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Kafka
Per una verifica
della gioia: Fortini traduce Kafka
Gabriele Fichera
1. La «nausea» e il rituale:
Kafka secondo Fortini note
[[9 ottobre 2011]
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Per una verifica della gioia: Fortini traduce
Kafka
«“/ Potrei/ con questa uccidere, con la sola gioia…”»
(Vittorio Sereni, Appuntamento ad ora insolita)
«Di bene un attimo ci fu»
(Franco Fortini, E questo è il sonno)
Con una felice intuizione Fortini, in un saggio su Kafka del 1948
incluso nella raccolta Verifica dei poteri, assimila l’essenza
enigmatica dell’opera del praghese all’immagine, peraltro mutuata dai Diari
dello stesso scrittore, di un rituale sacro in cui l’irruzione esterna
dei Leopardi, e la conseguente distruzione dei vasi sacri, si rivela
già prevista, ed anzi richiesta, dal rituale stesso. Con ciò il
saggista vuole alludere al carattere di parabola inesauribile della
scrittura kafkiana, sempre suscettibile, anzi desiderosa, di «un
commento perpetuo che a poco a poco si incrosti nel testo medesimo»1.
L’opera del praghese si presenterebbe come specchio, e parte
integrante, di una realtà che si struttura come «operazione cultuale o
magica», e che si sviluppa secondo una serie infinita di tramutazioni.
Il lettore viene catturato all’interno di questa rete simbolica di
significati, in cui ogni cosa sta per ogni cosa, e ridotto al rango di
«assistente ai misteri»2. Secondo Fortini, a siffatto tipo
di
letteratura presa fra le spire di una metamorfosi infinita, cioè come
dire di una cattiva infinità, affinché si trasformi da glossa morta a
glossa vivente, si deve opporre un commento di «carattere non
estetico»3. È il problema della prassi politica che qui
viene
convocato: solo la «critica delle cose» può, rifiutando l’orrore del
mondo kafkiano, leggere davvero Kafka, cioè interrompere quella serie
di tramutazioni, indicando la natura storica del male che è descritto
in quelle pagine, e adombrando un suo superamento pratico in direzione
di una società diversa, in cui tale orrore sia divenuto impossibile:
«Perché quest’opera riviva per noi, perché (per usare il linguaggio
eucaristico) si riproduca la tramutazione della specie, non di stregoni
legati ad un rituale meccanico, hanno bisogno quelle pagine; ma di
sangue nero e caldo […], ma di violenti lettori che quelle pagine
invadano, rifiutando il mondo che ha visto soffrire e scrivere Kafka»4.
È evidente qui la complessità dell’approccio adoperato da Fortini,
tutto all’interno della dialettica fra appropriazione violenta e messa
a distanza critica.
C’è però una prima, e immediata, smentita che la critica delle cose
oppone a Kafka; ed è di carattere materialistico. La penna cade, dice
Fortini, il libro finisce, il signor Franz Kafka muore: «Invece di una
serie infinita e infinitamente inafferrabile abbiamo in pugno dei
“torsi di romanzo”, dei “frammenti” di tramutazioni»; e ancora: «la
forza delle cose conficca Kafka nella storia, chiede ragione dei suoi
orrori, li riconosce nelle cose, negli uomini presenti, nella storia
contemporanea. Dove si era voluto testimoniare dell’assoluto, si è
testimoniato del relativo»5. Tale obiezione materialistica
si rivela
ben lungi dall’essere sufficiente. Ventidue anni dopo, nel 1970,
Fortini torna su Kafka in due pagine, la cui scabra essenzialità appare
direttamente proporzionale alla eccezionale densità d’interpretazione.
Il piano dell’analisi non si discosta da quello delineato nel saggio
del ’48, diversa però è la prospettiva da cui la “questione Kafka” è
traguardata. Cresce la distanza dal praghese. Adesso il saggista parla
di insostenibilità, addirittura fisica, della pagina kafkiana, e del
senso di nausea che ne deriva per il lettore. Citando Sartre e
Bataille, arriva ad usare l’espressione «imminenza del vomito»6.
Essersi totalmente consegnato all’universo della deiezione ed avere
espunto da sé qualsiasi «attesa del futuro»7, murando il
proprio
discorso all’interno dei confini della «formalità letteraria»8:
sono
questi i capi d’accusa principali evocati da Fortini. Ma l’obiezione
più cogente a Kafka si sviluppa in un ambito esterno all’autore e alla
sfera letteraria. È infatti la «critica delle cose» a non aver sortito
gli effetti sperati. Non solo il mondo di Kafka non è stato sconfitto
dalla prassi rivoluzionaria, ma esso ha trionfato a tal punto da
divenire normale, quindi irriconoscibile. E ciò rende illeggibili le
opere in cui quel mondo è rappresentato. Chiosa Fortini: «L’orrore non
è oggi normalizzato, accettato e pubblico? Non sanno ormai tutti che
nelle soffitte si processano e nei prati di periferia si sgozzano gli
innocenti-colpevoli?»9. A partire da queste premesse diventa
dunque
sempre più difficile “usare” Kafka. Per farlo bisognerebbe innanzitutto
superare un certo «kafkismo spontaneo» cioè l’orizzonte ideologico
giovanile della negazione assoluta, per poi tentare di «vincere quelle
pagine con ragionata freddezza»10 (corsivo mio). Per
rendere
Kafka e il
suo mondo di nuovo visibili, e cogliere il carattere storico e
transeunte del male che vi è rappresentato, bisogna dunque rompere lo
«strato gelato» che ricopre e difende la zona interna dell’opera, e
straniare, con pazienza da anatomista, questi oggetti narrativi in cui
non è più in atto alcuna frizione fra la “verità” dell’orrore
quotidiano e la “promessa di felicità” di cui si fa portatrice la
poesia.
