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Sinistra israeliana: le voci di un dissidio

Cristina Alziati
 

There is no reason to celebrate anything

Ahron Shabtai

Da ogni parte veniamo ammoniti in merito a quello che sarebbe un crescente antisemitismo di sinistra; quando ne domando, nessuno che mi indichi responsabilità, circostanze, fatti – cosa che invece è sin troppo agevole fare a proposito del razzismo contro gli immigrati, dispiegato – quale presupposto delle pratiche xenofobe più comuni – a livello istituzionale, anche dai governi di centro sinistra, e di formazione dell’opinione attraverso le consuetudini linguistiche di tanto giornalismo e intellettualità democratici; si legga al proposito G. Faso, Lessico del razzismo democratico. Parole che escludono (DeriveApprodi 2008). Sospendo dunque il giudizio in merito all’antisionismo di sinistra, e passo ad altro.

Mentre il martello pneumatico del pensiero unico non smette di ripetere che al Salon du livre di Parigi e alla Fiera del libro di Torino partecipano i grandi esponenti del pacifismo israeliano David Grossmann, Amos Oz, Abraham B. Yehoshua, sul manifesto cala la condanna del boicottaggio dei due eventi da parte di Marco D’Eramo, Valentino Parlato, Massimo Raffaeli ed altri: giacché, si argomenta, le articolazioni e contraddizioni della società israeliana non si esprimono tutte nella «lingua del nazionalismo in armi e del colonialismo» (Raffaeli 7.2.08), il boicottaggio si ritorcerebbe «contro gli scrittori israeliani che criticano aspramente il governo» (Parlato 27.1.08).

Prescindo da considerazioni relative al cinismo insito nel celebrare attraverso le fiere la fondazione di Israele, che tragicamente fa corpo con la naqba: nel celebrarla, dico, non un bel giorno in un’altra storia, ma nella attuale  – che induce lo storico ebreo israeliano Ilan Pappe a scegliere per il suo ultimo lavoro un grave, soppesato titolo, The ethnic cleansing of Palestine (Oneworld Publications 2006), la pulizia etnica della Palestina. There is no reason to celebrate anything, – stringata, l’amarezza del poeta ebreo israeliano Ahron Shabtai (countercurrents.org 26.02.’08).

Non più che per un accenno, commento la pochezza culturale, in temperie di scontro di civiltà, che porta destra e manca a proporre una sorta di bilanciamento political correct nei termini della contrapposizione di nazionalismi e blocchi astratti, che scemenza: se quest’anno tocca a Israele (l’Occidente), l’anno prossimo sarà il turno dell’Egitto (gli arabi); se in Israele ci sono anche palestinesi, si invitino dunque pure loro, però non verranno, ma forse qualcuno che viene lo si trova, eccetera. Gli scrittori israeliani. Gli scrittori inglesi. Gli scrittori italiani – la Fallaci, e, che so, Elsa Morante. Ma dove.

Piuttosto, nel merito degli ebrei israeliani che «criticano aspramente il governo» e che non parlano «la lingua del colonialismo in armi», i quali il boicottaggio verrebbe a censurare: scriviamolo, se ne scriviamo, che proprio una parte di questi scrittori e intellettuali si rifiuta di partecipare a siffatti pacchetti culturali e aderisce al boicottaggio contro Israele. Questa adesione, che esprime le ragioni di un dissidio interno alla sinistra israeliana, è stata letteralmente ignorata da tutti coloro che sono intervenuti sul manifesto contro la scelta del boicottaggio.

Invitato al Salon du livre, il responsabile del supplemento letterario di Haaretz Benny Ziffer annuncia il boicottaggio per «l’indecenza di venire ricevuti con tutti gli onori a Parigi mentre i palestinesi congelano ai check-points» (Liberation, 12.02.’08). Shabtai declina l’invito, non intende sostenere «un atto barbaro cinicamente cammuffato da cultura» (Le grand soir, 5.2.’07); e ragiona: «Quasi quattro milioni di palestinesi stanno vivendo in campi-prigione, come a Gaza. La gente in Europa non sa esattamente cosa succede qui. È molto stupido usare la parola ‘antisemita’ e attribuirla a coloro che invocano il boicottaggio. Sono nato qui, ho qui i miei figli e chiamo al boicottaggio di Israele».

Nonostante nei loro interventi sul manifesto i suddetti sollecitassero a operare distinzioni e lamentassero che il boicottaggio è muto, essi hanno contribuito a sostenere una immagine indistinta della sinistra israeliana. Il boicottaggio non è muto: gli si rendessero tutte le voci che in esso parlano, lo si sentirebbe parlare. La sinistra israeliana è attraversata da un dissidio, e non si esprime compatta nella lingua del sionismo: l’opposizione à la Grossmann-Oz-Yehoshua, che viene accreditata per essere l’opposizione interna tout court, rappresenta invece ovviamente una posizione politica, quella della sinistra sionista – la quale, nel suo prendere distanza dai falchi per le tattiche, non già per gli obiettivi, è denunciata come organica al sistema dallo stesso Shabtai, e (fra altri) da Gilad Atzmon, Uri Avnery, Amira Hass, Yitzhak Laor, Ilan Pappe, Nurit Peled-Elhanan, Michel Warschawski.

