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Sulla Serie politica Einaudi

intervista a Luca Baranelli di Luca Zanette

 

 

     Le chiedo innanzitutto di presentarsi, dirmi se vuole la sua età, la sua professione attuale.

     Sono nato a Siena nel 1936 e a Siena mi sono laureato in legge nel 1961 con una tesi sul pensiero politico di Carlo Cattaneo. Dopo avere lavorato 32 anni a Torino nelle redazioni di Einaudi e Loescher, sono andato in pensione nel 1994, ma continuo a svolgere attività editoriali di vario tipo, spesso gratis e qualche volta con partita Iva.

      Come è avvenuto il suo ingresso in casa editrice? E da quali esperienze di vita, anche politiche, è stato motivato?

    Dopo la laurea volevo lasciare Siena e trasferirmi in una città più grande e più stimolante dal punto di vista sia culturale sia politico. Ero abbastanza ottimista, dato che in quel periodo non era difficile trovare lavoro. Fui comunque molto fortunato, anche perché mio padre conosceva Sergio Solmi – poeta, scrittore e critico insigne nonché dirigente della Banca Commerciale – il quale suggerì di prendere contatto con suo figlio Renato, redattore della casa editrice Einaudi, che forse aveva bisogno di un aiuto. Feci una prova di traduzione dall’inglese e un colloquio preliminare. Quando seppi che potevo partire fui davvero contento: lavorare a Torino, e per di più da Einaudi, mi sembrava, e forse era, il massimo a cui aspirare.
    Il 1° giugno del 1962 presi servizio nella redazione dell’Einaudi. Era il mio primo lavoro vero, anche se non potevo prevederne la durata. Sapevo solo che avrei fatto un periodo di prova di almeno tre mesi. In realtà la prova durò sette mesi: fui infatti assunto a tempo indeterminato il 1° gennaio 1963 (e rimasi all’Einaudi fino al 30 settembre 1985). Ebbi insomma un intenso apprendistato, anche perché nel ’62 si lavorava otto ore al giorno per cinque giorni, più quattro ore la mattina del sabato. All’inizio, il mio compito era di aiutare in redazione Renato Solmi, che in quel periodo si occupava prevalentemente di libri di attualità politica, sociale ed economica: curava la collana dei Libri bianchi che, dopo una serie con la copertina bianca durata cinque anni, proprio nel 1962 cambiarono aspetto, mettendo una foto in copertina. Il mio tavolo di lavoro era nel suo stesso ufficio.
     Da Einaudi cominciai a rivedere la traduzione di Out of Apathy (Uscire dall’apatia), un bel libro a più voci della nuova sinistra britannica, più o meno legata alla «New Left Review». Gli autori erano universitari fra i trenta e i quarant’anni, soprattutto di Oxford: fra loro c’erano l’antropologo Peter Worsley, Ralph Samuel e Stuart Hall, distintosi in seguito nei cultural studies. Principale coautore, e curatore del libro, era lo storico Edward P. Thompson. Si trattava di una raccolta di saggi e interventi sulla crisi del Labour Party, le prospettive e i compiti di una sinistra laburista e post-comunista in una società industriale avanzata. Sia Thompson sia altri del gruppo avevano militato nel partito comunista inglese, e ne erano usciti dopo la crisi del ’56 e i fatti d’Ungheria.
     Nel giugno del ’62 ero ancora iscritto al Partito socialista italiano, ma non mi ci riconoscevo quasi più. All’inizio ebbi qualche contatto con i compagni torinesi della sinistra socialista: mi pare di avere rinnovato la tessera del Psi per un paio d’anni, ma era un’adesione puramente formale. Nel 1964 non entrai nel Psiup e da allora non ho più militato in alcun partito. Il fatto che a Torino fosse in pieno svolgimento l’attività dei Quaderni rossi, e che da Einaudi lavorasse Raniero Panzieri, da me conosciuto nel 1959 quando era ancora un dirigente del Psi, mi fece avvicinare a quel gruppo. Nel 1961, l’anno