2. La traduzione delle rovine
Sedici anni dopo Fortini tenterà di dare risposta a queste esigenze,
tanto politiche quanto letterarie, nella sua traduzione di La
metamorfosi di Kafka. Il lavoro di stile che egli intraprende per
questa traduzione è di tipo straniante. Sia nella Nota del
traduttore
che appone all’edizione dell’86 dei racconti di Kafka, sia nella
conferenza dell’84 Venture e sventure di un traduttore il
concetto è
ribadito più volte. Il modello letterario che Fortini assume
esplicitamente è quello delle Operette morali di Leopardi e i
motivi di
questa scelta sono individuati nella sfera linguistica. Questi scritti
forniscono un mirabile saggio del grado di coscienza operante nel
Fortini traduttore, ma sono anche un capolavoro di reticenza. Laddove
infatti più ci si dilunga in dettagliate disquisizioni sul come
tradurre correttamente il tedesco Ungeziefer o si mobilitano le
migliori energie intellettuali per spiegare la necessità di mantenere
la bipartizione sintattica, e ritmica, del periodo iniziale, lì si
produce il sospetto che qualcosa di altrettanto importante non venga
detta. Le Operette vengono additate come modello di scrittura
asciutta,
di ironia, e di voce in falsetto. Ma, verrebbe da dire, è tutto qui?
Possibile che il rapporto con uno dei classici più esigenti della
nostra tradizione letteraria si limiti all’uso di evidenti spie
«pseudo-leopardiane», segnalate dallo stesso Fortini, con un’astuta
mossa che insieme spiega e nasconde11? E infine quali sono i
motivi
ideologici e letterari per cui si sente il bisogno di affiancare al
nome di Kafka proprio quello di Leopardi? Ripetiamo ancora che per
Fortini il nome del praghese, come si è tentato di evidenziare nel
precedente paragrafo, è di quelli che non smettono di fare problema.
Perché continua a far coagulare attorno a sé un groppo di obiezioni
radicali all’idea che Fortini ha della funzione e del senso ultimo
della poesia nella cultura occidentale moderna. Un’idea che potremmo
brevemente indicare, anticipando per un attimo un discorso che tra poco
sarà più acconciamente svolto, con l’espressione «passaggio della
gioia», titolo di un memorabile saggio fortiniano su Leopardi.
Che non sia “tutto qui” lo si può sospettare dalla lettura di un passo
della conferenza su citata Venture e sventure di un traduttore.
Conferenza che poi ha fatto da incubatrice alla successiva, e più
succinta, Nota del traduttore sopra menzionata. Ad un certo
punto
Fortini cerca di spiegare il motivo dell’assunzione delle Operette
a
proprio modello linguistico: «il problema era quello di scegliersi un –
direi quasi – canale, un modello di lingua italiana. Ora, l’unico
modello di lingua italiana possibile per Kafka non è certo nessun
narratore moderno italiano: bisogna spostarsi nel tempo e bisogna
semmai andare a prenderlo in quelle prose glaciali, assolutamente
polari che entusiasmavano Nietzsche e che sono le Operette
morali di
Giacomo Leopardi»12 (corsivo mio). Che si sia nutrita di
questo tipo di
osservazioni quella «ragionata freddezza», di cui Fortini sentiva la
necessità, per vincere la nausea indotta dalla lettura di Kafka, sembra
evidente. Ma l’autore aggiunge subito dopo un altro elemento di estrema
importanza: «A me interessava – affrontando un temibile, grandissimo
scrittore – avere a che fare con una materia sufficientemente liscia,
sulla quale potessi fare dei movimenti personali»13.
Di che
natura
siano esattamente questi «movimenti personali» non è facile intenderlo.
