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Pubblichiamo il resoconto del ciclo di seminari dal titolo Memorie della pace perpetua. Ragione e Rivoluzione in Europa.

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MEMORIE DELLA PACE PERPETUA  
Ragione e rivoluzioni in Europa
 
(novembre 2007-febbraio2008)

 

“questo è il vero giudizio finale:
dimenticare di aver voluto
essere veri giusti eguali liberi
e non sentirne più dolore”
 

(Franco Fortini)

 

Un confronto su comunismo e libertà nella prospettiva del XXI secolo

 

Marco Celentano

 

Queste note propongono un resoconto del ciclo di incontri Memorie della pace perpetua. Ragione e rivoluzioni in Europa, ciclo itinerante, promosso dal Circolo Libertario Ternano “Carlotta Orientale” e dal Centro Studi “Franco Fortini”, di Napoli, iniziato nella città partenopea il 15 novembre 2007 presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, proseguito con i quattro incontri ospitati dalla Biblioteca comunale di Terni, conclusosi il 2 febbraio 2008 alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cassino.

Le parole raccolte nel titolo, Memorie della pace perpetua. Ragione e rivoluzioni in Europa, rimandano a due brevi scritti di Immanuel Kant: Per la pace perpetua. Progetto filosofico (1795) e Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798). Saggi in cui il filosofo definiva indimenticabili per l’umanità l’esperienza della rivoluzione francese e l’entusiasmo che essa suscitò, perché quegli eventi mostravano, secondo Kant, che c’è nell’essere umano l’aspirazione ad emanciparsi dallo stato di minorità”, ovvero, come recita in apertura la kantiana Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, da quella condizione in cui l’essere umano resta, in ogni ambito dell’esistenza, incapace “di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”.

Partendo da un’analisi delle speranze suscitate e disattese dalla rivoluzione francese, si è inteso, con questa serie di incontri, dar vita ad un confronto a più voci su alcuni momenti rivoluzionari della nostra storia sociale, politica, letteraria e filosofica che, in epoca prossima all’azzeramento di ogni memoria conflittuale come la presente, rappresentano per la cultura e le società occidentali il grande rimosso: ciò che esse realizzandosi hanno mancato, le tracce di una diffusa istanza di liberazione che forse ancora permane al loro interno, inappagata, ma appare, per dirla con Colin Ward, ormai “sepolta e straziata” e perciò difficilmente esprimibile.

I relatori, accomunati nelle loro profonde differenze di approccio e saperi da un interesse a leggere criticamente questa condizione e a riflettere sulle forme attuali del capitalismo e dell’autoritarismo, sono stati invitati a discutere, partendo dall’analisi di diversi contesti storici e teorici, del nesso tra comunismo e libertà, quale si è configurato nell’Ottocento e nel Novecento e quale potrebbe articolarsi, in tutta la sua problematicità, nella prospettiva del presente. Caratterizzavano il ciclo, l’invito a non rinchiudersi in linguaggi specialistici e il tentativo di proporre un laboratorio di divulgazione critica  (consapevole ossimoro) rivolto ad un pubblico ampio e differenziato.

Presento qui di seguito i nuclei tematici dei sei incontri.

 

Ragione e rivoluzioni

Kant vide nella rivoluzione francese il segno che era possibile per l’umanità giungere alla libertà e alla pace mondiale e ritenne che ciò potesse avvenire attraverso la nascita di governi repubblicani liberamente eletti dai cittadini. I secoli successivi sembrano aver seccamente smentito questa aspettativa: viviamo una curvatura della storia mondiale in cui le speranze che l’illuminismo ripose nell’avvento di governi rappresentativi, nella loro fedeltà al mandato elettorale, nella saggezza dei popoli e nell’intervento di organismi sovrastatali deputati a risolvere le controversie internazionali, sono state infrante dai fatti. La tenuta dell’inedita formula federale americana, l’avvento di regimi parlamentari in tutti i principali paesi occidentali, la nascita di organismi come la Società delle Nazioni, prima, e l’ONU poi, infine l’entrata in gioco dell’Unione europea, non hanno in alcun modo allontanato gli spettri della guerra, della disuguaglianza, dell’ignoranza e dell’indigenza dalla scena mondiale. La promessa illuminista di una liberazione del genere umano dallo stato di minorità è rimasta incompiuta. Prendendo le mosse da questo scenario, la prima giornata introduceva la discussione sull’altra grande promessa, che nacque come risposta agli esiti autoritari della rivoluzione francese e delle altre rivoluzioni borghesi: la promessa di liberazione e riscatto sociale legata alle lotte per il socialismo e per il comunismo.