prima del mio arrivo a Torino, insieme con altri giovani socialisti, avevo invitato Panzieri a presentare i «Quaderni rossi» a Siena: un’iniziativa molto riuscita, che ci dette entusiasmo. A Torino, quindi, il mio rapporto con la politica aveva come riferimento non tanto la Federazione socialista di corso Palestro quanto Panzieri e i giovani che lavoravano con lui e si riunivano allora al Centro studi Piero Gobetti di via Fabro: fra loro Liliana e Dario Lanzardo, Giovannino Mottura, Vittorio Rieser, e vari altri. Forse alcuni avevano ancora, come me, la tessera del Psi, ma nemmeno loro facevano più attività di partito.
     Arrivando a Torino – una città che mi piacque subito molto, in cui sono vissuto volentieri per più di trent’anni, e di cui ho spesso nostalgia – ebbi anche un’altra fortuna. Vi trovai Goffredo Fofi, un amico conosciuto alcuni anni prima. Discepolo di Aldo Capitini, dopo essere stato a lungo in Sicilia a lavorare con Danilo Dolci, Goffredo si era trasferito da qualche anno a Torino: gravitava anche lui intorno al gruppo dei «Quaderni rossi», lavorava al Centro Gobetti e aiutava Paolo Gobetti a fare il «Nuovo spettatore cinematografico», un’utilissima rivistina di schede di film. Goffredo fu una delle persone che più mi accolse e m’introdusse in vari ambienti della città; fu lui a farmi conoscere, fra gli altri, Carla e Paolo Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Emilio e Gianna Jona, persone carissime con le quali l’amicizia dura da 45 anni. Mi presentò anche Sandro Sarti, un suo amico che aveva dieci anni almeno più di noi e che purtroppo, come Paolo Gobetti, è morto da molto tempo. Sandro era un personaggio singolarissimo: non so esattamente se fosse valdese di origine o si fosse convertito, comunque era un valdese. Giovanissimo, aveva partecipato alla Resistenza in una delle valli valdesi. Era una persona straordinaria in tutti i sensi: aveva una profonda conoscenza dell’inglese e dell’americano e traduceva benissimo, soprattutto per le Edizioni di Comunità (tradusse dei grossi libri per la collana di sociologia diretta da Pietro Rossi). Per Einaudi tradusse anche quel capolavoro della sociologia americana sulla classe media che è Colletti bianchi di C.W. Mills. Vissi con Sandro Sarti, in una mansarda di via Sant’Anselmo 1, a un passo da Porta Nuova, i primi mesi che ero a Torino (la mansarda era sotto il tetto del grande palazzo dei conti Cavalli d’Olìvola, uno dei quali era dirigente della Juventus). La conoscenza e la frequentazione quotidiana di Sandro Sarti furono per me fondamentali. Pur avendo una conoscenza approssimativa dell’inglese, dovevo fare questo lavoro impegnativo di rivedere dei testi, tradotti tra l’altro abbastanza bene. Ma se avevo un dubbio, mi rivolgevo a Sandro e lui mi trovava subito la soluzione più elegante, più brillante. Oppure capiva qualcosa che io non avevo capito. Faccio questo esempio banale del lavoro editoriale, ma la sua conoscenza e amicizia è stata per me importantissima anche per altre ragioni.
     Un’estate andò in vacanza in Iugoslavia e non tornava più… Aveva un tipo di vita piuttosto irregolare. Campava di niente, facendo queste traduzioni. Quando poi, dopo alcuni mesi di assenza, dovette lasciare la mansarda, io andai a stare per un periodo più lungo in Corso Peschiera, in pieno quartiere della Crocetta, in una mansarda molto più signorile della famiglia Carrara, insieme con il giovane Mario Carrara che allora studiava ingegneria al Politecnico e che divenne mio amico. Abitai lì finché mi sposai, nel settembre ’64. Da allora fino al mio ritorno a Siena nel 1994 ho abitato con mia moglie Fiamma in via Torricelli, a pochi passi dalla ferrovia e da largo Orbassano.

 Lei collaborò anche ai «Quaderni rossi»?