Sicuramente essi sono mirati a demistificare Kafka, ormai assunto a
figura ideologica esemplare della negazione assoluta. Tali movimenti
scorrono intus et in cute, sotto la pelle della traduzione. A
volte
però aggallano. Leggendo e rileggendo – Spitzer dixit –
il
periodo iniziale della Metamorfosi nella versione di Fortini,
qualcosa
si nota, che aiuta a comprendere. Gli inizi sono luoghi formali a cui,
in generale, si riconosce una caratura simbolica molto precisa. E ad
essi poi il praghese, ci tiene a sottolinearlo Fortini, conferiva un
valore speciale; non solo banalmente letterario, ma anche «di carattere
magico»14. E l’incipit della Metamorfosi,
nella versione di
Fortini,
presenta in effetti una peculiarità assoluta nel panorama delle
traduzioni italiane. Leggiamolo dunque: «Mentre un mattino Gregor Samsa
si veniva svegliando da sogni agitati, nel proprio letto egli si trovò
mutato in un insetto mostruoso»15. Già la scelta della
coppia verbale
imperfetto più gerundio – «si veniva svegliando» –, con la sua capacità
di rendere felicemente l’aspetto durativo e processuale di questa
orribile azione, che si compie a spese di Samsa, sarebbe da sola
meritevole del più convinto encomio. Ma c’è dell’altro; quasi una
stonatura, incistata di sbieco in questo calibratissimo organismo
ritmico, che è l’inizio fortiniano della Metamorfosi. È così
evidente
che si finisce per non avvertirla. È necessaria qui una breve, ancorché
scolastica, analisi del periodo. Esso è suddiviso in due frasi; la
prima, una subordinata temporale, anticipa la principale, ma
soprattutto contiene al suo interno, ben esplicitato, il soggetto –
«Gregor Samsa» – che poi è lo stesso della principale. In lingua
tedesca in situazioni di questo tipo è normale, e così fa difatti
Kafka, riprendere comunque il soggetto attraverso l’uso del pronome
personale. In italiano moderno questa ripresa non è affatto usuale. Ma
Fortini adopera il pronome «egli», anche se il soggetto delle due frasi
è lo stesso: «Mentre un mattino Gregor Samsa si veniva svegliando da
sogni agitati, nel proprio letto egli si trovò mutato in un
insetto
mostruoso» (corsivo mio). Nessuno degli altri traduttori italiani ha
usato una struttura sintattica simile, arcaica e al tempo stesso
straniante. Nella resa in italiano delle altre versioni, al di là delle
ovvie differenze, c’è un tratto sintattico comune: il soggetto «Samsa»
viene “spostato”, rispetto all’originale tedesco, nella principale; la
subordinata esplicita temporale viene spesso compressa in una implicita
priva di soggetto espresso. Un esempio per tutti, preso dalla versione
di Rodolfo Paoli: «Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni
agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto
immondo»16. In questa traduzione la sintassi tedesca è stata
addomesticata, e rinserrata fra i ranghi della norma italiana. Ma così
facendo ciò che viene meno è la portata straniante dell’incipit
kafkiano. Nell’originale essa si manifesta, ad esempio,
nell’accumularsi di ben «tre segni di negazione in due righe»17:
unruhig (in-quieto), ungeheuer (e-norme) e Ungeziefer
(in-setto).
Fortini conserva questo riflesso perturbante dell’esordio kafkiano,
dislocandolo però dal livello lessicale a quello sintattico. La sua
versione si presenta inoltre con un periodo scandito in due parti quasi
perfettamente uguali, come nell’originale tedesco. In questo senso
sembra di essere di fronte ad una traduzione di servizio, quasi
interlineare. Ma in questa apparentemente strenua fedeltà a Kafka il
traduttore, con astuzia di colomba, nasconde in realtà ben altro. La
ripresa pleonastica del pronome personale, ormai desueta, riporta il
testo indietro nel tempo; si può dire, con le parole che lo stesso
Fortini ha adoperato a proposito della sua traduzione kafkiana, che
anche tale ripresa costituisce «un esempio fra mille di questa
intenzionale regressione della tela linguistica di fondo»18.
Ma dove si
arresta questo moto a ritroso dello stile? Che si debba cercare fra le
pagine delle Operette è il dato evidente da cui partire. Qui
l’uso
leopardiano di tale costrutto correlativo con ripresa pronominale non
appare molto frequente. Ad un tratto però affiora, e nel più clamoroso
dei punti: il Cantico del gallo silvestre. Come si ricorderà,
in questa
operetta, la narrazione prende temporalmente le mosse, come la
Metamorfosi kafkiana, da un’alba fosca ed ominosa. Il gallo,
creatura
“enorme” – o meglio “mostruosa”, come il Samsa di Fortini – invita
sarcasticamente gli uomini a risvegliarsi, e dunque a riprendere su di
sé l’onusto fardello di un’esistenza dolorosa e senza senso. Poi, poco
dopo le battute iniziali, aggiunge: «a tutti il risvegliarsi è danno.
Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani
dell’infelicità sua» (corsivo mio)19. Bisogna ammettere che
sarebbe
difficile apporre glossa più appropriata di questa, nella sua tanto
crudele, quanto profetica, perentorietà, a proposito di Gregor Samsa e
del suo tragico risveglio mattutino. Non può essere casuale dunque che
proprio qui si ritrovi quella ripresa pleonastica del soggetto («il
misero»), tramite il pronome personale «egli», con cui Fortini
ha, provocatoriamente, marcato l’incipit della Metamorfosi
kafkiana.
