inganni come di una realtà che resiste a svelarsi, celata
dietro l’apparenza delle cose. La concomitante ripresa in
questa raccolta dello stile delle avanguardie simbolista, modernista ed
espressionista è intesa ad articolare rimandi, capaci di
determinare ambiguità perfino a livello strutturale, con una
commistione non solo di stili, ma anche linguistica che include
citazioni in varie lingue straniere, come nella poesia
“Stammheim”. Sul piano tecnico, i rifacimenti e le
traduzioni dalla lirica barocca spagnola e inglese (si pensi alle sue
versioni dei sonetti di Góngora o delle elegie di Milton)
che Fortini inserisce nella struttura del volume, agevolano la
polifonia della raccolta, una tecnica che troverà il suo
apice in Composita solvantur, del 1994. A partire
dal titolo, Paesaggio
con serpente assembla motivi desunti sia dal concettismo di
Góngora, sia dal Tasso. Come l’Ortega y Gasset
delle Meditazioni sul Don Chisciotte (1961), qui il
nostro autore
sviluppa un intenso interesse per la lotta dell’uomo contro
le potenze distruttrici, come fa il Milton di Paradise Lost
o il Goethe
di Faust. Il
nucleo
della raccolta è costituito dalla sezione “Di
seconda intenzione”, che si apre con la poesia “Via
Cardinal Federico”, la quale allude al supplizio del rogo
inflitto alle donne accusate di stregoneria durante la reggenza di
Federico Borromeo. Segue “Monologo del Tasso a
Sant’Anna”, ispirato all’operetta morale
leopardiana “Il dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
familiare”, in cui il folle e autoironico dolore
dell’io monologante del grande poeta epico Cinquecentesco fa
da specchio ad un tentativo di ritratto autoriale, e
ciò nonostante Fortini avesse altrove notato:
“bisogna cercare di evitare l’inganno della
identificazione che è così corrente
scolasticamente”. (Fortini,
“Cos’è la poesia”, RAI
Educational, 1993) Le poesie di questo periodo segnano il fenomeno del
“grande riflusso”, che coinvolse anche le forze di
sinistra, fase questa che implicò la messa in discussione
dei maggiori sistemi ideologici ormai dimostratisi inadatti a fornire
risposte reali alle esigenze della società e del Paese. In
relazione a tale situazione epocale, e richiamandosi alla condizione di
Torquato Tasso nella prigione di Sant’Anna,
l’espressisene che Fortini conia per autodefinirsi,
“ospite ingrato”, probabilmente designa,
nell’orizzonte di un suo generale calo di fiducia nella
militanza politica, certo indotto dalle aspre polemiche scoppiate
all’interno degli ambienti intellettuali marxisti, non privi
certo di pregiudizi ed opinioni collettive omologate, soprattutto il
attaccarsi ad un obbligo di resistenza mentale contro quello che
Fortini riteneva essere il vuoto conformismo avanguardistico della
Nuova Sinistra. Nei versi di questi anni, contribuisce a rappresentare
il trauma storico degli anni segnati dallo “stragismo,
l’adozione di un registro espressivo più aspro e
veemente, a tratti ostinatamente argomentativo, a tratti
orgogliosamente oscuro, quasi manifestando la condizione psicologica
dello spirito in rivolta. La poesia dal titolo “Al pensiero
della morte e dell’inferno” è un
rifacimento di un sonetto di Góngora. L’interesse
per Tasso e Góngora motiva analogamente la presenza, in
questa parte della raccolta, di una serie di poesie che si mettono in
relazione dialogica con la tradizione letteraria alta, dai temi della
grande drammaturgia europea, del teatro shakespeariano (“Da
Shakespeare”), del dramma pastorale (“Traducendo
Milton”), dell’allegorismo pittorico barocco
(“Nota su Poussin”) al razionalismo filosofico di
Cartesio (“Il massimo di luce”). Mi
è stato fatto non so quando un male.
Partendo dal
pessimismo cosmico di Leopardi, la ripresa di Fortini della sofferenza
come topos novecentesco, passando attraverso la totalità del
“male di vivere” montaliano di Ossi di
Seppia,
giunge all’inquieta nozione di intima
“ferita”, del Rebora di “Curriculum
Vitae”, dove è detta una condizione di lutto di
sé: Il
tema dei
segni lasciati sul terreno per essere interpretati dal lettore ora sono
quelli della ferita narcisistica, come si legge in altre due liriche
dai contenuti analoghi, “La buonanotte” e
“Molto chiare”. Ne “La
buonanotte”, disteso nella solitudine che precede il sonno,
arrovellandosi, la voce poetante perviene ad uno stadio di
ipercoscienza: Dimmi,
riesci a credere Verrà
nella stanza da bagno un chiarore di neve.