Feci solo una breve recensione. Più che altro, quando potevo, andavo alle riunioni, soprattutto per imparare: venivo infatti da una realtà sociale molto diversa, più arretrata, essendo sempre vissuto a Siena fino alla metà del ’62. A Torino si erano già avuti gli scioperi alla Lancia, mi pare all’inizio del ’62. Proprio mentre io ero lì da poco, ci furono i grandi scioperi alla Fiat e in altre fabbriche, e poi i fatti di piazza Statuto. Quindi questo mio incontro iniziale con la città e con la politica – mediato in parte dal gruppo dei Quaderni rossi – fu molto forte e contò molto per la mia formazione non solo politica, ma anche culturale.
        Subito dopo i fatti di Piazza Statuto, nel luglio del 1962, conobbi Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, che erano venuti a Torino per informarsi, per sentire Panzieri e Solmi su quanto era successo. Con Piergiorgio e Grazia si stabilì un solido rapporto di amicizia, che con Grazia è durato fino al ’95, quando lei è morta, e che con Piergiorgio dura tuttora.
        Questo interesse per la politica era molto forte. Però io dovevo anche e soprattutto lavorare in casa editrice. Cinque giorni e mezzo, perché nel ’62, come ho detto, si lavorava anche il sabato mattina.

In che cosa consisteva il suo lavoro all’Einaudi?

All’inizio consisteva prevalentemente nel rivedere traduzioni e nel fare editing di testi (anche se allora non si usava il termine inglese). Come ho già detto, cominciai con Out of Apathy, che poi uscì nella seconda serie dei Libri bianchi, quella con la fotografia in copertina, col titolo Uscire dall’apatia. All’inizio del ’63, se non mi sbaglio, Solmi ottenne di lavorare a metà tempo: si occupava già allora dei problemi della pace e della guerra, soprattutto della bomba atomica e del disarmo nucleare, e voleva studiarli più a fondo. Aveva bisogno di molto tempo per leggere e fare ricerche in biblioteca perché forse aveva in mente di scrivere un libro su questi argomenti. Solmi veniva in ufficio per 4 ore, non ricordo se la mattina o il pomeriggio, e quindi io per 4 ore lavoravo da solo. Fu allora che il redattore capo Daniele Ponchiroli, una persona davvero rara, pensò di farmi acquisire una formazione più completa a contatto e sotto la guida di Luciano Lovèra, presente in casa editrice da alcuni anni e molto competente su tutti gli aspetti di tecnica editoriale: preparazione di un originale per la tipografia, composizione, impaginazione, correzione di bozze nelle sue varie fasi e modalità, stampa. Lavorai sulle bozze di un grosso libro, Lettere della Rivoluzione algerina, curato dal compianto Giovanni Pirelli, e uscito nei Saggi nel 1963; e di esso scrissi anche una recensione, destinata a una serie di giornali locali del Nord (era questa una pratica dell’ufficio stampa Einaudi). Appresi in tal modo un’altra parte del mestiere che è molto importante nel lavoro editoriale.
        Rividi anche la traduzione, che ricordo piuttosto scadente, di un grosso libro, Le travail en Sicile, che non fu pubblicato da Einaudi e che è uscito in anni recenti da Sellerio col titolo Sicilia anni cinquanta. L’aveva scritto una geografa francese, Renée Rochefort, che in Sicilia aveva conosciuto Danilo Dolci e Goffredo Fofi e che, dopo una lunga ricerca, aveva scritto un saggio di geografia umana e sociale. Passai molto tempo a rivederne a fondo la traduzione. Poi, come a volte succedeva da Einaudi, il libro non vide la luce. Fu un lavoro che servì a me, non alla casa editrice. Fui messo alla prova anche su un testo molto più difficile, di economia dei paesi sottosviluppati, per la quale avevo scarsa competenza concettuale e terminologica. La traduzione fu infatti rivista ulteriormente dall’economista Sergio Steve, allora consulente di Einaudi. In questa fase di apprendistato, quella fu sicuramente la mia prova peggiore. Ma anche dalle cose mal riuscite si impara sempre qualche cosa.
        Oltre al lavoro di revisione, Solmi mi faceva anche leggere qualche libro sul quale lui avrebbe dovuto riferire nella riunione settimanale del mercoledì. Naturalmente, essendo io un novellino, quando Solmi mi dava un libro da leggere ne parlavo prima con lui, e poi eventualmente – quando fui ammesso alle riunioni – ne riferivo se era il caso. La conoscenza stessa di chi partecipava attivamente alle riunioni del mercoledì – fra gli altri Bobbio, Calvino, Fortini, Mila, Panzieri, Ponchiroli, Venturi, Vittorini (mentre li nomino mi accorgo che sono tutti morti) – mi arricchì molto. Insomma, anche su quest’aspetto di lettura e consulenza feci un po’ di apprendistato. Purtroppo la mia collaborazione con Solmi durò soltanto dal giugno del ’62 al novembre del ’63, quando lui e Panzieri furono licenziati in tronco dalla casa editrice in seguito alla grave crisi interna e alla bocciatura del libro di Goffredo Fofi su L’immigrazione meridionale a Torino. (Una decina di anni fa ho rievocato sullo «Straniero» quest’episodio così traumatico.)