Siamo di fronte ad un tentativo molto originale di fare un «buon uso
delle rovine», cioè di uno dei classici per eccellenza delle
letteratura italiana20.
3. Il «violento lettore» e l’invasione della gioia
A questo punto bisognerà pur chiedersi perché proprio il Cantico
e
perché proprio Leopardi. Si potrebbero a tal proposito fare una prima
serie di osservazioni che, pur essendo pertinenti, non smetterebbero di
apparire estrinseche, quasi collaterali al nocciolo del problema. Vale
comunque la pena di ricordare, en passant, innanzitutto che il Cantico
del gallo silvestre si struttura proprio secondo la finzione della
traduzione. Leopardi infatti finge di aver ritrovato un
manoscritto e
di averlo tradotto in volgare italiano, adoperando, conformemente
all’originale, lo «stile interrotto»21, cioè paratattico.
Inoltre di
questo manoscritto ritrovato si dice che è «scritto in lettera ebraica,
e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e
talmudica»22. È evidente qui il sottile sarcasmo con cui
Fortini allude
all’ebreo praghese Franz Kafka – e forse potrebbe aggiungere qualcuno,
con un eccesso di malevole arguzia, all’ebreo Franco Lattes.
Passando ad un’altra sfera di osservazioni va ricordato anche come
Leopardi venga citato dal Fortini di Traduzione e rifacimento
come
importante teorico della traduzione, e venga collocato pienamente
all’interno di un’epoca, quella a ridosso della Restaurazione, tra
Cesarotti e Tommaseo, che «nella storia della traduzione italiana»
rimane «esemplare»23.
Ma questi motivi non sono sufficienti per comprendere appieno il senso
del gesto traduttivo fortiniano. Ricordiamo il rapporto problematico
che egli intrattiene con Kafka, eletto a rappresentante principale di
un tipo di letteratura fortemente ricusata, perché totalmente
subordinata al «sogno della forma autodistruttiva»24. E
ancora che
Fortini non perde di vista il problema pratico di lavorare affinché
l’orrore del mondo kafkiano venga sottratto all’area del normalizzato,
quindi dell’indicibile. In questo quadro l’accostamento di Leopardi a
Kafka appare fortemente motivato. Nella poesia del recanatese Fortini
rintracciava infatti il manifestarsi di una contraddizione vitale per
la lirica moderna: quella che mantiene in un rapporto di unità tensiva
«poesia» e «verità» ovvero forma e solitudine. Da una parte la
disperante cognizione del vero che nutre e sostiene ogni pagina
leopardiana; dall’altra l’insopprimibile gioia formale che si sprigiona
dalle immagini poetiche sue più vive. La formula con cui Fortini indica
questa feconda discrasia è «il passaggio della gioia». E così si
intitola infatti un suo splendido saggio leopardiano del 1967, prima
pubblicato autonomamente, poi inserito nella seconda edizione di
Verifica dei poteri. In questo scritto la contraddizione
leopardiana si
connette con forza alla questione della poesia come luogo in cui
avviene, in modo mistificato, eppur sempre liberatorio, il «consumo
formale dell’esistenza». Per Fortini dunque l’opera di Leopardi
contiene al suo interno due movimenti: «il primo […] implicitamente
pedagogico, a che gli uomini, liberati dalle illusioni e dagli errori e
dunque disperatamente felici, possano vivere anch’essi, attori e
spettatori, ma nella storia, nella società, l’esperienza di consumo
formale dell’esistenza di cui, cantando dalla sua graticola, Giacomo dà
l’esempio eroico; il secondo, che, rinunciando al primo, rinunciando ad
universalizzare il proprio esempio e quindi ad esigere un adempimento
storico della propria profezia, divora se stesso sul posto, in una
perfetta coincidenza di solitudine e di forma, di suicidio e di
gioia»25.
È in questa «perfetta coincidenza» che si mira e si specchia, non senza
una punta di forsennato orgoglio, tutto il coté nichilistico
della
lirica moderna. Tale «coincidenza» poi, a ben guardare, non è affatto
distante da quella tragica «intercambiabilità» di segni e simboli, in
cui si cristallizza il nucleo più riposto dell’opera di Kafka. Esso
infatti sarà da collocare, per Fortini, proprio «nel punto in cui i
termini di malattia/salute, legge/arbitrio, scacco/desiderio,
speranza/disperazione si scambiano i significati»26. Quello
di cui la
pagina di Kafka è colpevolmente priva è «l’attesa di futuro», insita
invece in tutte le grandi opere. In poche parole mancherebbe la
capacità, evidente in Leopardi, di sostenere la contraddizione fra
poesia e verità. All’opera del praghese sarebbe toccato in sorte di
esprimere solo la “verità”, e non la “poesia”; quindi, in fin dei
conti, né l’una né l’altra. A partire da queste osservazioni si può
comprendere meglio perché nel già citato saggio del 1948 sugli Uomini
di Kafka l’autore si sia appuntato «sul carattere di parabola (e
non di
poesia) di quei libri»27; o si sia soffermato, addirittura
crocianamente, sulla «natura dell’opera, piuttosto “letteraria” che
“artistica”»28; e infine abbia indicato chiaramente nella
sua
componente simbolica, cioè nel suo essere «infinita glossa» o «infinita
serie di traduzioni», la cifra essenziale della scrittura kafkiana, e
anche l’elemento che la tiene irrimediabilmente lontana dal linguaggio
poetico: «La poesia infatti non è simbolica»29.