Comincerò Non
ho sentimento di amicizia per te Ora
chiamano me Così,
lacerato da forze che lo trascinano in due direzioni
opposte, egli (Fortini) ruota un po’ disperato su
se stesso, si impoverisce e affabula accanitamente: trovandosi
così quasi sempre respinto magari di un soffio fuori dalla
rosa del tiro della grazia. Eppure si ha la netta impressione che egli,
nel fondo, voglia proprio questo. Essere cioè dimostrazione
vissuta – “martire” nel senso etimologico
della parola – di una nuova cultura e di una nuova ideologia
letteraria, che escludono, per definizione, sia l’umanesimo
che l’irrazionalismo della poesia. (Pasolini, Passione
e ideologia, 1960: 469) Perché
pietà per quell’ombra,
perché Il
rischio di scambiare difficoltà personali con situazioni
a dir poco universali, di mitologare la biografia? Certo. Ma se rileggo
quel che scrivevo, nel 1957, a conclusione di Dieci inverni,
mi dico
che è proprio vero: quando non si spera più nulla
per sé si comincia a vedere più chiaro.
C’è luogo a procedere: nell’ordine
dell’agire pratico ossia politico e anche in quello,
paradossale più di sempre, della parola letteraria. Che
ormai solo se accetta di venir emessa senza speranza di ritorno o di
eco può attraversare, quando che sia, il corpo dei suoi
destinatari. D’altronde, come far capire che la nostra
speranza non è in un futuro cronologico se (come suona una
amica parola) “il mio futuro non è che il presente
di un altro”’? (Fortini, Verifica dei
poteri,
1965) 1. PS,
p. 73.
2.
Cfr.
Walter Benjamin,
L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, (1966). Questa attenzione
alle tesi di Benjamin, già presente in Paesaggio
con
serpente, si sostanzierà in Composita
Solvantur (1994) sul
piano dell’adesione ai nuovi codici espressivi. 3.
Mi
permetto di rimandare alla mia
plaquette, Poem of the roses. Linguistic expressionism in the
poetry of
Franco Fortini, Leicester: Troubador, 2004.
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[5
luglio 2011]
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e semiotica in «Paesaggio con serpente» (1984) di
Franco Fortini
Di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Sia in “L’ordine e il disordine”,
già pubblicata in Questo muro e
riproposta in apertura di
Paesaggio con serpente, sia in “Molto
chiare”, la
poesia che chiude la raccolta, Fortini ripropone la presenza di
dicotomie nella natura stessa di quella che consideriamo la coerente e
compatta realtà,
(“chiarezza/oscurità”,
“noto/ignoto”). Nel rapporto tra ciò che
è reale con ciò che è psichico
(“l’ostinato che a notte annera le
carte”,”Puoi contare ogni foglia”,
“L’autobus ne porta via qualcuna”,
“Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi”), le tracce
visive delle cose nel mondo sono riportate con rigore straniato
(“Non vede una storia”, “Non sa
più chi sia”). Nell’ambiguità
di questa distanza percettiva, la decodificazione del messaggio del
soggetto deve rimanere incerta (“È niente?
È qualcosa?”), in quanto condotta “coi
segni di una lingua non più sua”, che non
chiarisce, ma “replica il suo errore”. Si noti il
ricorso a frasi interrogative e ad un lessico che apre ipotesi, dubbi e
dilemmi. L’interazione con gli aspetti fenomenologici del
reale è definita nella prima stanza come “un
lavoro imperfetto”. L’endecasillabo
dell’incipit “Molto chiare si vedono le
cose” contrasta distintamente con il penultimo verso, che si
presenta con tono colloquiale, “quando è passata,
è passata l’estate”. Adottando ritmi
vicini al parlato, Fortini riflette sulla fine della giovinezza con un
tipo di rassegnazione che potrebbe apparire senso comune. La percezione
desolata della perdita del proprio tempo vitale, “la forza di
luglio era grande”, che si consola al vaglio della ragione
è palese nel verso “Però
l’estate non è tutto”. Qui si rafforza
l’altro tema della seconda fase della poetica di Fortini,
quello del senso del limite (della ragione lasciata al senso degli
Altri).
La caratteristica ulteriore della raccolta Paesaggio con
serpente
è la tendenza al “concettismo”, ripreso
da autori del Seicento e Settecento, che consentirà a
Fortini di assumere quella “strabica” posa
pseudo-classicista, di cui lo rimprovera Luperini ne La lotta
mentale.