 La collaborazione era anche con Panzieri?

Panzieri a quell’epoca aveva con la casa editrice un contratto di collaborazione che non comportava la sua presenza quotidiana in casa editrice. Doveva fare certe cose, e le faceva. Era molto propositivo, leggeva molto, però non faceva il lavoro redazionale in senso stretto, come aveva fatto negli anni precedenti, quando era un redattore. Posso quindi dire che il mio riferimento principale era Solmi, anche se l’amicizia e l’ammirazione per Panzieri contavano molto. Politicamente mi consideravo un suo seguace già dalla fine degli anni ’50.
        Anche Panzieri e Solmi si conoscevano e si stimavano da tempo, ma si conobbero più a fondo negli anni einaudiani a partire dal ’59, quando Panzieri fu assunto in casa editrice. Ma direi che il loro rapporto di amicizia e di collaborazione si rafforzò soprattutto nel 1963, prima, durante e dopo la crisi dell’autunno. Panzieri purtroppo morì appena un anno dopo, a soli 43 anni.

Passerei a parlare della Serie politica.

Dopo il licenziamento di Solmi lavorai ad altri Libri bianchi, ma non solo ad essi: ricordo ad esempio Gollismo e lotta operaia di Saverio Tutino (allora corrispondente dell’«Unità» a Parigi); Ricchezza e potere in America dello storico americano Gabriel Kolko (che conobbi nel 1965, dopo la morte di Panzieri, e del quale in seguito divenni amico); La Cina rivoluzionaria di Enrica Collotti Pischel; La congiuntura in Italia di Francesco Forte. Si trattava comunque sempre di rivedere traduzioni e testi italiani, correggere bozze, leggere libri e riferirne in riunione. Insomma, tutti gli aspetti del mestiere. Di quegli anni rammento bene Operai e capitale di Mario Tronti, pubblicato nel ’65: me ne occupai io, anche perché Tronti l’aveva fatto avere a me. Era l’opera di un filosofo marxista-idealista (che teorizzava «a bischero sciolto», come mi scrisse Timpanaro dopo averlo letto), ma a mio avviso degno di pubblicazione. In casa editrice fece un certo scalpore e sembrò più eversivo di quanto in realtà non fosse. La pubblicazione fu osteggiata soprattutto da Paolo Spriano, mentre Bobbio, se non ricordo male, manifestò forti perplessità sull’impianto filosofico e le tesi politiche, ma non si oppose. Come succedeva in casi del genere, Giulio Einaudi capì che il libro di Tronti non era poi così pericoloso né politicamente né culturalmente; e che poteva avere dei lettori. Come sempre, l’atteggiamento favorevole di Einaudi fu decisivo. Il libro ebbe un certo successo e per alcuni anni divenne una sorta di bibbia dell’operaismo italiano (ricordo che, prima di essere ristampato nei Reprints Einaudi, circolava anche in fotocopia).

Questo è un punto fondamentale.

Proprio così: tutto quello che è successo in casa editrice in ultima istanza l’ha deciso Einaudi. Anche senza voler dare all’episodio un’importanza eccessiva, la vicenda del libro di Tronti contribuì secondo me a far capire a Einaudi che, se non proprio una collana, mancava uno spazio editoriale di documentazione e discussione, anche molto caratterizzato. I Libri bianchi erano arrivati al capolinea e non c’era un’altra collana di problemi contemporanei. Al tempo stesso continuavano ad arrivare proposte di libri che non erano ritenuti all’altezza dei Saggi. Tutte queste cose messe insieme prepararono il terreno. E poi, naturalmente, c’era soprattutto il contesto esterno, la realtà: il Vietnam, l’Indonesia, il Medio Oriente, il movimento studentesco americano (attivo dai primi anni ’60), la ripresa delle lotte operaie e l’inizio di quelle studentesche, tutto quello che succedeva non solo a Torino e in Italia, ma nel resto del mondo.