Ma ritornando alla questione precedentemente sollevata, e cercando di
tentare una prima sintesi, si può affermare che mimetizzare il Leopardi
del Cantico nelle righe iniziali della Metamorfosi vuol
dire
anche
“correggere” Kafka, cioè straniarlo, ed invaderlo; provando a far
alitare un refolo di gioia negli angoli più glaciali, e traumatizzanti,
della sua prosa. In questo modo il Fortini traduttore rimane coerente
con il saggista di quasi quarant’anni addietro. Come si è detto sopra,
Fortini aveva indicato la necessità di porsi nei confronti di Kafka
come «violento lettore» che ne rifiuta il mondo, assieme al messaggio
disperante di cui quel mondo si fa latore. Con l’inserzione di Leopardi
nella Metamorfosi Fortini prova a spezzare l’incantesimo
kafkiano,
mettendo fine a quella serie interminabile di mutazioni su cui l’opera
del praghese, a suo dire, poggia; ed è così che, in un certo senso,
Fortini riesce ad interrompere quell’eterno rituale perché, finalmente,
lo compie davvero; con tanto di «sangue nero e caldo»: quello poetico,
che sgorga dalla felice contraddizione leopardiana. Nella poesia del
recanatese, infatti, si verifica il «passaggio della gioia» solo nella
misura in cui il sacrificio simbolico che vi si compie è vero e
credibile. In essa dunque la natura del male, cui l’uomo appare essere
soggiogato senza rimedio, pur essendo devastante, appare in fin dei
conti limitata, legata ad una congiuntura che è storica, quindi
riconoscibile: del male ci si può liberare. In un memorabile saggio
leopardiano, a proposito della tanto amata sepolcrale Sopra il
ritratto
di una bella donna, Fortini scriverà: «Il canto si pone come
l’allegoria di uno svolgimento; la registrazione di come si possa
uscire da una condizione lacerata verso una di pacificazione.
Contiene
e mostra una tramutazione»30 (corsivi miei). Di
nuovo, e con
tutta
evidenza, la «tramutazione» leopardiana, per il suo carattere finito e
compiuto, rievoca, ma sempre per contrasto, la cattiva infinità delle
mutazioni kafkiane31.
In un raffinato saggio su Fortini traduttore Giacomo Magrini ha
notato
un elemento che accomuna le diverse traduzioni messe insieme da Fortini
nella silloge Il ladro di ciliegie. Questo filo conduttore è
riposto
nel tema dell’inizio. Cito da Magrini: «è il finire della notte,
l’apparire del giorno, il sorgere del sole, ossia l’esperienza semplice
e fondamentale che ogni essere vivente ha dell’inizio»32. In
questa
attenzione estrema al tema duplice dell’inizio, «del testo o del brano,
e del giorno» lo studioso ha osservato un riverbero nostalgico: «In
tutti quegli inizi, dunque, […] è come se si intagliasse e si
inscrivesse l’impossibile di ogni traduzione, il suo non poter venire
prima, il suo non poter mai essere un inizio»33. L’incipit
della
Metamorfosi, con la sua memorabile mattina, in cui un uomo si
ritrova
mutato in insetto, sembrerebbe incastonarsi perfettamente nel quadro di
questo filo rosso. Qui però accade qualcosa di diverso; perché Fortini,
ergendosi, per così dire, al di sopra di se stesso, riesce a far
iniziare la sua traduzione. L’attrito con il Leopardi del Gallo
silvestre rovescia, per un istante, quella impossibilità di cui
parla
Magrini, perché, inserendo l’aculeo della finitezza nel mondo delle
mutazioni kafkiane, ed esponendolo dunque agli “spifferi in carta”
della gioia, lo rende, finalmente, passibile di un inizio, e quindi di
una fine. In altri termini: la negazione assoluta kafkiana, quella che,
inevitabilmente, sempre più ha voglia di negare, tutto ed anche se
stessa, trovandosi straniata dall’accostamento con la negazione invece
«relativa»34 di Leopardi, viene come tradotta fuori
di sé,
oltre il
recinto magico delle proprie tramutazioni perpetue; e viene così,
starei per dire, educata a contenere i suoi appetiti più
ferocemente
autodistruttivi35.