A questo proposito, nell’intervista del 1993,
“Che cos’è la
poesia?”, Fortini dichiarava:
Non c’è modo più forte di attirare
l’attenzione del lettore che presentagli dinanzi i segni
residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza,
ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle
arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la
negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma
anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre
della Madre Terra. L’iconografia biblica classica, infatti,
raffigura il Serpente mentre tenta Eva a disobbedire al dio padrone per
essere partecipe della Conoscenza del mondo qual è,
disobbedienza che costa la dannazione eterna. In tal senso, il rimando
di Fortini all’uso che Poussin fa del serpente in due suoi
dipinti paesaggistici, Il giardino di Flora
(1631), che pone
il mito al centro di una scena di nudi epicurei e baccanti, e
Paesaggio con uomo ucciso da serpente (1648), che
allude invece ad un
dramma umano, ha una duplice intenzione didascalica di andare al di
là dell’interdizione che la cultura ebraica ha
fatto del simbolo del serpente. Raffigurato mentre sbuca fuori dalle
profondità delle radici in culture altre da quella
giudaico-cristiana, in cui tendenzialmente appare nel cavo di un
albero, o avvolto intorno ad un emblema di forza e potere virile,
il serpente indica non già le insidie celate nelle
profondità, ma l’energia vitale stessa che si
desta e si slancia verso l’alto, emergendo
dall’oscurità come la cieca violenza della natura
verso il lume della sapienza.
Il barocco offriva a Fortini lo stile per deformare il messaggio con
mezzi espressivi ritenuti ormai desueti, per i quali
l’iperornamento, l’eccesso retorico,
l’ambiguità, e l’elevazione del
paradosso a modello di pensiero diventavano di nuovo legittimi. Il
serpente di questa raccolta altro non anticipa che la lirica
“L’animale”, del 1985, analizzata nei
dettagli da Luperini ne La lotta mentale: il grande
dramma di Poussin,
ripreso in Paesaggio con serpente, apre infatti
magnificamente la
strada alla composizione del piccolo-grande dramma
“ecologico” (p. 107) in cui allegoricamente la
bestiola uccisa come in un rito sadico, insegna a stare in guardia
contro gli allettamenti del delitto teso da un animale avversario in
agguato, e leggere le tracce di questo spirito sanguinario, che altro
non sono che i segni dei rapporti umani di sfruttamento e dipendenza
reciproca, patto che in arte diventa quasi inebriante, e avvolge in un
unico movimento distruzione e rigenerazione. La volontà di
lotta della poesia “L’animale”,
emblematica di un’umanità disperata che si dibatte
tra pulsioni opposte, è accessibile per via
allegorica, oltre che segnica:
Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere e fulmineo eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
e non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà.
Quale simbolo dell’Io, l’animale che uccide ed
è, a sua volta, ucciso, rappresenta la base umana istintuale
e sfrenata, che la mente razionale rifiuta. Ne
“L’animale”, gli eccessi vitalistici sono
seguiti dagli esiti empi e drammatici (“e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà”) di
cui è artefice il “piccolo animale
sanguinario”, a sua volta vittima (l’animale
sanguinario ha morso il serpente e ne ha a sua volta subito il fatale
morso avvelenato). La seconda parte della poesia fa subentrare alla
crudeltà della scena notturna dell’uccisione
quella serena di un falso l’equilibrio contemplativo, che
stabilisce una contraddittorietà di fondo tra
realtà (“parti fetide e amare”) e utopia
(“Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele/ e
non è vero”).
Probabilmente, per Fortini, indicare la strada al lettore per accedere
al potere di questo simbolo tramite sia il dipinto di Poussin sia le
figure retoriche del linguaggio poetico, significava coltivarlo e
tramandarlo quale saggezza ritrovata alle radici della sanguinaria
umanità. Vale per questo motivo chiedersi che senso abbia
avuto per Fortini, a livello personale, richiamare la figura del
serpente che uccide un uomo in un paesaggio su cui incombente tempesta,
soprattutto se lo si immagina costantemente intento sia come individuo
sia come intellettuale engagé nel
compito difficile e mai
risolto del proprio cammino esistenziale ed artistico. Rappresentando i
conflitti del proprio ambiente ideologico e poetico, egli sembrerebbe
rivolgere i testi di questa raccolta, sviluppata all’insegna
del dilemma morale, attarverso il simbolo del serpente, ad
interlocutori altrettanto impegnati e colti – i soli
probabilmente in grado di comprenderne le stratificazioni di senso e le
contraddittorietà. Ma in realtà, a livello del
messaggio, l’allegoria mira ad altro e la coerenza del testo
poetico si risolve come sempre in un irrisolvibile conflitto di
contenuto e forma, traccia di un conflitto di prospettive sperato, mai
sedato, sicché dal confronto nasce il senso.
