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Per una verifica della gioia: Fortini traduce Kafka
 

Gabriele Fichera

                                                                   
             
                                                                     

                                                                     «“/ Potrei/ con questa uccidere, con la sola gioia…”»
                                                                       (Vittorio Sereni, Appuntamento ad ora insolita)

                                                                      «Di bene un attimo ci fu»
                                                                      (Franco Fortini, E questo è il sonno)



1. La «nausea» e il rituale: Kafka secondo Fortini


Con una felice intuizione Fortini, in un saggio su Kafka del 1948 incluso nella raccolta Verifica dei poteri, assimila l’essenza enigmatica dell’opera del praghese all’immagine, peraltro mutuata dai Diari dello stesso scrittore, di un rituale sacro in cui l’irruzione esterna dei Leopardi, e la conseguente distruzione dei vasi sacri, si rivela già prevista, ed anzi richiesta, dal rituale stesso. Con ciò il saggista vuole alludere al carattere di parabola inesauribile della scrittura kafkiana, sempre suscettibile, anzi desiderosa, di «un commento perpetuo che a poco a poco si incrosti nel testo medesimo»1. L’opera del praghese si presenterebbe come specchio, e parte integrante, di una realtà che si struttura come «operazione cultuale o magica», e che si sviluppa secondo una serie infinita di tramutazioni. Il lettore viene catturato all’interno di questa rete simbolica di significati, in cui ogni cosa sta per ogni cosa, e ridotto al rango di «assistente ai misteri»2. Secondo Fortini, a siffatto tipo di letteratura presa fra le spire di una metamorfosi infinita, cioè come dire di una cattiva infinità, affinché si trasformi da glossa morta a glossa vivente, si deve opporre un commento di «carattere non estetico»3. È il problema della prassi politica che qui viene convocato: solo la «critica delle cose» può, rifiutando l’orrore del mondo kafkiano, leggere davvero Kafka, cioè interrompere quella serie di tramutazioni, indicando la natura storica del male che è descritto in quelle pagine, e adombrando un suo superamento pratico in direzione di una società diversa, in cui tale orrore sia divenuto impossibile: «Perché quest’opera riviva per noi, perché (per usare il linguaggio eucaristico) si riproduca la tramutazione della specie, non di stregoni legati ad un rituale meccanico, hanno bisogno quelle pagine; ma di sangue nero e caldo […], ma di violenti lettori che quelle pagine invadano, rifiutando il mondo che ha visto soffrire e scrivere Kafka»4. È evidente qui la complessità dell’approccio adoperato da Fortini, tutto all’interno della dialettica fra appropriazione violenta e messa a distanza critica.
C’è però una prima, e immediata, smentita che la critica delle cose oppone a Kafka; ed è di carattere materialistico. La penna cade, dice Fortini, il libro finisce, il signor Franz Kafka muore: «Invece di una serie infinita e infinitamente inafferrabile abbiamo in pugno dei “torsi di romanzo”, dei “frammenti” di tramutazioni»; e ancora: «la forza delle cose conficca Kafka nella storia, chiede ragione dei suoi orrori, li riconosce nelle cose, negli uomini presenti, nella storia contemporanea. Dove si era voluto testimoniare dell’assoluto, si è testimoniato del relativo»5. Tale obiezione materialistica si rivela ben lungi dall’essere sufficiente. Ventidue anni dopo, nel 1970, Fortini torna su Kafka in due pagine, la cui scabra essenzialità appare direttamente proporzionale alla eccezionale densità d’interpretazione. Il piano dell’analisi non si discosta da quello delineato nel saggio del ’48, diversa però è la prospettiva da cui la “questione Kafka” è traguardata. Cresce la distanza dal praghese. Adesso il saggista parla di insostenibilità, addirittura fisica, della pagina kafkiana, e del senso di nausea che ne deriva per il lettore. Citando Sartre e Bataille, arriva ad usare l’espressione «imminenza del vomito»6. Essersi totalmente consegnato all’universo della deiezione ed avere espunto da sé qualsiasi «attesa del futuro»7, murando il proprio discorso all’interno dei confini della «formalità letteraria»8: sono questi i capi d’accusa principali evocati da Fortini. Ma l’obiezione più cogente a Kafka si sviluppa in un ambito esterno all’autore e alla sfera letteraria. È infatti la «critica delle cose» a non aver sortito gli effetti sperati. Non solo il mondo di Kafka non è stato sconfitto dalla prassi rivoluzionaria, ma esso ha trionfato a tal punto da divenire normale, quindi irriconoscibile. E ciò rende illeggibili le opere in cui quel mondo è rappresentato. Chiosa Fortini: «L’orrore non è oggi normalizzato, accettato e pubblico? Non sanno ormai tutti che nelle soffitte si processano e nei prati di periferia si sgozzano gli innocenti-colpevoli?»9. A partire da queste premesse diventa dunque sempre più difficile “usare” Kafka. Per farlo bisognerebbe innanzitutto superare un certo «kafkismo spontaneo» cioè l’orizzonte ideologico giovanile della negazione assoluta, per poi tentare di «vincere quelle pagine con ragionata freddezza»10 (corsivo mio). Per rendere Kafka e il suo mondo di nuovo visibili, e cogliere il carattere storico e transeunte del male che vi è rappresentato, bisogna dunque rompere lo «strato gelato» che ricopre e difende la zona interna dell’opera, e straniare, con pazienza da anatomista, questi oggetti narrativi in cui non è più in atto alcuna frizione fra la “verità” dell’orrore quotidiano e la “promessa di felicità” di cui si fa portatrice la poesia.