4. Per l’altra metamorfosi
Con la messa a punto di questo ossimoro concettuale, rappresentato
dalla coppia per antitesi Leopardi/Kafka, Fortini si dà, e ci dà, uno
strumento per comprendere e riposizionare i termini della dialettica
tra nichilismo contemporaneo e speranza rivoluzionaria; e dunque per
sottoporre a verifica, ancora una volta, la possibilità della «gioia».
L’uso a contropelo delle rovine gli diventa così metodo, dispositivo
euristico particolarmente produttivo. Un’ulteriore riprova la si ricava
dalla lettura di un suo saggio del 1987, non a caso solo di un anno
successivo alla pubblicazione della traduzione kafkiana. Si tratta di
Ancora per Vittorio Sereni. In questo scritto, dedicato in prima
istanza a Stella variabile, ma in realtà orientato verso una
interpretazione complessiva della poesia sereniana, Fortini, anche
sulla scorta di Mengaldo, legge Sereni come poeta della negazione. E
per segnare la distanza fra la propria visione del mondo e quella del
poeta in questione, puntella il suo discorso critico di nuovo su rovine
leopardiane. I riferimenti al recanatese costituiscono il basso
continuo critico di tutto il saggio. Due però sono i momenti in cui la
frizione appare particolarmente pregnante. Il primo si riconnette, et
pour cause, al tema della gioia; nel secondo viene convocato,
ancora
una volta, proprio il Cantico del gallo silvestre. Ma procediamo per
ordine. Per Mengaldo era in particolare nell’ultimo Sereni che si
poteva individuare un «elenco di negazioni che non lasciano scampo»36.
Fortini parte da questo assunto, ma lo rende ancora più drastico e
individua senza mezzi termini nell’assenza della «gioia» il tratto
caratterizzante dell’intera poesia sereniana. Ecco il punto in
questione: «La “gioia” – che in Strumenti era nominata più
che
conferita ai versi – non visita questo ultimo libro [Stella
variabile]
nemmeno indirettamente, nemmeno a contrario»37
(corsivo
mio). Il
feticcio vuoto della gioia dunque, e non, leopardianamente, il suo
«passaggio», costituirebbe uno degli aspetti cruciali del Sereni poeta.
Ma è nel finale del saggio che questa frattura ideologica viene
esplicata in termini inequivocabili. In Sereni la tenuta della
contraddizione fra appello utopico alla gioia e senso di «frustrazione,
negazione e morte» appare a Fortini inconsistente, essendo il primo
termine di confronto sostanzialmente impalpabile. La “gioia” di Sereni
non riesce, infatti, a costituirsi come polo ideologico realmente
antitetico alla morte; perché ad opporsi a quest’ultima è semmai il
nulla, e non la vita. Ma qui è meglio far riecheggiare direttamente il
discorso di Fortini, e sorprenderlo mentre di nuovo appare posseduto
dal demone leopardiano: «L’antitesi di tale “stato morente” non è la
vita: è il nulla. L’universo reale-naturale non è, per Sereni, in corsa
verso la morte; che sarebbe pur sempre l’altra faccia della vita. È in
corsa verso il niente. Non Leopardi, ancora una volta; sì, l’intero
universo perderassi ma intanto non canta solo il Gallo
Silvestre,
cantano anche le più liete creature del mondo e i passeri solitari»38.
L’operetta leopardiana, nel punto culminante del saggio, viene dunque
citata espressamente – perderassi – e sfoderata come limpido
esempio di
una solida dialettica fra vita e morte, canto e disperazione; forma e
solitudine. Su un versante opposto, rispetto al recanatese, si colloca
dunque Sereni: quello della «grande tradizione simbolista e
metafisica». Ma non era stata, proprio l’opera di Kafka, assimilata da
Fortini all’area del simbolismo, nel su citato saggio del 194839?
Quello slittamento continuo dei rapporti tra nomi e cose, lo «scrivere
sull’acqua»40, la kafkiana «intercambiabilità» di termini
antitetici –
e qui siamo esattamente agli antipodi della dialettica – non sembrano
poi essere davvero distanti dal «colore del vuoto», in cui pare che
Sereni abbia fatto confluire, e qui stemperare, le flebili tensioni
della sua poesia. L’ultima parola di Fortini su tutto questo può essere
racchiusa in una sua citazione. Ragionando sulla scarsa «organicità»
della poesia di Sereni, il saggista finisce per indicare in essa un
elemento tipico della lirica moderna post-rimbaudiana, quindi una delle
sue massime virtù. Tale poesia infatti mostrerebbe, correttamente del
resto, «una mappa del reale divorata dalle termiti dell’annichilimento
o coperta dal» – e qui inizia la citazione cui si accennava –
«“labirinto di linee che più volte si intersecavano in tutte le
direzioni, tanto fitte da riempire la carta”». Ancora Kafka, dunque.