Fortini procedeva costantemente su due binari, quello letterario e
quello politico, e ne vorrei qui dare un esempio. Rifacendomi a una sua
riflessione sul comunismo quale modello di un procedimento
“per rendere sensibile ed intellettuale la
materialità delle cose dette spirituali”
(“Che cos’è il comunismo, Saggi
ed epigrammi, cit.: 1656), mi azzardo a dire che il nostro
autore desume
l’idealità’ di tale definizione teorica
dalla funzione stessa della poesia. È la poesia che sopra
ogni altra attività umana, conoscenza o scienza, si prefigge
il fine di indicare come interpretare le tracce del passaggio
dell’uomo su una crosta terrestre, la quale inghiotte queste
tracce e complica la semiosi di chi ne vada alla ricerca, o le riceva
ormai sbiadite, prive di senso apparente. A ben vedere, la poesia, nel
suo darsi come sistema di pensiero, istituzione, oltre che foggia che
esiste nel suo compiersi, si presenta come procedimento che, per quanto
tramato di errori, ha la pretesa, attraverso epoche e tendenze, di
indicare, non di rado anche con violenza concettuale, o altrimenti con
agire vatico, come leggere, attraverso la persona del poeta, nel libro
della sua fisicità, tutta la storia tragica
dell’umanità affidata al tempo. Fortini ne
è consapevole quando, nel saggio “Opus
servile”, assume il punto di vista di Adorno per il quale la
poesia “canta sempre alla tavola dei potenti”. (Saggi
ed epigrammi, cit.: p.
1650) È questa
condizione di idealità, che
Fortini nega alla poesia, che egli ancora assegna al comunismo. Mentre
definisce la militanza del giusto comunista, Fortini non fa che
definire il proprio ideale di poeta, un ideale quasi cristologico,
capace di riscattare e liberare l’umanità, e che
dissemina dappertutto nei suoi testi: “Chi questa lotta
accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli
uomini”. (p. 1655) A livello strutturale, inoltre, Paesaggio
con serpente è opera composita.
L’estetica di
Fortini, influenzata dalle tesi di Lukács e Adorno, in
questo decennio è sostanzialmente attenta
all’analisi che Benjamin aveva presentato delle tecniche del
collage e del montage, in cui esprimeva fiducia
nella riproduzione
meccanica dell’arte, la quale socializzerebbe
(commercializzandola) l’opera, affrancandola da ogni valenza
auratica fuori e oltre l’apprezzamento intellettuale delle
élites.2
Ma passiamo all’analisi testuale di alcune poesie di
Paesaggio con serpente. Già pubblicata in
Questo
muro, la
poesia allegorica “L’ordine e il
disordine”, ripresa dal Brecht di “A causa del
crescente disordine” (1932-4) – che rinviene
costantemente la presenza dell’antitesi nelle cose umane,
è costruita sulla giustapposizione dialettica di armonia e
caos nel mondo del molteplice. Fortini si distacca dalla compostezza
letteraria del linguaggio lirico, per adottare uno stile
espressionistico “Ma parlare in futuro solo del
disordine…. godi delle contraddizioni della vita macchiata
di sangue / che conosci”), atto a comunicare il proprio
disagio morale (“contorta esistenza”,
“sfruttamenti”, “carne lurida”,
“giustizia di classe”, “vita macchiata di
sangue”). Il polemos nel gruppo di versi
qui di seguito
riportati mette in luce forze oppositive interne sia al reale sia
all’Io. In questa complessa griglia di influenze, urgenze, e
obblighi morali, la ricerca da parte del poeta di un equilibro formale
appare, suggerisce Fortini, quasi un’insolenza, come recita
anche il noto testo di Brecht, “Brutti tempi per la
poesia”. La coscienza dell’impudenza dello scrivere
poesia ritorna a confrontarsi con la ragione storica nella poesia
“Come una dopo l’altra”:
Come una dopo l’altra dall’altra una
E un’altra ininterrottamente come lente o veloci
O come stagioni o come le ore o le api o le voci
O il pianto degli innocenti o lo stridio delle foglie
O il vocio delle onde delle gocce delle scaglie
Di pigna o l’ondulio della ragione nella sua cuna
O della dolorosa fortuna il lamento
Ma sopra come la dominante ostinata ragiona
E dice e ridice una verità.