2. La traduzione delle rovine

Sedici anni dopo Fortini tenterà di dare risposta a queste esigenze, tanto politiche quanto letterarie, nella sua traduzione di La metamorfosi di Kafka. Il lavoro di stile che egli intraprende per questa traduzione è di tipo straniante. Sia nella Nota del traduttore che appone all’edizione dell’86 dei racconti di Kafka, sia nella conferenza dell’84 Venture e sventure di un traduttore il concetto è ribadito più volte. Il modello letterario che Fortini assume esplicitamente è quello delle Operette morali di Leopardi e i motivi di questa scelta sono individuati nella sfera linguistica. Questi scritti forniscono un mirabile saggio del grado di coscienza operante nel Fortini traduttore, ma sono anche un capolavoro di reticenza. Laddove infatti più ci si dilunga in dettagliate disquisizioni sul come tradurre correttamente il tedesco Ungeziefer o si mobilitano le migliori energie intellettuali per spiegare la necessità di mantenere la bipartizione sintattica, e ritmica, del periodo iniziale, lì si produce il sospetto che qualcosa di altrettanto importante non venga detta. Le Operette vengono additate come modello di scrittura asciutta, di ironia, e di voce in falsetto. Ma, verrebbe da dire, è tutto qui? Possibile che il rapporto con uno dei classici più esigenti della nostra tradizione letteraria si limiti all’uso di evidenti spie «pseudo-leopardiane», segnalate dallo stesso Fortini, con un’astuta mossa che insieme spiega e nasconde11? E infine quali sono i motivi ideologici e letterari per cui si sente il bisogno di affiancare al nome di Kafka proprio quello di Leopardi? Ripetiamo ancora che per Fortini il nome del praghese, come si è tentato di evidenziare nel precedente paragrafo, è di quelli che non smettono di fare problema. Perché continua a far coagulare attorno a sé un groppo di obiezioni radicali all’idea che Fortini ha della funzione e del senso ultimo della poesia nella cultura occidentale moderna. Un’idea che potremmo brevemente indicare, anticipando per un attimo un discorso che tra poco sarà più acconciamente svolto, con l’espressione «passaggio della gioia», titolo di un memorabile saggio fortiniano su Leopardi.
Che non sia “tutto qui” lo si può sospettare dalla lettura di un passo della conferenza su citata Venture e sventure di un traduttore. Conferenza che poi ha fatto da incubatrice alla successiva, e più succinta, Nota del traduttore sopra menzionata. Ad un certo punto Fortini cerca di spiegare il motivo dell’assunzione delle Operette a proprio modello linguistico: «il problema era quello di scegliersi un – direi quasi – canale, un modello di lingua italiana. Ora, l’unico modello di lingua italiana possibile per Kafka non è certo nessun narratore moderno italiano: bisogna spostarsi nel tempo e bisogna semmai andare a prenderlo in quelle prose glaciali, assolutamente polari che entusiasmavano Nietzsche e che sono le Operette morali di Giacomo Leopardi»12 (corsivo mio). Che si sia nutrita di questo tipo di osservazioni quella «ragionata freddezza», di cui Fortini sentiva la necessità, per vincere la nausea indotta dalla lettura di Kafka, sembra evidente. Ma l’autore aggiunge subito dopo un altro elemento di estrema importanza: «A me interessava – affrontando un temibile, grandissimo scrittore – avere a che fare con una materia sufficientemente liscia, sulla quale potessi fare dei movimenti personali»13. Di che natura siano esattamente questi «movimenti personali» non è facile intenderlo. Sicuramente essi sono mirati a demistificare Kafka, ormai assunto a figura ideologica esemplare della negazione assoluta. Tali movimenti scorrono intus et in cute, sotto la pelle della traduzione. A volte però aggallano.  Leggendo e rileggendo – Spitzer dixit – il periodo iniziale della Metamorfosi nella versione di Fortini, qualcosa si nota, che aiuta a comprendere. Gli inizi sono luoghi formali a cui, in generale, si riconosce una caratura simbolica molto precisa. E ad essi poi il praghese, ci tiene a sottolinearlo Fortini, conferiva un valore speciale; non solo banalmente letterario, ma anche «di carattere magico»14. E l’incipit della Metamorfosi, nella versione di Fortini, presenta in effetti una peculiarità assoluta nel panorama delle traduzioni italiane. Leggiamolo dunque: «Mentre un mattino Gregor Samsa si veniva svegliando da sogni agitati, nel proprio letto egli si