Questa volta quello del racconto Nella colonia penale, tradotto
dallo
stesso Fortini nel medesimo scorcio di tempo in cui lavorò alla
Metamorfosi. Per comprendere la disperata radicalità del
giudizio qui
emesso da Fortini bisogna ricordare che, nel racconto kafkiano, quei
fogli pasticciati, in cui appunto è impossibile leggere qualcosa,
dovrebbero essere, e non lo sono, i latori supremi del senso di una
vita, come delle vite di tutti: quelle dei condannati, che cercano di
afferrare, in una morte infertagli secondo “giustizia”, il lembo
estremo della conciliazione con l’esistenza. Con quelle carte, in cui
le parole del giudizio sono ridotte a scarabocchi privi di significato,
negazione «assoluta» appunto, e senza scampo, Fortini ha fatto
collimare, spietatamente, i versi senza gioia di Sereni. Per poi
sentire, ancora una volta, in un quadro così desolante, il bisogno di
recuperare, per sé e per noi, una rovina infinitamente preziosa, come
l’ostinato canto del Gallo Silvestre. Tra un Kafka che non può,
o forse
non vuole, leggere più nulla nei fogli decisivi della redenzione, e un
Leopardi che, «non senza fatica grande»41 del resto, si
mostra in grado
invece di tradurre da una «cartapecora antica», vergata da caratteri
astrusi ed enigmatici, la scelta di Fortini è chiara. Ed è questa
scelta a permettere al Gallo leopardiano di sbirciare ancora fra i suoi
consunti spartiti, e di intonare quei canti ormai interdetti alle
sirene ammutolite di Kafka.
La polarità Kafka/Leopardi dunque, nell’incipit della
Metamorfosi come nel saggio su Sereni, conduce Fortini ad una verifica
della gioia, cioè alla questione del suo ancora possibile
«passaggio»
nelle esistenze di ognuno. Questo «passaggio della gioia» non è poi
nulla di meno che la figura di quella più vera mutazione, ovvero di
quell’altra metamorfosi, a cui ogni uomo degno di questo nome,
ed ogni
vera opera poetica, non possono smettere di anelare; innanzitutto non
rinunciando mai ad esprimerne il bisogno.
A tutto questo ci è sembrato che alludesse Fortini con il suo tentativo
di fare un «buon uso» della
traduzione.
1. Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose,
in
Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano 1965, a sua volta poi
compreso in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio
introduttivo di
Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 329.
2. Per questa e per la citazione precedente cfr. ivi, p. 334.
3. Ivi, p. 329.
4. Ivi, p. 332.
5. Ivi, p. 335.
6. Cfr. Id., Due note su Kafka, in Un giorno o
l’altro, Quodlibet, Macerata 2006, p. 411.
7. Ibidem.
8. Ivi, p. 412.
9. Ibidem. Vale la pena ricordare che queste note del 1970 si
collocano a ridosso del noto processo all’«innocente-colpevole»
Valpreda per la strage di Piazza Fontana.
10. Ivi, p. 411.
11. Cfr. Id., Venture e sventure di un traduttore, in
«L’ospite ingrato», IV-V, 2001-2002, p. 304. Qui Fortini si riferisce
al termine arcaico «complessione» – il cui uso è riscontrabile ad
esempio nell’operetta Dialogo tra Galantuomo e Mondo – e
all’espressione «a paro», in seguito sostituita con il meno irto «a
pari», infine espunta del tutto: cfr. Franz Kafka, Nella colonia
penale e altri racconti, trad. it. di Franco Fortini, Einaudi,
Torino 1986, p. 59.
12. Id., Venture e sventure di un traduttore, cit., p. 301.
13. Ibidem
14. Ibidem
15. Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, cit.,
p. 59.
16. Cfr. Id., Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori,
Milano 1970, p. 157.
17. F. Fortini, Nota del traduttore, in F. Kafka, Nella
colonia penale e altri racconti, p. 282.
18. Id., Lezioni sulla traduzione, a cura e con un saggio
introduttivo di Maria Vittoria Tirinato, Quodlibet, Macerata 2011, p.
90. Parafrasando, e rovesciando, l’intelligente titolo che Tirinato ha
scelto per la prefazione alle Lezioni, si potrebbe alludere a questa
«regressione» fortiniana con la formula larvatus redeo.
19. G. Leopardi, Operette morali, a cura di Paolo Ruffilli,
Garzanti, Milano 1991, p. 241.
20. Agganciando le Operette morali di Leopardi ad un classico
del fantastico moderno come Kafka, Fortini finisce per dare una – forse
inconsapevole – risposta a Calvino. Quest’ultimo, in un intervento del
1984, prendendo le mosse dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue
mummie, aveva affermato che proprio nel Leopardi delle Operette
era da riconoscere la presenza del «vero seme da cui poteva nascere il
fantastico italiano». Va da sé che fra i numi tutelari di questo
fantastico moderno Calvino annoveri l’amatissimo Kafka. Cfr. Italo
Calvino, Il fantastico nella letteratura italiana (1984), in Mondo
scritto e mondo non scritto, a cura di Mario Barenghi, Mondadori,
Milano 2002, p. 224. La citazione è reperibile anche in I. Calvino, Saggi
1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano
1995, II, p. 1676. Ovviamente un eventuale confronto fra i diversi modi
in cui Fortini e Calvino si sono rapportati a Leopardi, e al problema
dei “classici”, meriterebbe uno svolgimento ben più ampio. Cosa che in
questa sede non mi sarà possibile fare.