 

Le radici libertarie del comunismo

Il titolo del secondo appuntamento si richiama alle motivazioni da cui sorsero i primi programmi anarco-comunisti: essi nascevano dall’idea che si potesse risolvere razionalmente un conflitto che probabilmente ha attraversato l’intera storia umana ed ogni singolo uomo: quello tra istanze di cooperazione ed istanze di libertà. Che si potesse realizzare, congiuntamente, la socializzazione delle risorse naturali e dei grandi mezzi di produzione e la massima libertà possibile per ogni singolo era la scommessa che entrava in gioco con questo nuovo orizzonte rivoluzionario. Comunismo e libertà venivano a coniugarsi, a livello programmatico, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, e, nei primi quattro decenni del Novecento, anche sul piano delle concrete forme di lotta e di sperimentazione sociale nel progetto di un “comunismo libertario”. In questa prospettiva di una libertà cooperativa che potesse toccare a tutti e a ciascuno, che ha agito come grande attrattore di energie per le lotte contro le diverse forme dell’oppressione sociale, nella cultura europea dell’Ottocento e del Novecento, si innervano le radici libertarie del comunismo.

 

“Gli spazi inabitati che il comunismo desolò”

I partiti e le organizzazioni sindacali che si richiamarono a questa promessa, ovunque hanno conquistato o condiviso il potere, sono, tuttavia, riusciti a trasformare l’istanza di liberazione da cui traevano alimento in ideologia di copertura per nuove forme di oppressione e di potere. A fungere da ipoteca, per questi tentativi, forse, proprio il modello della rivoluzione francese, della rivoluzione borghese vittoriosa, che in ultima analisi tutti i presunti partiti proletari, sorti nei due secoli successivi, sembrarono interiorizzare, producendo così un “eterno ritorno” della rivoluzione borghese nelle rivoluzioni proletarie. E’ questo il tema al centro della terza giornata che prende il titolo da un verso del poeta Franco Fortini. Se i primi tre incontri miravano a confrontarsi con questi problemi ritrovandoli in specifici momenti di  vicende storiche, negli appuntamenti successivi si è proceduto, invece, ragionando su tre  parole chiave: violenza, proprietà, vita quotidiana.

 

Le forme della violenza

L’anarchismo della prima metà del Novecento si confrontò con alcuni problemi che gli si ponevano con urgenza: accettare senza ipocrisie il momento violento della lotta rivoluzionaria, intenderlo come autodifesa individuale e collettiva, responsabilità che è necessario assumersi per perseguire un reale sovvertimento dell’organizzazione sociale, ma al contempo sapere che non appena la violenza si fa potere, forza fondatrice di diritto, essa ha già tradito la rivoluzione, e comportarsi di conseguenza. Su questa linea, limpida ma per certi versi aporetica, si attestò Malatesta. Più tardi, Durruti dovette misurarsi col tentativo di organizzare una lotta efficace contro un esercito nemico, difendendo le formazioni anarchiche dalla tendenza alla militarizzazione che la guerra, e l’alleanza col fronte repubblicano, portavano con sé. Un’ampia discussione su queste problematiche si ripropose, in contesti sociali e rapporti di forze del tutto mutati, negli anni Settanta.

Una riflessione sulle odierne forme della violenza pone problemi nuovi senza alleviare le difficoltà messe in campo da quei cicli di lotte e dai loro esiti; richiede attenzione non solo alle trasformazioni del rapporto guerra-Stati-capitale, ma anche alla violenza incorporata nelle nuove forme di tecnologia e di estorsione del consenso, esercitata come capacità di rendere gli individui qualcosa di etero-diretto, riprodotta specularmente in quasi tutte le forme di opposizione al potere dominante oggi in atto. Dunque, un’attenzione anche alle forme dell’autoritarismo quale viene incorporato, riprodotto e mimetizzato da ognuno di noi. Max Horkheimer e Theodor Adorno, che pure anarchici non erano, suggerivano: rifiutarsi di esercitare il terrore anche sulla più ‘insignificante’ delle creature. Non quel rifiuto generico dell’atto violento che finisce per essere forma implicita di complicità con la violenza dominante, ma rifiuto del terrore inteso come violenza contro l’inerme, contro corpi e menti inermi, esercitata da chi ha un potere su chi non ce l’ha.