trovò mutato in un insetto mostruoso»15. Già la scelta della coppia verbale imperfetto più gerundio – «si veniva svegliando» –, con la sua capacità di rendere felicemente l’aspetto durativo e processuale di questa orribile azione, che si compie a spese di Samsa, sarebbe da sola meritevole del più convinto encomio. Ma c’è dell’altro; quasi una stonatura, incistata di sbieco in questo calibratissimo organismo ritmico, che è l’inizio fortiniano della Metamorfosi. È così evidente che si finisce per non avvertirla. È necessaria qui una breve, ancorché scolastica, analisi del periodo. Esso è suddiviso in due frasi; la prima, una subordinata temporale, anticipa la principale, ma soprattutto contiene al suo interno, ben esplicitato, il soggetto – «Gregor Samsa» – che poi è lo stesso della principale. In lingua tedesca in situazioni di questo tipo è normale, e così fa difatti Kafka, riprendere comunque il soggetto attraverso l’uso del pronome personale. In italiano moderno questa ripresa non è affatto usuale. Ma Fortini adopera il pronome «egli», anche se il soggetto delle due frasi è lo stesso: «Mentre un mattino Gregor Samsa si veniva svegliando da sogni agitati, nel proprio letto egli si trovò mutato in un insetto mostruoso» (corsivo mio). Nessuno degli altri traduttori italiani ha usato una struttura sintattica simile, arcaica e al tempo stesso straniante. Nella resa in italiano delle altre versioni, al di là delle ovvie differenze, c’è un tratto sintattico comune: il soggetto «Samsa» viene “spostato”, rispetto all’originale tedesco, nella principale; la subordinata esplicita temporale viene spesso compressa in una implicita priva di soggetto espresso. Un esempio per tutti, preso dalla versione di Rodolfo Paoli: «Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo»16. In questa traduzione la sintassi tedesca è stata addomesticata, e rinserrata fra i ranghi della norma italiana. Ma così facendo ciò che viene meno è la portata straniante dell’incipit kafkiano. Nell’originale essa si manifesta, ad esempio, nell’accumularsi di ben «tre segni di negazione in due righe»17: unruhig (in-quieto), ungeheuer (e-norme) e Ungeziefer (in-setto). Fortini conserva questo riflesso perturbante dell’esordio kafkiano, dislocandolo però dal livello lessicale a quello sintattico. La sua versione si presenta inoltre con un periodo scandito in due parti quasi perfettamente uguali, come nell’originale tedesco. In questo senso sembra di essere di fronte ad una traduzione di servizio, quasi interlineare. Ma in questa apparentemente strenua fedeltà a Kafka il traduttore, con astuzia di colomba, nasconde in realtà ben altro. La ripresa pleonastica del pronome personale, ormai desueta, riporta il testo indietro nel tempo; si può dire, con le parole che lo stesso Fortini ha adoperato a proposito della sua traduzione kafkiana, che anche tale ripresa costituisce «un esempio fra mille di questa intenzionale regressione della tela linguistica di fondo»18. Ma dove si arresta questo moto a ritroso dello stile? Che si debba cercare fra le pagine delle Operette è il dato evidente da cui partire. Qui l’uso leopardiano di tale costrutto correlativo con ripresa pronominale non appare molto frequente. Ad un tratto però affiora, e nel più clamoroso dei punti: il Cantico del gallo silvestre. Come si ricorderà, in questa operetta, la narrazione prende temporalmente le mosse, come la Metamorfosi kafkiana, da un’alba fosca ed ominosa. Il gallo, creatura “enorme” – o meglio “mostruosa”, come il Samsa di Fortini – invita sarcasticamente gli uomini a risvegliarsi, e dunque a riprendere su di sé l’onusto fardello di un’esistenza dolorosa e senza senso. Poi, poco dopo le battute iniziali, aggiunge: «a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua» (corsivo mio)19. Bisogna ammettere che sarebbe difficile apporre glossa più appropriata di questa, nella sua tanto crudele, quanto profetica, perentorietà, a proposito di Gregor Samsa e del suo tragico risveglio mattutino. Non può essere casuale dunque che proprio qui si ritrovi quella ripresa pleonastica del soggetto («il misero»),  tramite il pronome personale «egli», con cui Fortini ha, provocatoriamente, marcato l’incipit della Metamorfosi kafkiana. Siamo di fronte ad un tentativo molto originale di fare un «buon uso delle rovine», cioè di uno dei classici per eccellenza delle letteratura italiana20.


