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Dell'informazione
di Susanna
Böhme-Kuby
Franco
Giustolisi sul «Manifesto» del 24.06.08 ha ripreso
la sua denuncia contro il degrado dell’informazione in Italia
e chiede nientemeno che una “rivoluzione dei
giornalisti, del loro essere, del loro agire, del loro conquistarsi o
fargli conquistare l’indipendenza”. Al nuovo
presidente della Federazione Nazionale della Stampa propone
perciò l’introduzione di alcuni strumenti di
controllo per arginare i fenomeni di corruzione –
sperando che questi possa “non farsi avvinghiare dalle varie
catene che stringono sindacalisti e politici”.
La sua constatazione circa i giornalisti
“mezzibusti e nani” non sembra però
tener conto della situazione strutturale che - nella
maggior parte dei casi - li rende tali. Siccome anche Rossana
Rossanda, nel suo commento sul PD del 24 giugno, ci ricorda la deriva
della Repubblica di Weimar, mi sembra opportuno richiamare in
mente il ruolo che in essa ebbero i media.
Kurt Tucholsky
(1890-1935), che scrisse per decine di giornali, ha descritto
la situazione d’impotenza del redattore nei confronti
dell’editore: “ come lui finisca per mentire a se
stesso, compensando in eccesso i propri difetti, di cui si sente
colpevole, e pavoneggiandosi squallidamente con se stesso e i suoi
collaboratori”. Già nel 1921 la stampa
è “molto più che corrotta, è
influenzata. O meglio, influenzata in modo incontrollata. Ai redattori
ormai è entrato nel sangue che, alla fine, devono pensare
non alla verità, ma all’effetto delle loro
notizie”. Il redattore è dunque libero
di fare ciò che vuole solo a condizione di recepire lo
spirito del “rappresentante del cartello che controlla il
giornale”, e purché “non si spezzi la
catena dei riguardi, quelli verso gli inserzionisti […],
quelli verso la suscettibilità dei lettori
borghesi”.
Sono gli innumerevoli gruppi di interesse oltre ai poteri forti, nella
Germania di Weimar , ai quali la stampa fa solo da “musica
d’accompagnamento”. Un simile ruolo si
può notare anche in Italia: nei due paesi a tarda
unificazione nazionale la stampa non ha mai raggiunto una vera
autonomia con funzione di critica verso il potere costituito, non ci
sono stati gli spazi per la formazione un “quarto
potere”. I massmedia sono imprese dedite al profitto, la
cosiddetta “informazione” è, semmai, un
prodotto secondario, ormai presente per lo più come
“infotainment”, basti guardare un telegiornale
qualsiasi. Il settore pubblico della TV, da tempo contagiato, dovrebbe
essere protetto e difeso con maggiore forza e passione dalla
cosiddetta società civile – per non parlare del
necessario aiuto pubblico ai resti della stampa indipendente
– almeno per tenere viva l’illusione di un
pluralismo mediatico. Sono i processi di concentrazione
economica nel settore a produrre quei meccanismi che condizionano
sempre più anche gli strumenti di lavoro degli addetti, non
solo in Italia, ma qui la situazione contrattuale dei giornalisti
appare particolarmente scandalosa. Il lettore si trova dunque nello
stesso stato di costrizione descritto da Tucholsky, 1932:
“Acquistare ciò che i cartelli ti gettano davanti;
leggere ciò che i censori ti consentono; credere a
ciò che la chiesa e il partito ti impongono. Al momento i
pantaloni si portano semilarghi, mentre la libertà
è fuori moda.”
La deriva nella dittatura presidenziale di Weimar (dal 1930)
restringeva sempre più non solo gli spazi della stampa di
sinistra, ma anche di quella borghese, critica nei confronti
dell’involuzione politica, favorita da uno stato di
precarietà legislativa. (La famosa Costituzione di
Weimar non prevedeva uno specifico diritto di
“libertà di stampa”, codificato solo
come variante della “libertà di
opinione”, a sua volta regolata da una apposita legge del
Reich, modificabile e quindi modificata
più volte secondo le esigenze delle instabili
maggioranze parlamentari). La presa del potere da parte di
Hitler nel 1933 non dovette modificare tale stato di cose sul
piano istituzionale, e il passaggio fu anche in questo settore,
graduale. Harry Pross, studioso del giornalismo, ricordò nel
2000 che “fra il 1930 e il 1931 l’opportunismo
tipico di un settore sempre in anticipo assume una sfumatura
bruna”. E Carl von Ossietzky, direttore della ormai mitica
rivista indipendente “Die Weltbühne”, e
già processato e incarcerato dalla Repubblica nel
1931 per “alto tradimento pubblicistico”,
osservò nel 1932: “Nella situazione attuale la
cosa sconvolgente non è che il fascismo vinca, ma che gli
altri vi si adattino. Brüning cerca di assimilarsi a Hitler, i
socialdemocratici prendono a modello Brüning. Il fascismo
condiziona comunque gli argomenti e il livello”.