21. Ivi, p. 240.
22. Ivi, p. 239.
23. Cfr. F. Fortini, Traduzione e rifacimento (1972), in Saggi
italiani, Garzanti, Milano 1987, e poi compreso in Saggi ed
epigrammi, cit., p. 819. In questo densissimo saggio Fortini fa
esplicito riferimento ad un noto passo dello Zibaldone sulla
«perfezione della traduzione» [2134-36]) col cui senso complessivo però
dissente. Cfr. ivi, p. 820.
24. Id., Due note su Kafka, cit., p. 412.
25. Id., Il passaggio della gioia (1967), in Verifica dei
poteri, II ed., Il Saggiatore, Milano 1969, poi compreso in Saggi
ed epigrammi, cit., p. 279. A tale divorar se stessi farà eco,
qualche anno dopo, l’idea di quel «sogno della forma autodistruttiva»
da cui sarebbe posseduto appunto Kafka. Cfr. Id., Due note su Kafka,
cit., p. 412.
26. Ivi, p. 411. Sul valore disforico di questa perniciosa incapacità
di distinzione è d’obbligo il rinvio ad uno dei passaggi più intensi
del saggio fortiniano Mandato degli scrittori e fine
dell’antifascismo: «Non saper più distinguere l’inferno dal
paradiso, o il male dal bene: questa è la prova più certa di essere
nell’inferno, che è il male divenuto tranquillo». Per questo passo vedi
F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo
(1964-‘65), in Saggi ed epigrammi, cit., p. 163.
27. Id., Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, cit., p.
329.
28. Ivi, p. 332.
29. Per questa e per la citazione precedente vedi ivi, p. 333.
30. Cfr. Id., “Sopra il ritratto di una bella donna”
(1977-‘87), in Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p.
59. Non è un caso che la strofe conclusiva di questa poesia – o, per
meglio dire, la sua «ultima magica strofe interrogativa» – venga citata
da Fortini, ancora in uno scritto del 1994, come uno dei luoghi poetici
leopardiani più fulgidi, tra quelli in cui si produce il «passaggio
della gioia». Cfr. Id., Il passaggio della gioia, in «L’ospite
ingrato», cit., p. 314. Questo saggio, a dispetto dell’omonimia, non è,
ovviamente, quello del 1967. Si tratta di una prefazione ad
un’antologia inglese dei Canti di Leopardi, poi pubblicata nel
1996.
31. Non sarà privo di significato il fatto che, nel manoscritto della
traduzione fortiniana della Metamorfosi, accanto alla versione
consueta del titolo italiano, ne sia presente anche una diversa
variante, che recita proprio La mutazione. Cfr. Id., Venture e
sventure di un traduttore, cit., p. 302.
32. Cfr. G. Magrini, Fortini traduttore, in «Allegoria», anno
VIII, n° 21-22, 1996, p. 172.
33. Ivi, p. 173.
34. Per questa distinzione fortiniana fra negazione assoluta e relativa
si può vedere questo illuminante passaggio, in cui l’autore si
riferisce esplicitamente a Leopardi: «Ma conosciamo l’inganno verbale
che si cela dietro ogni pretesa di negazione assoluta. Detto in fretta,
la negazione assoluta stabilisce un’area, quella del locutore, che è
silenziosamente esentata dalla negazione. È il caso di tutti i
pessimismi aristocratici e di radice gnostica. Mentre invece la
negazione relativa, indicando un ordine o un piano o un tempo nel quale
essa può essere o sospesa o volta in positività, decreta che
quell’ordine o piano o tempo potenzialmente sono o sarebbero abitabili
a tutti. La ginestra ne sa qualcosa». Cfr. F. Fortini, Un
rifacimento dell’«Ecclesiaste» (1984), in Nuovi saggi italiani,
cit. pp. 346-347.
35. Per il nesso fra kafkismo e giovanilismo vedi Id., Due note su
Kafka, cit., p. 412. È curioso notare come, anche in questo breve
intervento kafkiano, Fortini non riesca proprio ad esimersi
dall’alludere a Leopardi. In questo caso a materializzarsi come
citazione implicita è il contrappunto degli «ameni inganni», spiccati
dai versi delle Ricordanze. Cfr. ivi, p. 411.
36. Cfr. Id., Ancora per Vittorio Sereni (1987), in Nuovi
saggi italiani, cit., p. 193.
37. Ibidem.
38. Ivi, p. 206.
39. Id., Gli uomini di Kafka e la critica delle cose, cit., p.
333.
40. Ibidem
41. Per questa e per la citazione successiva cfr. G. Leopardi, Operette
morali, cit., p. 239.