3. Il «violento lettore» e l’invasione della gioia

A questo punto bisognerà pur chiedersi perché proprio il Cantico e perché proprio Leopardi. Si potrebbero a tal proposito fare una prima serie di osservazioni che, pur essendo pertinenti, non smetterebbero di apparire estrinseche, quasi collaterali al nocciolo del problema. Vale comunque la pena di ricordare, en passant, innanzitutto che il Cantico del gallo silvestre si struttura proprio secondo la finzione della traduzione. Leopardi infatti finge di aver ritrovato un manoscritto e di averlo tradotto in volgare italiano, adoperando, conformemente all’originale, lo «stile interrotto»21, cioè paratattico. Inoltre di questo manoscritto ritrovato si dice che è «scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica»22. È evidente qui il sottile sarcasmo con cui Fortini allude all’ebreo praghese Franz Kafka – e forse potrebbe aggiungere qualcuno, con un eccesso di malevole arguzia, all’ebreo Franco Lattes.
Passando ad un’altra sfera di osservazioni va ricordato anche come Leopardi venga citato dal Fortini di Traduzione e rifacimento come importante teorico della traduzione, e venga collocato pienamente all’interno di un’epoca, quella a ridosso della Restaurazione, tra Cesarotti e Tommaseo, che «nella storia della traduzione italiana» rimane «esemplare»23.
Ma questi motivi non sono sufficienti per comprendere appieno il senso del gesto traduttivo fortiniano. Ricordiamo il rapporto problematico che egli intrattiene con Kafka, eletto a rappresentante principale di un tipo di letteratura fortemente ricusata, perché totalmente subordinata al «sogno della forma autodistruttiva»24. E ancora che Fortini non perde di vista il problema pratico di lavorare affinché l’orrore del mondo kafkiano venga sottratto all’area del normalizzato, quindi dell’indicibile. In questo quadro l’accostamento di Leopardi a Kafka appare fortemente motivato. Nella poesia del recanatese Fortini rintracciava infatti il manifestarsi di una contraddizione vitale per la lirica moderna: quella che mantiene in un rapporto di unità tensiva «poesia» e «verità» ovvero forma e solitudine. Da una parte la disperante cognizione del vero che nutre e sostiene ogni pagina leopardiana; dall’altra l’insopprimibile gioia formale che si sprigiona dalle immagini poetiche sue più vive. La formula con cui Fortini indica questa feconda discrasia è «il passaggio della gioia». E così si intitola infatti un suo splendido saggio leopardiano del 1967, prima pubblicato autonomamente, poi inserito nella seconda edizione di Verifica dei poteri. In questo scritto la contraddizione leopardiana si connette con forza alla questione della poesia come luogo in cui avviene, in modo mistificato, eppur sempre liberatorio, il «consumo formale dell’esistenza». Per Fortini dunque l’opera di Leopardi contiene al suo interno due movimenti: «il primo […] implicitamente pedagogico, a che gli uomini, liberati dalle illusioni e dagli errori e dunque disperatamente felici, possano vivere anch’essi, attori e spettatori, ma nella storia, nella società, l’esperienza di consumo formale dell’esistenza di cui, cantando dalla sua graticola, Giacomo dà l’esempio eroico; il secondo, che, rinunciando al primo, rinunciando ad universalizzare il proprio esempio e quindi ad esigere un adempimento storico della propria profezia, divora se stesso sul posto, in una perfetta coincidenza di solitudine e di forma, di suicidio e di gioia»25.
È in questa «perfetta coincidenza» che si mira e si specchia, non senza una punta di forsennato orgoglio, tutto il coté nichilistico della lirica moderna. Tale «coincidenza» poi, a ben guardare, non è affatto distante da quella tragica «intercambiabilità» di segni e simboli, in cui si cristallizza il nucleo più riposto dell’opera di Kafka. Esso infatti sarà da collocare, per Fortini, proprio «nel punto in cui i termini di malattia/salute, legge/arbitrio, scacco/desiderio, speranza/disperazione si scambiano i significati»26. Quello di cui la pagina di Kafka è colpevolmente priva è «l’attesa di futuro», insita invece in tutte le grandi opere. In poche parole mancherebbe la capacità, evidente in Leopardi, di sostenere la contraddizione fra poesia e verità. All’opera del praghese sarebbe toccato in sorte di esprimere solo la “verità”, e non la “poesia”; quindi, in fin dei conti, né l’una né l’altra. A partire da queste osservazioni si può comprendere meglio perché nel già citato saggio del 1948 sugli Uomini di Kafka l’autore si sia appuntato «sul carattere di parabola (e non di poesia) di quei libri»27; o si sia soffermato, addirittura crocianamente, sulla «natura dell’opera, piuttosto “letteraria” che “artistica”»28; e infine abbia indicato chiaramente nella sua componente simbolica, cioè nel suo essere «infinita glossa» o «infinita serie di traduzioni», la cifra essenziale della scrittura kafkiana, e anche l’elemento che la tiene irrimediabilmente lontana dal linguaggio poetico: «La poesia infatti non è simbolica»29.