In “Leggendo una poesia”, in memoria di Vittorio
Sereni, inclusa nella sezione “Una obbedienza”,
ritorna l’idea di un soggetto fatalmente ferito dalla vita,
che crea un distacco con se stesso e dal contesto offensivo, per
assumere una distanza critica perfino dai propri assunti. Tuttavia, il
dolore per un mondo deviato, dove i fratelli sono divenuti nemici, dove
il Capitalismo ed il materialismo hanno schiacciato la
realtà, mistificandola e consegnandola alla
non-autenticità, non confonde il Fortini poeta, vigile ai
segni pur minimi di rinascita:
Una ingiustizia strana e indecifrabile
Mi ha reso stolto e forte per sempre.
Leggo i versi di Sereni per Nicolò Gallo
E scrivo ancora una volta parola per parola.
Non tutto allora è vero quello che ho detto sin qui.
Posso anche io intendere chi noi siamo.
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è
tutto…
(Rebora, Canti dell’infermità,
1956)
di potere sollevare la coperta
e in uno dei prossimi giorni d’inverno
guardare come sono quelle tue mani?
La
difficoltà di stabilire un dialogo con il mondo esterno
ed il futuro è un campo visivo che di sfoca, aprendosi su
tenebre che somigliano alla morte. A questo futuro personale, psichico,
che declina, subentra l’altrui futuro, innegabile. Ne emerge
l’amara autoironia con cui Fortini successivamente, in una
poesia inclusa in Penultime, rappresenta il
processo stesso del
comporre versi in “Allora comincerò...”:
Buon latte d’aria, mite crema, affetto
che sempre hai desiderato e ora basta com’è.
Potrei volgere la mente alle tue cellule
dove palpitano stente
desinenze, musiche orbe,
brame goffe, gesti d’ira;
e chiedere ah non pietà ma di tornare
nel letto ancora a dormire.
Finché non esiga irritato il telefono
“Signore, prego, parli!” – la
scelta, la data
del contratto, l’ora della riunione,
il differimento di te a te medesimo,
la certezza che sono disfatti
gli antichi miceli nervosi, annientato il disegno
delle labbra in sogno ancora tenere
di chi un giorno ti chiamò amore.
una composizione che ignoro. Anime sante,
poeti e parenti, onorati e inonorati, voi
che le catene avete solo in sogno spezzate ma
(e sempre piangendo di averle spezzate ma
solo in sogno) monumenti venerabili e amari
e voi, nonni e antenati, rattrappiti nei colombari
che aveste il tempo della vita intero
per domandarvi che cosa mai fosse e perché
voi e perché non voi e le bestie perché
e perché il sogno spaventoso dello scuoiato,
voi tutte queste sillabe aiutatele
che accecate un nipote compone
prima della sua fine
con quelle imprendendo già tronca un’azione
come chi per incerto cielo parte
e seppure confidi che li aerei furiosi
alla scala casalinga vorranno restituirlo,
può trapassarlo il fuoco, precipitare urlando
e tutta lasciare in disordine la tua stanza sbalordita. E ancora:
il clamoroso parlare, la lingua sonora
degli italiani non potrà aiutarmi.
La
sfida (“ah nulla
potete insegnarmi che
io
già
non sappia”) è posta solo provocatoriamente sul
piano della metaletterarietà come
comunicazione/interpretazione del testo poetico. Ciascuna poesia
può aiutare ad intraprendere più vaste e attente
considerazioni. Esattamente questo suggeriscono i versi conclusivi: al
di là del sapere, oltre ogni contorta elucubrazione
intellettuale e disputa ideologica, oltre i paesaggi interiori, su cui
il poeta e i suoi astiosi interlocutori consumano il loro tempo,
c’è il mondo con la sua reale, spesso ambigua,
fruibilità. Hölderlinianamente, Fortini sembra
dire, nella natura è la sola verità:
Da quanti anni sappiamo, no? Che una rosa
non è una rosa, che un’acqua non è
un’acqua,
che parola rimanda a parola e ogni cosa
a un’altra cosa, egualmente estranee al vero?
Bravi filosofi, menti necessarie e voi quanti
negli istituti di ricerca del mondo poderoso
a mattini d’inverno dopo l’ora del tennis
fissate i tabulati, le analisi, le statistiche lucenti
la cultura dei batteri, il restauro degli argenti,
ah nulla potete insegnarmi
che io già non sappia, anche parlaste ore e ore.