Non sono nomi di marziani, ma di cittadini di Israele di origine ebraica. Se ne vadano a leggere libri, articoli, interviste attraverso cui smascherano la natura tribale, colonialista e razzista del sionismo di destra come di sinistra. E si adoperano in unum – ché le diverse cose sono la stessa cosa – contro il regime di apartheid e il lento stillicidio che Israele infligge ai palestinesi e per la realizzazione di uno Stato di cittadini, poiché eccepiscono una contraddizione fra Stato ebraico e democrazia; si adoperano per la realizzazione di una società diversa da quella che è nella mente del sionismo: libera dall’ipoteca di un pensiero (di una politica) che dispone il noi e il loro per via di separazioni etniche, che ritiene normale quella società che sia etnicamente omogenea, che concepisce qualcosa come, nelle formulazioni dello psichismo di Yehoshua (Ebreo, israeliano, sionista, e/o 2000), un «ebreo totale» (israeliano) a fronte di uno parziale, dall’identità segnata da una «realtà mancante e bloccata».

Tanti, in Israele – e ne sappiamo poco o nulla – si domandano con Warschawski (Israele-Palestina, Sapere 2000) cosa sia «l’uguaglianza in un paese che si definisce ebraico? Come parlare di democrazia se oltre il 20% dei cittadini non appartiene alla collettività sovrana? Cos’è la cittadinanza in un contesto del genere? Quale laicità, quando l’entità sovrana è definita secondo criteri religiosi? E soprattutto: che cosa significa ‘Stato ebraico’ se non si pone in una prospettiva religiosa ma laica?». Non se lo domanda Yehoshua: «Essere israeliani significa essere ebrei totali [...] ebreo e israeliano stanno tra loro come una parte sta al tutto [...]. L’esistenza attuale degli israeliani non ebrei, questo fatto nuovo [sic! n.d.r.], confonde un po’ i termini. Quando questo conflitto sarà chiuso, il nostro rapporto con gli israeliani non ebrei si normalizzerà. Saranno loro a vivere la schizofrenia della doppia identità, e non noi» (op. cit.). «Chi sono questi che dicono ‘noi’? – risponde, interrogando, Nurit Peled-Elhanan –. La parola ‘popolo’, come la parola ‘noi’, una delle più cariche che ci siano, sono presentate come se non vi fosse scelta: una beffa del destino, un’opera della natura [...]. Quando qualche anno fa una giornalista mi domandò come potessi accettare parole di conforto provenienti dalla cosiddetta ‘altra parte’ [quella palestinese, n.d.r:; una figlia della Peled-Elhanan venne ammazzata in un attentato commesso da un palestinese], ho negato di essere disposta a farlo: infatti, ho rifiutato di stringere la mano a Olmert, venuto a esprimermi le sue condoglianze, e di parlargli; per me, l’altra parte sono lui e i suoi simili [...]. ‘Noi’ non può definirsi in termini nazionalisti; questa terra appartiene ai suoi abitanti e non a gente che vive in Europa o in America. Una reale fraternità non si stabilisce per via di nazionalismi e razzismi» (Israël: Sur l’éducation au racisme et le meurtre d’enfants, Gerusalemme 2006). All’interno della sinistra israeliana due idee di società confliggono. Mica un sassolino nella scarpa. Le ragioni che una parte, anche attraverso il boicottaggio, riesca a fare conoscere, consentono di decrittare la retorica del sionismo di sinistra, che davvero a malapena maschera una violenza.

Ciascuno secondo coscienza; non però chi condanna il boicottaggio manchi di dirci a quale parte politica sta di fatto negando solidarietà. Warschawski (che, contro la lettera dei suoi lavori, è stato persino usato – in uno dei sunnominati interventi –come se rigettasse le iniziative politiche volte all’isolamento di Israele), chiude A precipizio (Bollati Boringhieri 2004) con un appello; scelgo di fare mia, nelle sue parole, «la scommessa dei dissidenti israeliani, emarginati ma più che mai decisi, i quali sanno che, difendendo il diritto – in primo luogo, quello dei palestinesi, ma anche il diritto come fondamento della società in cui vivono –, lavorano per la salvezza della loro esistenza sovrana. Lottare contro l’occupazione, resistere contro la politica di forza, ostacolare le sinistre prospettive di pulizia etnica […]. Ma combattere anche  la filosofia della separazione [sostenuta dalla sinistra pacifista sionista, n.d.r.], che rinchiude Israele in un nuovo ghetto, mantenere aperte le finestre di cooperazione e di solidarietà. E’ un atto di responsabilità – qualcuno direbbe di amore – fare deragliare questa società che sta correndo a precipizio verso la propria distruzione, rifiutando di collaborare, se si è israeliani, e facendo l’impossibile, se si è cittadini del mondo, per porre fine a una condizione di impunità».

 

 

* una versione ridotta del presente intervento è stata pubblicata nel mensile guerre&pace, anno XVI, n. 148, aprile 2008 

 

 

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