Ma ritornando alla questione precedentemente sollevata, e cercando di tentare una prima sintesi, si può affermare che mimetizzare il Leopardi del Cantico nelle righe iniziali della Metamorfosi vuol dire anche “correggere” Kafka, cioè straniarlo, ed invaderlo; provando a far alitare un refolo di gioia negli angoli più glaciali, e traumatizzanti, della sua prosa. In questo modo il Fortini traduttore rimane coerente con il saggista di quasi quarant’anni addietro. Come si è detto sopra, Fortini aveva indicato la necessità di porsi nei confronti di Kafka come «violento lettore» che ne rifiuta il mondo, assieme al messaggio disperante di cui quel mondo si fa latore. Con l’inserzione di Leopardi nella Metamorfosi Fortini prova a spezzare l’incantesimo kafkiano, mettendo fine a quella serie interminabile di mutazioni su cui l’opera del praghese, a suo dire, poggia; ed è così che, in un certo senso, Fortini riesce ad interrompere quell’eterno rituale perché, finalmente, lo compie davvero; con tanto di «sangue nero e caldo»: quello poetico, che sgorga dalla felice contraddizione leopardiana. Nella poesia del recanatese, infatti, si verifica il «passaggio della gioia» solo nella misura in cui il sacrificio simbolico che vi si compie è vero e credibile. In essa dunque la natura del male, cui l’uomo appare essere soggiogato senza rimedio, pur essendo devastante, appare in fin dei conti limitata, legata ad una congiuntura che è storica,  quindi riconoscibile: del male ci si può liberare. In un memorabile saggio leopardiano, a proposito della tanto amata sepolcrale Sopra il ritratto di una bella donna, Fortini scriverà: «Il canto si pone come l’allegoria di uno svolgimento; la registrazione di come si possa uscire da una condizione lacerata verso una di pacificazione. Contiene e mostra una tramutazione»30 (corsivi miei). Di nuovo, e con tutta evidenza, la «tramutazione» leopardiana, per il suo carattere finito e compiuto, rievoca, ma sempre per contrasto, la cattiva infinità delle mutazioni kafkiane31.
In un raffinato saggio su Fortini traduttore Giacomo Magrini ha notato un elemento che accomuna le diverse traduzioni messe insieme da Fortini nella silloge Il ladro di ciliegie. Questo filo conduttore è riposto nel tema dell’inizio. Cito da Magrini: «è il finire della notte, l’apparire del giorno, il sorgere del sole, ossia l’esperienza semplice e fondamentale che ogni essere vivente ha dell’inizio»32. In questa attenzione estrema al tema duplice dell’inizio, «del testo o del brano, e del giorno» lo studioso ha osservato un riverbero nostalgico: «In tutti quegli inizi, dunque, […] è come se si intagliasse e si inscrivesse l’impossibile di ogni traduzione, il suo non poter venire prima, il suo non poter mai essere un inizio»33. L’incipit della Metamorfosi, con la sua memorabile mattina, in cui un uomo si ritrova mutato in insetto, sembrerebbe incastonarsi perfettamente nel quadro di questo filo rosso. Qui però accade qualcosa di diverso; perché Fortini, ergendosi, per così dire, al di sopra di se stesso, riesce a far iniziare la sua traduzione. L’attrito con il Leopardi del Gallo silvestre rovescia, per un istante, quella impossibilità di cui parla Magrini, perché, inserendo l’aculeo della finitezza nel mondo delle mutazioni kafkiane, ed esponendolo dunque agli “spifferi in carta” della gioia, lo rende, finalmente, passibile di un inizio, e quindi di una fine. In altri termini: la negazione assoluta kafkiana, quella che, inevitabilmente, sempre più ha voglia di negare, tutto ed anche se stessa, trovandosi straniata dall’accostamento con la negazione invece «relativa»34 di Leopardi, viene come tradotta fuori di sé, oltre il recinto magico delle proprie tramutazioni perpetue; e viene così, starei per dire, educata a contenere i suoi appetiti più ferocemente autodistruttivi35.