Non è onnipotenza questa mia, è pianto di rabbia.
Neanche per la mia ignoranza domando scusa,
non c’è colpa né scusa.
Almeno una immagine, una visione sabbatica,
queste cadenze miserabili animasse!
Ma no, senza conoscenza né buona coscienza,
senza teologia, senza arte manuale
e nemmeno poesia, sebbene più ilare
che triste, più ansioso che sazio, più
indistruttibile,
anche nella stanchezza di tutto il vissuto secolo,
mi avvio veloce verso il mio rancore.
Qui
da poeta e pedagogo, Fortini
già
riflette su
quella che,
in una selezione di testimonianze di scrittori contemporanei, che
sentono di avere ereditato gli insegnamenti del nostro autore, Luca
Lenzini ha definito la “funzione Fortini”
(“La funzione nei poeti contemporanei. Questionario, I,
II”, in L’Ospite ingrato, 2009). Una funzione con
molte sfaccettature, che comprende l’insegnamento di un
percorso o filosofia di vita, il quale raggiunge il lettore soprattutto
attraverso l’avvicinamento ai suoi versi, che hanno carattere
più “corale” che lirico. (Velio Abati,
Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994,
2003).
E
chi aprirà i vecchi miei lessici e legga
le carte soffiando sulla polvere, almeno
abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi
se la mattina è acuta, esca.
Tornando a “Molto chiare”, la poesia posta a
chiusura di Paesaggio con serpente, e alla
dimensione
“corale” della poesia di Fortini, questa dice il
progressivo timore della voce lirica di emergere dal caos omologante
del crescente neocapitalismo, e di portare a termine il proprio mandato
intellettuale come responsabilità etica e coerenza politica:
dinanzi alla coscienza si apre una visione pessimistica del mondo, la
quale, benché guidata dalla volontà della
ragione, appare intimamente lacerata :“Lo sguardo
è là ma non vede una storia/ di sé e
degli altri”. Il motivo della chiarezza
(“limpidezza/nelle foglie illuminate, negli intonaci/ delle
case nuove, che ancora vedo”), nel suo essere una domanda di
vita, si oppone al temuto incupimento della coscienza. Il
torpore che precede il sonno non offre conforto al poeta, né
può consolarlo la visione lattiginosa e indistinta
d’una figura china al suo capezzale. La facoltà di
percepire se stesso diminuisce, le immagini si scompongono, si
addensano alla mente voci di contemporanei, forse quelle di Vittorio
Sereni, Giovanni Giudici, Luzi e Caproni, che nei loro versi hanno
già mostrano le crisi e le fratture a cui le poetiche
contemporanee vanno fatalmente incontro, come nota Luigi Corosso in
“Educare tra le rovine” (in P. Giovannetti, Se
tu
vorrai sapere. Cinque lezioni su Franco Fortini, 2005: 58) Il
testo di
“Molto chiare” presenta Fortini nel suo notturno
confrontarsi con un interlocutore interiore, inflessibile antagonista
di se stesso, a cui dice la propria ostilità:
L’incapacità
di attingere il
proprio
significato
biologico e pulsionale è dato, in senso lacaniano, come
rifiuto di identificazione nella propria funzione vitale. La
gravità del conflitto si manifesta nel desiderio di
autosoppressione dell’invocazione amletica: “Questo
puoi, ora questo: dormire”. Ne “La
buonanotte”, tale condizione di dissociazione rende
riconoscibile al poeta la propria umana incompiutezza. “Molto
chiare” e “La buonanotte” mostrano,
pertanto, una forte concomitanza per il ricorso al tema
dell’errore, della delusione e della sconfitta propria e
collettiva, una pietas creaturale ed insieme un
assillo per una
condizione di impotenza e incompiutezza che non concede affrancamento.
E dunque, in Paesaggio con serpente, penultima
raccolta di Fortini,
emerge tanto più forte, mentre affoga nel dubbio e nella
caduta upotica, la speranza di una poesia salvata dal diluvio (Corosso:
66). Anche in questo testo, l’inquietudine derivante dalla
vaghezza delle immagini pre-oniriche, o di imminente demenza o di
follia, che affollano lo stato di coscienza, conferma il timore del
poeta di non comprendere gli altri, e di non esserne compreso, una
sorta di nichilismo, causato da una grave e più estesa crisi
epocale, che si impone con insensata e lugubre nostalgia testamentaria,
ma che chiede di essere convinto del contrario. Vi è in
questi versi l’intensità del Kierkegaard di Timore
e tremore, che Fortini ebbe a tradurre nel 1948. La
soggettività che si autoriflette e accusa non nega il reale,
anzi lo riconosce come principio sovrano, regolato dalla morale. Come
nella poesia di Hölderlin,
“L’autunno” (“Le voci, che
dalla terra si dipartono, / Dallo spirito, che è stato e che
ritorna, / Si svolgo all’umano, e molto noi impariamo / Dal
tempo, che veloce si consuma….”, “le
voci grigie” fortiniane sembrerebbero richiamare il poeta ad
una missione disertata:
anzi più passano gli anni
più, amico mio, mi è difficile comprendere
quello che turba la tua mente. E anche la mia!