 

Le forme della proprietà

Anarchismo e proprietà era il tema della giornata, discusso partendo da due fonti che, nel movimento anarchico, sono state spesso oggetto di accesi dibattiti e contrastanti posizioni, Max Stirner e Camillo Berneri, e da due problematiche tra loro connesse: il rapporto con se stessi e il rapporto con le cose materiali che usiamo nella nostra vita quotidiana.

·                    Tutta la mia simpatia e gratitudine alla pars destruens del discorso stirneriano che mi è caro per come mi insegnò, da ragazzo, la ribellione al principio di autorità, il riconoscimento delle sue molte forme di travestimento, e che non ha senso alcuna rivoluzione se non parte da te, dalla tua vita, e ad essa ritorna, che nessuno può liberarti se non sei disposto a lottare in prima persona. Alcuni dubbi, tuttavia, ho conservato o maturato, tornando più volte su questa lettura. “Io sono mia proprietà”, “proprietario e creatore del mio diritto”: il proto-anarchismo di Stirner, così rivoluzionario nella sua parte decostruttiva tesa ad una autoliberazione da ogni ruolo sacrificale e da ogni soggezione all’autorità esterna, nella sua parte propositiva stabilisce un rapporto di proprietà con se stesso e suggerisce l’appropriazione come modalità di rivolta. Le perplessità che questa formula suscita riguardano, in primo luogo, il tipo di rapporto con sé, il rapporto io-corpo, e per conseguenza anche il rapporto con ogni alterità, che essa eredita dalla tradizione filosofica e, al di là delle intenzioni stirneriane, finisce, a mio avviso, per riproporre. Nelle scarne note affermative che attraversano L’Unico, Stirner sembra restare, almeno in parte, ancorato all’orizzonte idealistico di un io che conosce come unica forma possibile di rapporto con se stesso e con l’alterità l’appropriazione e che si illude di poter dominare sia il proprio corpo sia la realtà esterna, riducendoli a cosa propria, che sta a disposizione per essere usata. Illusione che, attraversando l’intera tradizione del razionalismo occidentale, aveva trovato il suo culmine nell’epoca della rivoluzione scientifica, mentre in quel momento storico stava per essere liquidata da un livello di sviluppo della razionalizzazione e del controllo sociali, di cui Hegel si era fatto fautore e interprete, capace di ridurre, attraverso lo Stato, gli apparati produttivi, l’organizzazione scientifica, le politiche culturali di massa, l’individuo a mero ingranaggio o appendice intercambiabile della vita sociale. Toccherà, paradossalmente, all’aristocratico Nietzsche mostrare ciò che, recentemente, hanno ribadito le filosofe Wendy Brown e Judith Butler: che speculari sono le sovranità dello Stato e quella dell’Io, che quest’ultimo è Stato interiorizzato, principio del controllo introiettato, momento in cui l’individuo si fa guardiano di se stesso. Toccherà al fatalista Freud smontarne e svelarne gli apparati. Forse, proprio per questo suo nodo irrisolto di fondo, il discorso stirneriano, anche sul piano del rapporto con gli oggetti d’uso di cui si ha bisogno per vivere, non riesce, a mio avviso, a indicare con chiarezza un elemento che possa farlo distinguere da altre due opzioni che incarnano vie decisamente antilibertarie, basandosi semplicemente sulla logica per cui il più forte vince e si appropria di ciò che vuole:

- la lotta per accaparrarsi un posto al sole, per entrare nella cerchia dei privilegiati, che la logica liberale e liberista legittima;

- l’atteggiamento aristocratico di Nietzsche che, esercitando una critica della morale non meno radicale di quella stirneriana, la finalizza, però, ad un progetto esplicitamente elitario che implica il dominio dei pochi sui molti. 