4. Per l’altra metamorfosi

Con la messa a punto di questo ossimoro concettuale, rappresentato dalla coppia per antitesi Leopardi/Kafka, Fortini si dà, e ci dà, uno strumento per comprendere e riposizionare i termini della dialettica tra nichilismo contemporaneo e speranza rivoluzionaria; e dunque per sottoporre a verifica, ancora una volta, la possibilità della «gioia». L’uso a contropelo delle rovine gli diventa così metodo, dispositivo euristico particolarmente produttivo. Un’ulteriore riprova la si ricava dalla lettura di un suo saggio del 1987, non a caso solo di un anno successivo alla pubblicazione della traduzione kafkiana. Si tratta di Ancora per Vittorio Sereni. In questo scritto, dedicato in prima istanza a Stella variabile, ma in realtà orientato verso una interpretazione complessiva della poesia sereniana, Fortini, anche sulla scorta di Mengaldo, legge Sereni come poeta della negazione. E per segnare la distanza fra la propria visione del mondo e quella del poeta in questione, puntella il suo discorso critico di nuovo su rovine leopardiane. I riferimenti al recanatese costituiscono il basso continuo critico di tutto il saggio. Due però sono i momenti in cui la frizione appare particolarmente pregnante. Il primo si riconnette, et pour cause, al tema della gioia; nel secondo viene convocato, ancora una volta, proprio il Cantico del gallo silvestre. Ma procediamo per ordine. Per Mengaldo era in particolare nell’ultimo Sereni che si poteva individuare un «elenco di negazioni che non lasciano scampo»36. Fortini parte da questo assunto, ma lo rende ancora più drastico e individua senza mezzi termini nell’assenza della «gioia» il tratto caratterizzante dell’intera poesia sereniana. Ecco il punto in questione: «La “gioia” – che in Strumenti era nominata più che conferita ai versi – non visita questo ultimo libro [Stella variabile] nemmeno indirettamente, nemmeno a contrario»37 (corsivo mio). Il feticcio vuoto della gioia dunque, e non, leopardianamente, il suo «passaggio», costituirebbe uno degli aspetti cruciali del Sereni poeta. Ma è nel finale del saggio che questa frattura ideologica viene esplicata in termini inequivocabili. In Sereni la tenuta della contraddizione fra appello utopico alla gioia e senso di «frustrazione, negazione e morte» appare a Fortini inconsistente, essendo il primo termine di confronto sostanzialmente impalpabile. La “gioia” di Sereni non riesce, infatti, a costituirsi come polo ideologico realmente antitetico alla morte; perché ad opporsi a quest’ultima è semmai il nulla, e non la vita. Ma qui è meglio far riecheggiare direttamente il discorso di Fortini, e sorprenderlo mentre di nuovo appare posseduto dal demone leopardiano: «L’antitesi di tale “stato morente” non è la vita: è il nulla. L’universo reale-naturale non è, per Sereni, in corsa verso la morte; che sarebbe pur sempre l’altra faccia della vita. È in corsa verso il niente. Non Leopardi, ancora una volta; sì, l’intero universo perderassi ma intanto non canta solo il Gallo Silvestre, cantano anche le più liete creature del mondo e i passeri solitari»38. L’operetta leopardiana, nel punto culminante del saggio, viene dunque citata espressamente – perderassi – e sfoderata come limpido esempio di una solida dialettica fra vita e morte, canto e disperazione; forma e solitudine. Su un versante opposto, rispetto al recanatese, si colloca dunque Sereni: quello della «grande tradizione simbolista e metafisica». Ma non era stata, proprio l’opera di Kafka, assimilata da Fortini all’area del simbolismo, nel su citato saggio del 194839? Quello slittamento continuo dei rapporti tra nomi e cose, lo «scrivere sull’acqua»40, la kafkiana «intercambiabilità» di termini antitetici – e qui siamo esattamente agli antipodi della dialettica – non sembrano poi essere davvero distanti dal «colore del vuoto», in cui pare che Sereni abbia fatto confluire, e qui stemperare, le flebili tensioni della sua poesia. L’ultima parola di Fortini su tutto questo può essere racchiusa in una sua citazione. Ragionando sulla scarsa «organicità» della poesia di Sereni, il saggista finisce per indicare in essa un elemento tipico della lirica moderna post-rimbaudiana, quindi una delle sue massime virtù. Tale poesia infatti mostrerebbe, correttamente del resto, «una mappa del reale divorata dalle termiti dell’annichilimento o coperta dal» – e qui inizia la citazione cui si accennava – «“labirinto di linee che più volte si intersecavano in tutte le direzioni, tanto fitte da riempire la carta”». Ancora Kafka, dunque. Questa volta quello del racconto Nella colonia penale, tradotto dallo stesso Fortini nel medesimo scorcio di tempo in cui lavorò alla Metamorfosi. Per comprendere la disperata radicalità del giudizio qui emesso da Fortini bisogna ricordare che, nel racconto kafkiano, quei fogli pasticciati, in cui appunto è impossibile leggere qualcosa, dovrebbero essere, e non lo sono, i latori supremi del senso di una vita, come delle vite di tutti: quelle dei condannati, che cercano di afferrare, in una morte infertagli secondo “giustizia”, il lembo estremo della conciliazione con l’esistenza. Con quelle carte, in cui le parole del giudizio sono ridotte a scarabocchi privi di significato, negazione «assoluta» appunto, e senza scampo, Fortini ha fatto collimare, spietatamente, i versi senza gioia di Sereni. Per poi sentire, ancora una volta, in un quadro così desolante, il bisogno di recuperare, per sé e per noi, una rovina infinitamente preziosa, come l’ostinato canto del Gallo Silvestre. Tra un Kafka che non può, o forse non vuole, leggere più nulla nei fogli decisivi della redenzione, e un Leopardi che, «non senza fatica grande»41 del resto, si mostra in grado invece di tradurre da una «cartapecora antica», vergata da caratteri astrusi ed enigmatici, la scelta di Fortini è chiara. Ed è questa scelta a permettere al Gallo leopardiano di sbirciare ancora fra i suoi consunti spartiti, e di intonare quei canti ormai interdetti alle sirene ammutolite di Kafka.
  La polarità Kafka/Leopardi dunque, nell’incipit della Metamorfosi come nel saggio su Sereni, conduce Fortini ad una verifica della gioia, cioè alla questione del suo ancora possibile «passaggio» nelle esistenze di ognuno. Questo «passaggio della gioia» non è poi nulla di meno che la figura di quella più vera mutazione, ovvero di quell’altra metamorfosi, a cui ogni uomo degno di questo nome, ed ogni vera opera poetica, non possono smettere di anelare; innanzitutto non rinunciando mai ad esprimerne il bisogno.
A tutto questo ci è sembrato che alludesse Fortini con il suo tentativo di fare un «buon uso» della traduzione.                          