Infatti dai verbali delle riunioni, già dal ’67, si nota l’arrivo di queste proposte editoriali, che soprattutto lei avanzava.

Ora io non ricordo bene, però mi sembra che la tendenza fosse quella che ho detto. Il varo della Serie politica fu laborioso e contrastato, come risulta dai verbali. Se ne discusse molto, perfino in una o più riunioni ad hoc. In particolare Vittorio Strada, lo slavista della casa editrice, era decisamente contrario a iniziare una collana politica “militante” e d’attualità. Riconosceva l’esigenza di fare una Serie politica, ma la intendeva come una sede in cui si affrontassero e dibattessero temi politici a livello teorico e filosofico, di teoria politica. Forse estremizzo e semplifico, ma in sostanza sosteneva questo. Era una posizione rispettabilissima, e anche sostenuta con argomenti buoni, dato che Strada è una persona di notevole intelligenza e cultura. La sua tesi rimase tuttavia isolata. Einaudi capì che invece bisognava proprio fare una collana che cogliesse le istanze nuove che stavano emergendo e che si occupasse dei problemi posti dalla realtà contemporanea: gli Stati Uniti e i neri d’America, il Vietnam, la Cina, il Medio Oriente, Cuba, il Giappone, l’Africa e il Sud Africa, gli operai, gli studenti.

Adesso diremmo a livello globale.

Possiamo anche dirlo, sia pure in un significato molto diverso da quello attuale. In effetti il termine fu usato nel titolo La controrivoluzione globale. La politica degli Stati Uniti dal 1963 al 1968, che proposi per una raccolta di scritti di Leo Huberman e Paul Sweezy (direttori della «Monthly Review», la principale rivista della sinistra marxista americana) uscita nella Serie politica nel 1968. Direi proprio che fu Einaudi a decidere la nascita di questa collana, anche se non volle affatto imporla e anzi fece in modo che il dibattito fosse molto approfondito. Volle che se ne discutesse molto e a tale scopo furono fatte non so se una o due riunioni.

Ho con me il verbale della riunione del 16 dicembre del ’67…

... che non era un mercoledì. Una riunione fu fatta addirittura la mattina di un sabato.

«Presenti: Frigessi, Caprioglio, Gonsalez, Cases, Strada, Neri, Vivanti...»

Nella redazione romana della casa editrice lavorava allora Laura Gonsalez, che era una persona straordinaria, di grande finezza. Aveva un’ottima formazione e cultura letteraria, sapeva alla perfezione francese e spagnolo, e anche lei faceva e rivedeva traduzioni. Lavorava da alcuni anni nella redazione Einaudi di via Veneto a Roma, che in seguito chiuse. Quello romano era un gruppo redazionale di primissimo ordine: ci lavorava Giancarlo Roscioni (che fu a Torino per un paio di mesi, quando io arrivai nel ’62, e poi ottenne di tornare a Roma), anche lui francesista, nonché massimo conoscitore di Gadda, studioso di profonda dottrina e cultura, poi approdato all’Università; ci lavorava Guido Neri, che era un eccellente francesista (anche lui è morto, purtroppo); c’erano Laura Gonsalez e Cesare Cases, grande germanista e saggista, morti entrambi in anni recenti. Era, insomma, una redazione di altissimo livello.
       Oltre a questa straordinaria competenza di letteratura francese e spagnola – spagnola e latino-americana – Laura aveva anche una grande passione politica: era militante del Pci, seppure in posizione dissidente. Fu lei che quando Ciombé, che era il capo di un regime fantoccio congolese, venne a Roma, comprò delle uova marce e gliele tirò in faccia. Fu un episodio che ebbe rilievo anche sulla stampa nazionale. Non ricordo la data esatta di questo lancio di uova a Ciombé, ma sarà stato il ’61 o il ’62. Laura era molto interessata alla collana politica e partecipò a questa discussione. Propose molti titoli per la collana e lavorò ad alcuni libri. Il coordinamento del lavoro della collana veniva fatto da me, anche se erano numerose le consulenze e le collaborazioni, spesso informali e gratuite, di cui mi avvalevo. Ma poi la gestione redazionale e produttiva interna era compito mio. (In seguito, quando uso il plurale, mi riferisco implicitamente anche a lei e a Francesco Ciafaloni).