Deleuze e Guattari hanno sottolineato l’esistenza, in un
testo, di forze destrutturanti che ne attentano la logicità,
consentendo agli elementi liberatori di emergere. Non si tratta
però di un processo anarchico o schizofrenico – ma
pratico, vitale, semiotico che dissemina il testo di tracce.
Così interviene Pasolini, in un giudizio sulla poesia di
Fortini:
non miti e non crudeli le voci grigie.
Verso il loro mormorio
nella sera calma e certa dopo il pianto
va questa mia risposta.
Caduto il sogno utopico di Foglio di via e Poesia
e errore, e
dispiegatosi il tema del conflitto tra disordine e ordine, la tendenza
dominante nella poesia fortiniana di questo periodo vede la
concretizzazione di allegorie informate – forse perfino
manieristicamente ed espressionisticamente, come già si era
manifestato in Poesia delle rose, del 19623
– da una forte
propensione al pessimismo circa l’incomunicabilità
tra gli uomini e il declino delle funzioni poetiche nel presente
massmediatico e post-capitalistico. Nella sezione Penultime
(1984-1990)
ritorna l’atmosfera di “Questo verso”, in
cui vita e morte, felicità e disperazione, realtà
e immaginazione si confrontano nel timore costante della
responsabilità del giudizio morale.
L’identità
dell’“ombra” è duplice,
storica e metaletteraria, e rimanda all’identificazione di
Fortini con le istanze della poesia surrealista, come si desume dal
riferimento ad un verso di Éluard ,“egli fermava
contro il ferro la sua tempia”:
L’immagine è quella del poeta allarmato dal
vedersi ripiegato in una dimensione, privata ed imprigionante, che si
vede contestare il diritto di opinione –burbero promulgatore
di valori progressisti, legislatore di modelli letterari, mediatore
culturale inflessibile e integerrimo, pedagogo non delle masse, come
Pasolini, ma suo malgrado delle elites accademiche, che nella memoria
si ritrova bambino “atterrito”, come il proprio
padre, “dal mondo e da se stesso”
L’incompletezza percepita da Fortini, assimilato al fantasma
del padre (“lo assisto”, “lo
consolo”), acutizza l’incontro con i segni e gesti
della sua disperazione (“su quella ringhiera posavo la
fronte”). L’attenzione della memoria ricade su un
mondo percepito attraverso lo “sguardo” della
reminiscenza, che non consente alcuna certezza e verità,
come invece meglio riesce a fare il saggio, memoria rielaborata su
affetti perduti, messaggi incompresi, o irrisolti, verso cui solo
è data la semiosi delle tracce, come l’enigma
stesso del proprio ruolo e della propria esistenza. La parola poetica
ha dunque la funzione qui di evocare un’identità,
o totalità, per sempre scissa, divenuta penosamente
inattuale, ed esercitare da lontano il suo tributo alla natura sempre
rea degli individui quando non si diano al rigore della disciplina
dell’impegno. Laddove la ratio consente di mettere insieme le
forze tramite l’autocontrollo, che si esercita anche a
livello del linguaggio, in poesia tutto si compone
nell’orizzonte di un istantaneo spreco, che fa venire meno
ogni scommessa di senso, ogni illusione di coerenza e certa fine.
la scongiuro se scorgo
le orme di minuscole ferite
sui ginocchi dei ragazzi e, mi rammento,
gustavo fra i denti le croste brunite
raschiate alle mie cicatrici.
Atterrito dal mondo e da se stesso
egli fermava contro il ferro la sua tempia.
Rispondo che è per pietà per l’avvenire,
per il patire interminato che
entro tanto splendore uno spavento
come una bestia immane dall’azzurro
annunziava a quel misero tremante
nella felicità che il pianto libera.
Da qui lo assito, da qui ora lo consolo.