note
1. Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, in Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano 1965, a sua volta poi compreso in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 329.
2. Per questa e per la citazione precedente cfr. ivi, p. 334.
3. Ivi, p. 329.
4. Ivi, p. 332.
5. Ivi, p. 335.
6. Cfr. Id., Due note su Kafka, in Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006, p. 411.
7. Ibidem.
8. Ivi, p. 412.
9. Ibidem. Vale la pena ricordare che queste note del 1970 si collocano a ridosso del noto processo all’«innocente-colpevole» Valpreda per la strage di Piazza Fontana.
10. Ivi, p. 411.
11. Cfr. Id., Venture e sventure di un traduttore, in «L’ospite ingrato», IV-V, 2001-2002, p. 304. Qui Fortini si riferisce al termine arcaico «complessione» – il cui uso è riscontrabile ad esempio nell’operetta Dialogo tra Galantuomo e Mondo – e all’espressione «a paro», in seguito sostituita con il meno irto «a pari», infine espunta del tutto: cfr. Franz Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, trad. it. di Franco Fortini, Einaudi, Torino 1986, p. 59.
12. Id., Venture e sventure di un traduttore, cit., p. 301.
13. Ibidem
14. Ibidem
15. Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, cit., p. 59.
16. Cfr. Id., Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1970, p. 157.
17. F. Fortini, Nota del traduttore, in F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, p. 282.
18. Id., Lezioni sulla traduzione, a cura e con un saggio introduttivo di Maria Vittoria Tirinato, Quodlibet, Macerata 2011, p. 90. Parafrasando, e rovesciando, l’intelligente titolo che Tirinato ha scelto per la prefazione alle Lezioni, si potrebbe alludere a questa «regressione» fortiniana con la formula larvatus redeo.
19. G. Leopardi, Operette morali, a cura di Paolo Ruffilli, Garzanti, Milano 1991, p. 241.
20. Agganciando le Operette morali di Leopardi ad un classico del fantastico moderno come Kafka, Fortini finisce per dare una – forse inconsapevole – risposta a Calvino. Quest’ultimo, in un intervento del 1984, prendendo le mosse dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, aveva affermato che proprio nel Leopardi delle Operette era da riconoscere la presenza del «vero seme da cui poteva nascere il fantastico italiano». Va da sé che fra i numi tutelari di questo fantastico moderno Calvino annoveri l’amatissimo Kafka. Cfr. Italo Calvino, Il fantastico nella letteratura italiana (1984), in Mondo scritto e mondo non scritto, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 2002, p. 224. La citazione è reperibile anche in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano 1995, II, p. 1676. Ovviamente un eventuale confronto fra i diversi modi in cui Fortini e Calvino si sono rapportati a Leopardi, e al problema dei “classici”, meriterebbe uno svolgimento ben più ampio. Cosa che in questa sede non mi sarà possibile fare.
21. Ivi, p. 240.
22. Ivi, p. 239.
23. Cfr. F. Fortini, Traduzione e rifacimento (1972), in Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, e poi compreso in Saggi ed epigrammi, cit., p. 819. In questo densissimo saggio Fortini fa esplicito riferimento ad un noto passo dello Zibaldone sulla «perfezione della traduzione» [2134-36]) col cui senso complessivo però dissente. Cfr. ivi, p. 820.
24. Id., Due note su Kafka, cit., p. 412.
25. Id., Il passaggio della gioia (1967), in Verifica dei poteri, II ed., Il Saggiatore, Milano 1969, poi compreso in Saggi ed epigrammi, cit., p. 279. A tale divorar se stessi farà eco, qualche anno dopo, l’idea di quel «sogno della forma autodistruttiva» da cui sarebbe posseduto appunto Kafka. Cfr. Id., Due note su Kafka, cit., p. 412.