La responsabilità di risponderne nelle riunioni del mercoledì...

Sì, anche se io non ho mai avuto una responsabilità formale. Ero un coordinatore della programmazione e del lavoro della collana.

C’era una volontà precisa nel non firmare una collana di questo tipo?

Direi di sì. Saggiamente, mi pare, Giulio Einaudi voleva che la collana fosse della casa editrice, non di un redattore che a qualcuno poteva apparire settario. Se all’epoca non mi ponevo il problema, a distanza di tanti anni vedo le cose in questo modo. Einaudi aveva trovato una persona che si occupava della Serie politica e io non avevo alcuna smania di apparirne il responsabile. Va detto, d’altra parte, che nessuna collana Einaudi – tranne, se non sbaglio, la Serie di politica economica diretta per alcuni anni da Antonio Giolitti – era firmata in modo esplicito. Faceva parte dello “stile Einaudi” anche il fatto che il nome del responsabile non comparisse nell’occhiello della collana? È probabile.

Lei però era interessato in prima persona a portare avanti questo progetto.

Certo, ed era meglio anche dal mio punto di vista. Per me, che ci dedicavo tutto il mio tempo lavorativo, era la casa editrice – in sostanza Giulio Einaudi – che aveva voluto, che voleva, la nascita e l’esistenza di questa collana. Ma penso che anche Bollati, che era il numero due, la vedesse di buon occhio: fu Bollati, ad esempio, a far pubblicare Morire di classe. La condizione manicomiale, un libro di formato anomalo (conteneva infatti anche molte fotografie fatte nel manicomio di Gorizia da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin) ideato e curato da Franca Ongaro e Franco Basaglia, che fu destinato alla Serie politica da Bollati. Lui aveva stabilito un solido e fecondo rapporto con Basaglia e sua moglie Franca Ongaro, e con il gruppo dell’anti-psichiatria di Gorizia.

Il pensiero di Basaglia era dislocato in quegli anni all’interno del catalogo della casa editrice tra diverse collane.

Sì, come si vede bene soprattutto dai libri del Nuovo Politecnico e della Nuova Biblioteca Scientifica Einaudi. Anche il fatto che Bollati destinasse alla Serie politica un libro a cui tenevano molto i coniugi Basaglia è significativo: anche lui, evidentemente, a questa collana teneva. Qualche anno dopo Bollati vi fece pubblicare un altro libro, questa volta sul manicomio di Torino, La fabbrica della follia.

E in casa editrice il riferimento per Basaglia...

… era Bollati. Il libro di Basaglia e del suo gruppo di Gorizia che ebbe maggior risonanza e successo uscì nel ’68 nel Nuovo Politecnico, la collana di Bollati: L’istituzione negata.

... e Jervis.

Se non ricordo male, Giovanni Jervis cominciò a collaborare con la casa editrice nel 1964, scrivendo l’introduzione di Eros e civiltà di Herbert Marcuse. Per i successivi anni ’60, quando era uno degli psichiatri dell’équipe goriziana di Basaglia, fece attivamente parte del consiglio editoriale dell’Einaudi.

Invece il Nuovo Politecnico era una collana firmata.

Non lo era in senso letterale, come ho già detto, ma era esplicitamente diretta da Bollati, che considerava Basaglia e la sua esperienza – teorica, terapeutica e sociale – di grandissimo rilievo, anche per la casa editrice.

Torniamo al ruolo di Einaudi in rapporto alla Serie politica.

Il ruolo di Einaudi, come ho già detto, fu decisivo, anche se nelle proposte e nelle scelte dei libri da pubblicare le sue pressioni furono minime (a meno che, come vedremo, non ci fosse in ballo la Fiat). È comunque paradossale che il libro forse più estremista, anche nel titolo, e forse uno dei peggiori della Serie politica, L’estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo, dei fratelli Cohn-Bendit, sia stato imposto da Giulio Einaudi.

Lei la pensava così già allora, come emerge chiaramente dai verbali.

