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Dialoghetti sulla Fiera del Libro
«una
città», n. 154, marzo 2008
Luca Baranelli
A:
Andrai
alla Fiera del libro di Torino?
B:
No.
A:
Intendi
forse boicottarla?
B:
No, non
esattamente.
A:
Allora
perché?
B:
Perché non riesco
più ad andare a Torino, che pure è una
città a cui
sono molto legato.
A:
Ma se tu
abitassi a Torino ci andresti?
B:
No. L’ultima volta
che sono stato alla Fiera – che se non sbaglio si
chiamava a quei tempi Salone del libro – era il 1993. Mi feci
l’idea che era
assurdo frequentare un luogo in cui l’offerta di libri, di
persone e di
dibattiti è eccessiva. Immagino che da allora i numeri siano
aumentati.
A:
Non capisco.
B:
Quando i libri, le persone e i
dibattiti sono troppi non si riesce a
selezionare quelli che interessano davvero: si vorrebbe scoprire o
trovare
qualche libro che le librerie non hanno, vedere o rivedere alcuni
vecchi amici,
partecipare a qualche incontro. Ma è quasi impossibile,
almeno per chi non sia
un professionista o un assatanato dei dibattiti e delle presentazioni.
A:
Spiegati meglio.
B:
Siamo frastornati sia dalla
folla infantile, giovanile e adulta sia dal
rumore; spesso non troviamo chi cerchiamo e rischiamo invece
d’incontrare
persone moleste che avevamo dimenticato senza rimpianti: il rispetto e
la buona
creanza verso i nostri simili ci obbligano a intrattenerci con loro,
trascurando altri a noi più prossimi. Alla fine ci si sente
un po’ spersi in
un’iperlibreria in cui bisogna pagare il biglietto e se si
acquista un libro
non si ha alcuno sconto sul prezzo di copertina.
A:
Mi sembrano scuse un
po’ snobistiche per non affrontare la questione
della presenza dello stato d’Israele come ospite
d’onore.
B:
Non è
così. Ammetto però che il caso di
quest’anno mi ha reso evidente
una cosa a cui non avevo mai fatto troppo caso: alla Fiera
c’è sempre uno stato
ospite, e questo non mi piace. Non mi piace il nazionalismo,
figuriamoci se mi
piace il nazionalismo della poesia, del romanzo, della storiografia, e
via
dicendo.
A:
Ma Israele è uno
stato democratico, e inoltre ha eccellenti scrittori e
ottimi storici.
B:
Ripeto che non mi piace
né se si tratta di una democrazia né se si
tratta di uno stato autoritario. Anche se l’ospite
d’onore fosse stato
l’Egitto, come inizialmente doveva essere, le cose non
sarebbero cambiate. In
quel caso i dirigenti della Fiera avrebbero comunque dovuto chiedere
ufficialmente alle autorità culturali egiziane (è
facile immaginare con quale
ascolto) di ammettere e presentare anche libri di scrittori egiziani
esuli,
dissidenti o magari incarcerati.
A:
Ma quest’anno
è il 60° dello stato d’Israele.
B:
Tanto meno, mi pare, esso
può valere come criterio d’invito o di
autoinvito (se è vero quanto si è letto sui
giornali). Un anniversario così
vicino, anzi, accentua e irrigidisce la postura nazionalistica e
ufficiale di
quanti rappresentano lo stato ospite e può renderli meno
sensibili alle ragioni
e alle istanze degli scrittori dissidenti o di altra
nazionalità che vivono nel
suo territorio.
A:
Ma insomma, sei per il
boicottaggio?
B:
No, o almeno ho forti dubbi.
A:
In che senso?
B:
Il boicottaggio solleva molti
problemi, teorici e pratici, che non mi
sento e non sono in grado di affrontare in poche battute. Credo anche
che non
sia mai un buon argomento contrapporre un boicottaggio a un altro, ma
non posso
fare a meno di pensare (e sarei ipocrita se non lo dicessi) che chi si
oppone
al boicottaggio di Israele alla Fiera del libro dovrebbe opporsi anche,
per
fare un esempio, al boicottaggio energetico e sanitario dei palestinesi
di
Gaza.
A:
Mi sembra che tu non voglia
pronunciarti sul boicottaggio della Fiera
del libro.
B:
In questo caso mi pare che il
boicottaggio finisca per dare una risposta
– indiscutibilmente legittima, soprattutto se viene da
israeliani e/o
palestinesi – ma impotente, impopolare e speculare rispetto
alla decisione
della Fiera. Vuole essere inclusivo verso gli scrittori palestinesi che
patiscono un’occupazione atroce, ma di fatto tende a
condizionare e limitare,
se non a escludere, gli scrittori israeliani che sono stati invitati a
rappresentare il loro stato, provocando in essi irrigidimenti e
chiusure.
D’altra parte, pensare a incontri informali in quei pochi
giorni di maggio,
fuori e dentro la Fiera, fra pacifisti palestinesi, israeliani e
italiani, mi
pare del tutto irrealistico. Il risultato, a mio avviso, è
un vero pasticcio.
A:
Che proponi di fare, allora?
B:
Cambiare radicalmente formula.
Non saprei dare consigli “costruttivi”.
Ma credo che la prima cosa da fare sia non invitare più gli
stati
in quanto tali
alla Fiera del libro (per non
essere da meno di quelle di Francoforte, Parigi, ecc.). Secondo me, la
Fiera
dovrebbe accogliere editori e scrittori senza altri vincoli di
appartenenza e
fedeltà che non siano quelli della ricerca intellettuale
libera e spregiudicata
e del confronto fra culture e letterature. Se non rappresentano
ufficialmente
uno stato, se non sono embedded,
editori e scrittori di ogni parte del mondo saranno più
liberi di pensare,
scrivere, pubblicare e dire quello che vogliono; ma non per questo
saranno meno
legati, se vogliono, alle ragioni e
alla storia della loro nazione e del loro stato (se ne hanno uno).
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