Infine introdurrei un’altra riflessione su quale fosse, per
il Fortini critico e polemista, il medium della comunicazione del dire
poetico con il mondo prosastico, disumano e violento della
storia, e di come fosse importante farsi interpretare. Nel saggio
“Brecht e l’origine dei Fronti Popolari”,
Fortini chiariva come, a partire dal 1930, fosse diventato
impraticabile e paradossale ogni idea positiva dei rapporti a venire
tra gli scrittori e i partiti. Nonostante la generale avversione nei
confronti del vitalismo rivoluzionario e delle istanze avanguardistiche
postmoderniste, Fortini rimaneva tuttavia in necessario rapporto di
contemporaneità con la tematica del limite, proposta da
Lyotard ne La condition postmoderne, del 1979. La tensione
intellettuale con cui Fortini conduceva la sua opera, lo condusse
dunque ad entrare in controversia perfino con se stesso. Non poche sono
le poesie dell’ultima produzione fortiniana in cui ricorre il
tema della frantumazione della razionalità ad opera delle
dinamiche in atto nelle società tardocapitalistiche. Come
specifica l’autore stesso nella premessa
all’edizione ampliata del 1974 di Verifica dei
poteri:
In tal senso, la scrittura poetica diviene premessa di un discorso
condivisibile, evidenza dialogica dell’esperienza
dell’Altro, nel suo darsi come momento ed incontro
di senso, un senso che Fortini vuole scambievolmente determinato, come
nota Nava in “Le ragioni
dell’altro”’ (1998), laddove il
destinatario - che non è solo il critico, proveniente da un
dato ambiente accademico e letterario, in dialogo intimo e consueto con
la sua opera, come accade per i monografisti di Fortini, Nava,
Berardinelli, Luperini, Pagnanelli, Jachia, Peterson, Lenzini e
Raffaeli, Abati – è autorizzato a pronunciarsi
sulle ragioni ed i fini del testo in versi, sulle sue
costruzioni/decostruzioni/dissoluzioni, sui suoi epicentri, limiti,
sensi, errori e paradossi, (ovvero a mettersi sulle tracce dei circuiti
ideologici, stilistici, perfino matrici, creati vuoi consapevolmente
vuoi inconsapevolmente dal poeta) e a diventarne, a pieno diritto,
conoscitore ed interprete: in altre parole a cedere al consenso
iniziale necessario all’autore, a disporsi a questo scambio,
ovvero alla possibilità che la forza mentale degli uomini in
dialogo tra loro attraverso l’arte e la letteratura possa
diventare un atto autenticamente rivoluzionario, che dissipa
intrinseche ambiguità, connaturate al testo letterario,
affrancarsi dai retaggi sia dell’industria culturale sia da
quelli ben piu’ insidiosi e discriminanti delle istituzioni
letterarie (Fortini, “L’istituzione
letteraria”,
Verifica dei Poteri, 1965).
Per indicazioni bio-bibliografiche, si veda Fini, Carlo, Indici
per
Fortini / Carlo Fini, Luca Lenzini, Pia Mondelli; con due
contributi di
Franco Fortini, Firenze: F. Le Monnier, 1989.
Bibliografia fortiniana citata:
- Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 19461,
19672.
- Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso
socialista
Feltrinelli, Milano 1957; II ed. De Donato, Bari 1974.
- Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano
1959; II ed. riveduta
Mondadori, Milano 1969.
- Verifica dei poteri. Scritti di critica e istituzioni
letterarie, Il
Saggiatore, Milano 19651, 19692;
- L’ospite
ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, Bari
1996; II ed. Marietti, Casale Monferrato 1985.
- Questo muro, Mondadori, Milano 1973.
- Poesie scelte (1938-1973) a c. di P. V. Mengaldo,
Mondadori, Milano
1974.
- Il ladro di ciliegie e altre versioni di poesia,
Einaudi, Torino 1982.
- Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi,
Torino 1984.
- Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994.
- Obbedienze.
1. Gli Anni dei Movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985,
Manfestolibri, Roma 1997.
- Un
dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a c. di V. Abati,
Bollati Boringhieri, Milano 2003.
-
Saggi ed epigrammi, a c. di L. Lenzini, pref. di
R.
Rossanda, Mondadori, Milano 2003.
Bibliografia
della critica citata:
- R. Luperini, La lotta mentale. Per un profilo di Franco
Fortini,
Editori Riuniti, Roma 1986.
- C. Fini, L. Lenzini, P. Mondelli (as c. di), Indici per
Fortini, Le
Monnier, Firenze 1989.
- P. Giovannetti (a c. di), «Se tu vorrai
sapere...». Cinque lezioni su Franco Fortini, Punto
Rosso,
Milano 2005.
note