L’anarchismo classico produsse una riflessione articolata sul tema della proprietà che culminò nel comunismo pluralismo e sperimentalismo libertari di Malatesta e nel possibilismo libertario di Berneri. In quei ragionamenti, nel loro serrato confronto con i più seri tra quanti, nel panorama delle lotte sociali e politiche del tempo, avevano aderito al liberalismo o, da posizioni libertarie, stavano scivolando gradualmente verso una prospettiva parlamentarista, sono raccolte problematiche aperte che ancora ci riguardano. L’idea che Berneri eredita e rielabora da Malatesta di un pluralismo libertario che vincoli a non sfruttare il lavoro altrui, e per il resto ammetta diverse possibilità di organizzazione individuale e collettiva del lavoro, è oggi come allora, nel contempo, problematica e preziosa. E’ certamente utile provare a declinarla nuovamente nel presente, metterla a confronto con le problematiche e le condizioni attuali. Per un verso, almeno, essa appare datata: appartiene ad un’epoca in cui il movimento libertario, salvo rare eccezioni, non si era ancora posto il problema di un rapporto libertario, non solo tra gli uomini, ma anche dell’umanità con il resto del vivente. Tale prospettiva, oggi, richiederebbe, con il ripensamento generale degli scopi della società, dei criteri intorno ai quali si organizza la vita associata e dei rapporti tra ogni singolo individuo e la comunità, anche una drastica inversione di tendenza delle relazioni tra l’umanità ed il resto della natura, tra la comunità umana e la comunità dei viventi. Un rifiuto radicale del mito sviluppista, comune alla tradizione del capitalismo liberale e del capitalismo di stato, secondo cui occorre produrre sempre di più ed il riscatto sociale di tutti sarà il frutto del massimo sviluppo delle forze produttive. La consapevolezza del fatto che se l’uomo è diventato schiavo dell’altro uomo, se la diseguaglianza continua a crescere sulla terra, è anche perché quel progetto di schiavizzazione della natura cui la modernità si è consacrata implica che, insieme agli altri esseri viventi, anche ogni singolo essere umano sia asservito alle leggi del mercato, al ritmo della produzione e del consumo di merci; che anche la natura in noi e non solo quella fuori di noi sia sistematicamente soffocata e abbrutita. Occorrerebbe individuare uno scopo dell’azione sociale e cooperativa umana alternativo a quell’obiettivo del dominio della natura che storicamente è stato comune sia ai movimenti progressisti sia alle correnti più esplicitamente reazionarie del pensiero moderno.

 

Il niente di tutti

Niente di tutti è l’involucro svuotato che tiene oggi posto del sociale, del condiviso e deciso insieme; fantasma che si aggira senza che alcuno più sappia dargli volto e nome. Cancellato, nell’offesa del presente, non è il sogno di un riscatto, che ognuno ormai chiude e cela in sé, ma il suo farsi pubblico, il crederlo possibile, il ricordare che vite furono spese a tentarlo. Prossimo appare l’obiettivo di un vivere (umano?) che vi rinunci senza più saperlo, senza “sentirne più dolore”.

A fronte dei fallimenti del socialismo autoritario e democratico, l’attenzione di molti sembra oggi orientarsi ad una riscoperta delle potenzialità di un approccio libertario alla lotta anticapitalista. Ma il grado di litigiosità interna, di distacco dalla società, di separazione dalla maggioranza delle persone, e incapacità di comunicare con esse, non sembrano oggi minori tra le componenti libertarie dei movimenti di quanto lo siano nelle sinistre istituzionali o in altre frange dell’attivismo sociale.

Tra le ipoteche di cui ci si dovrebbe liberare, ogni approccio progressista, sviluppista e storicista all’esigenza rivoluzionaria: controcorrente, tra i più che si ispirarono al pensiero marxista, Walter Benjamin intese la rivoluzione, non come tappa finale di una ascesa  della storia verso il progresso e la libertà, ma come interruzione violenta di una evoluzione storica che coinvolge tutti e, se lasciata a se stessa, conduce alla “catastrofe”. L’essere già dentro tale catastrofe è condizione comune oggi alle genti più diverse, anche a coloro che ancora non se ne sentono toccati: da essa andrebbe tratta ragion d’essere per un pluralismo libertario che volesse misurarsi con la condizione umana nel XXI secolo.