26. Ivi, p. 411. Sul valore disforico di questa perniciosa incapacità di distinzione è d’obbligo il rinvio ad uno dei passaggi più intensi del saggio fortiniano Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo: «Non saper più distinguere l’inferno dal paradiso, o il male dal bene: questa è la prova più certa di essere nell’inferno, che è il male divenuto tranquillo». Per questo passo vedi F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (1964-‘65), in Saggi ed epigrammi, cit., p. 163.
27. Id., Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, cit., p. 329.
28. Ivi, p. 332.
29. Per questa e per la citazione precedente vedi ivi, p. 333.
30. Cfr. Id., “Sopra il ritratto di una bella donna” (1977-‘87), in Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p. 59. Non è un caso che la strofe conclusiva di questa poesia – o, per meglio dire, la sua «ultima magica strofe interrogativa» – venga citata da Fortini, ancora in uno scritto del 1994, come uno dei luoghi poetici leopardiani più fulgidi, tra quelli in cui si produce il «passaggio della gioia». Cfr. Id., Il passaggio della gioia, in «L’ospite ingrato», cit., p. 314. Questo saggio, a dispetto dell’omonimia, non è, ovviamente, quello del 1967. Si tratta di una prefazione ad un’antologia inglese dei Canti di Leopardi, poi pubblicata nel 1996.
31. Non sarà privo di significato il fatto che, nel manoscritto della traduzione fortiniana della Metamorfosi, accanto alla versione consueta del titolo italiano, ne sia presente anche una diversa variante, che recita proprio La mutazione. Cfr. Id., Venture e sventure di un traduttore, cit., p. 302.
32. Cfr. G. Magrini, Fortini traduttore, in «Allegoria», anno VIII, n° 21-22, 1996, p. 172.
33. Ivi, p. 173.
34. Per questa distinzione fortiniana fra negazione assoluta e relativa si può vedere questo illuminante passaggio, in cui l’autore si riferisce esplicitamente a Leopardi: «Ma conosciamo l’inganno verbale che si cela dietro ogni pretesa di negazione assoluta. Detto in fretta, la negazione assoluta stabilisce un’area, quella del locutore, che è silenziosamente esentata dalla negazione. È il caso di tutti i pessimismi aristocratici e di radice gnostica. Mentre invece la negazione relativa, indicando un ordine o un piano o un tempo nel quale essa può essere o sospesa o volta in positività, decreta che quell’ordine o piano o tempo potenzialmente sono o sarebbero abitabili a tutti. La ginestra ne sa qualcosa». Cfr. F. Fortini, Un rifacimento dell’«Ecclesiaste» (1984), in Nuovi saggi italiani, cit. pp. 346-347.
35. Per il nesso fra kafkismo e giovanilismo vedi Id., Due note su Kafka, cit., p. 412. È curioso notare come, anche in questo breve intervento kafkiano, Fortini non riesca proprio ad esimersi dall’alludere a Leopardi. In questo caso a materializzarsi come citazione implicita è il contrappunto degli «ameni inganni», spiccati dai versi delle Ricordanze. Cfr. ivi, p. 411.
36. Cfr. Id., Ancora per Vittorio Sereni (1987), in Nuovi saggi italiani, cit., p. 193.
37. Ibidem.
38. Ivi, p. 206.
39. Id., Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, cit., p. 333.
40. Ibidem
41. Per questa e per la citazione successiva cfr. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 239.
 

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[[9 ottobre 2011] 

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