Allora fu il magnate della stampa di destra e dell’industria
cinematografica UFA (il maggiore impero
multimediale europeo), fondatore del “partito del popolo
della nazione tedesca” (DNVP) e poi primo ministro
dell’economia di Hitler, Alfred
Hugenberg, ad aver preparato – con i suoi adepti -
il terreno mentale alla graduale dissoluzione della
fragile democrazia.
Se il lettore odierno individua dei paralleli con quel passato egli sa
anche che la storia non si ripete, se non come farsa, ma questa alla
quale assistiamo ora, come ricorda Rossanda, veramente non fa
ridere. Stupisce, soprattutto all’estero,
il fatto che il fenomeno Berlusconi sia stato così
fortemente sottovalutato da ampi settori politici e
dell’opinione pubblica e non solo riguardo
all’intreccio immediato tra potere economico e
politico. Il fatto che nella sua figura questi due si fondano, rende
ormai quasi incontrollabile la dissoluzione delle istituzioni
democratiche, quella “balance of powers”, da sempre
sotto pressione nella breve storia repubblicana del paese. Ma questo
intreccio rende la situazione anche più palese e ovvia (e
dunque potenzialmente criticabile) che in altre realtà
occidentali, nelle quali la sola concentrazione economica del potere
massmediatico riesce comunque ad annebbiare di populismo le coscienze
dei consumatori e a mediare gli interessi dei poteri forti in maniera
più velata. Qui ci sarebbe da parlare dei vari Murdoch,
Bertelsmann, Kirch, Springer ecc. che a loro volta
riescono a forgiare la realtà nei loro imperi:
“Deve essere stato sempre così. Ma quel che,
nell’era industriale, è prosperato a completamento
dell’opera, è l’influenza della
realtà sulla stampa, appunto di quella realtà che
deve essere riprodotta. È l’oggetto che
domina”, annotava Tucholsky nel lontano 1921, quando non
c’erano né televisione né internet, e
continuava: “Da molto tempo la stampa, per conto suo, non
attinge più notizie dalla realtà – la
realtà, a sua volta, ha invaso la stampa. In questo modo o
si omette o si descrive con brio. Non c’è
editoriale, glossa, immagine, dietro ai quali non si nasconda una
qualche tendenza inconfessata. Si mira sempre a qualcosa che non viene
espresso.[…] Tutti questi mezzi vengono usati in modo celato
– ed è stupefacente constatare che i trucchi
più sono primitivi, più efficaci si rivelano.
Sono poi ancor più pericolosi quando vengono usati
segretamente, come succede in quasi tutta la stampa borghese”.
Bisognerebbe criticare a fondo la finzione di un giornalismo
“obiettivo” che predomina ancora nella teoria
(impartita nelle rispettive accademie). Un discorso critico sul potere
massmediatico e sul ruolo riservato ai suoi adepti non può
dunque eludere, a mio avviso, la questione strutturale, a sinistra
ormai ritenuta obsoleta, ma sollevata da Bertolt Brecht, nel 1935, di
fronte agli scrittori antifascisti riuniti a Parigi:
“Parliamo dei rapporti di produzione”, ovvero anche
dei rapporti di proprietà, in un settore così
delicato ed essenziale per ogni democrazia.
“Espropriate Springer” fu la richiesta
degli studenti del ’68 tedesco. O come si pensa di poter
superare lo stato di cose descritte da Tucholsky nel 1924, quando il
nuovo stile dei giornali tedeschi produceva ormai “la storia
universale bell’ e pronta ad uso degli idioti”.
Già allora la stampa inondava il lettore quotidianamente di
migliaia di notizie inutili: “È
la diffusione dell’ignoranza per mezzo della tecnica.
Questa situazione convulsa è una copia fedele
dell’ordine sociale che la produce. Una noia chiassosa e in
più una gravissima responsabilità:
l’occultamento della verità e la distrazione
dall’essenziale”.
[15
luglio 2008]
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