Da qui l’esigenza di confrontarsi, in questo ciclo di incontri, anche con i luoghi comuni più diffusi sul comunismo e sull’anarchismo, giudizi severi e spensierati nei quali si annidano, declinati in forma qualunquistica, problemi ineludibili e aperti (ad esempio le alternative al sistema carcerario). Forse solo cercando risposte non demagogiche a quei luoghi comuni, pratiche individuali e collettive che partendo dall’oggi siano in grado, quanto meno, di scalfirli, potremo tornare ad intercettare pensieri e comportamenti di donne e uomini del nostro tempo, per i quali parole come libertà, rivoluzione, comunismo, suscitano ancora, nonostante tutto, antiche paure e slanci utopici. Su queste paure e questi slanci occorrerà riflettere perché essi sono segni di quelle rivoluzioni che restano immanenti in noi, dentro ognuno di noi, come atti incompiuti di libertà che, pur privati di una lingua e di un orizzonte, reclamano e cercano ancora compimento.

 

 

Un bilancio?

Dagli anni Ottanta in poi, la cultura dominante è riuscita a scavare tra le giovani generazioni e le esperienze di vita e di lotta sociale maturate dalle generazioni precedenti, a partire dalla rivoluzione francese, nel corso di quasi due secoli, un solco che è man mano divenuto un abisso. Memorie esperienze ragioni e linguaggi del conflitto sociale si sono interrotti e ammutoliti. Occorre cancellare anche il ricordo del significato della parola “sinistra”, raccomandava Tony Blair qualche anno fa. Se oggi mafia e fascismo rivestiti di tecnocrazia possono passare per il nuovo, è anche perché questo azzeramento è in gran parte riuscito.

E’ ancora utile interrogare quelle esperienze? In quali forme, con quali tipi di rivisitazione e di domande esse potrebbero tornare a parlarci, quei fili essere riannodati? In che misura uno spassionato confronto con questi pezzi rimossi della nostra storia può aiutare l’uomo d’oggi a capire la propria condizione?

Queste, in sintesi, le problematiche da cui il ciclo prendeva le mosse.

Quanto fosse difficile, per i promotori stessi, pure abituati all’insegnamento, sporgersi in tale abisso, porgere le proprie riflessioni alle generazioni degli attuali ventenni, uscire dai linguaggi specialistici e dal cerchio dei rimandi colti che solo pochi afferrano, per tentare una lingua che sia insieme divulgativa e critica, la ricostruzione di spazi per un pubblico ragionare su ciò che tutti riguarda, l’ha mostrato, durante la terza giornata, un momento del dibattito che credo sia stato il meno accademico e il più importante.

Una studentessa universitaria, prendendo coraggio, ha detto, in modo schietto e diretto:

- a me sembra si sia discusso di fatti storici lontani dal presente, non di problemi attuali;

- avete parlato di superamento dello Stato ma a me hanno insegnato che lo Stato siamo noi;

- riproponete concetti come comunismo e anarchismo, ma a me hanno insegnato che il comunismo è dittatura, l’anarchia è caos.

Qui le difficoltà che si era inteso segnalare venivano al pettine coinvolgendoci, riguardandoci.

Con questi luoghi del pensare diffuso e dominante, con la loro potenza, il loro radicamento, con tutto ciò che nella storia avvenuta gli ha concesso trionfo, anche con i grani di verità e di amara memoria che essi trasportano e insabbiano nella forma qualunquistica, abbiamo da misurarci. Il ciclo di incontri è stato in grado, in tal senso, di confermare quanto il problema che si tentava di focalizzare fosse centrato.

Esso è anche servito ad avviare momenti di confronto tra studiosi e militanti che non si erano in precedenza mai incontrati.

La partecipazione è stata, in media, di una trentina di persone ad incontro, con punte reali più alte e più basse.

Una raccolta di sintesi degli interventi sarà messa a disposizione degli interessati appena possibile. Degli incontri esiste anche una documentazione filmata.

Resta da valutare l’idea di raccogliere, in forma cartacea e/o in altre forme, alcuni momenti del percorso svolto per proporli ad una più ampia circolazione.

 

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