Sì. Quello fu un libro voluto proprio da Giulio Einaudi. Io non so, e non ho mai approfondito la cosa, se Einaudi volle pubblicarlo perché piaceva a lui, o perché qualcuno glielo aveva suggerito. Usciva comunque dalla gestione normale della collana. Mi ricordo che fu fatto tradurre in fretta e furia da Goffredo Fofi e da mia moglie, che lo firmarono con lo pseudonimo di Saverio Esposito.

E come mai già allora lei era contrario?

Perché era un pamphlet tirato via, fatto di parole d’ordine un po’ trite di un anarchismo estremista piccolo-borghese e di frasi a effetto, a volte anche divertenti. Mi sembrava una concessione esagerata allo spirito del tempo più effimero e rumoroso, per dirla in modo sbrigativo. E non mi pareva coerente con le altre componenti della collana. Immagino che oggi quel libro lì non piaccia più nemmeno a Daniel Cohn-Bendit, che è un deputato europeo dei Verdi. Va detto che ogni tanto a Giulio Einaudi piaceva prendere iniziative personali “estremistiche”. Nel 1983, ad esempio, quando la Serie politica aveva già chiuso e Giulio Bollati era ancora al Saggiatore, fece pubblicare nel Nuovo politecnico Pipe-line di Toni Negri. Mentre nei rapporti col potere economico Einaudi era estremamente cauto, sul piano delle idee non aveva tabù.

C’era invece la ricerca di libri che fossero di documentazione più seria. La connotazione ideologica di questa collana è evidente, ma si cercò anche una serietà...

Non c’è dubbio. Per esempio, già il quarto o quinto titolo della collana, Socialismo e mercato in Jugoslavia, a cura di Carlo Boffito, era un libro che di certo non seguiva la corrente. Chi s’interessava allora di problemi del genere, con tutto quello che succedeva in Italia e nel mondo? Ma sembrava un libro da accogliere in questo progetto. Boffito era amico di Rodolfo Banfi – figlio del filosofo Antonio Banfi, ex marito di Rossana Rossanda e dirigente dell’ufficio studi della Banca Commerciale – e fu segnalato a Bollati dalla Rossanda come un giovane economista che aveva studiato a fondo i problemi dell’economia iugoslava, che conosceva personalmente vari economisti serbi e croati ed era in grado di fare un’introduzione e un’antologia di testi, scegliendo tra i più significativi.
       Lo stesso discorso vale per La controrivoluzione globale di Huberman e Sweezy, di cui come ho detto mi occupai personalmente; e per Israele e il rifiuto arabo di Maxime Rodinson, un libro eccellente proposto se non erro da Corrado Vivanti. C’era stata da poco la guerra dei sei giorni del ’67, e quello di Rodinson era un testo che al richiamo dell’attualità univa una profonda consapevolezza storica e culturale. Un altro titolo che mi piace citare è La lotta di classe in Egitto (1945-1970) di Mahmoud Hussein, pseudonimo di due intellettuali egiziani laici e marxisti perseguitati dal regime di Nasser e poi esuli a Parigi (ricordo che il libro piacque a Luciano Gallino). Ma penso anche alle Riflessioni sul Medio Oriente di Chomsky, ai libri sugli Stati Uniti e i neri d’America, il Vietnam, la Cina, Cuba, il Giappone, l’Africa e il Sud Africa, gli operai, gli studenti.
        Una mia piccola riscoperta fu Agricoltura e sviluppo capitalistico in Italia di Camillo Daneo. Studioso di economia agraria molto intelligente e colto, Daneo aveva lavorato per l’ufficio studi della Cgil; e un suo breve saggio sull’agricoltura italiana era uscito anni prima, quasi inosservato, nelle edizioni Avanti!. Di lui mi aveva parlato per primo Raniero Panzieri, secondo cui il Pci aveva confinato negli uffici studi della Cgil alcuni economisti e studiosi di valore: oltre a Daneo, citava Ruggero Spesso, Antonio Bloise e altri nomi ormai dimenticati. Presi contatto con Daneo, ci vedemmo alla libreria Einaudi di Milano e concordammo insieme questo libro, nel quale al testo della prima edizione furono aggiunti altri suoi scritti più recenti. (Qualche anno dopo feci pubblicare nella pbe un altro suo ottimo libro, La politica economica della ricostruzione.) Neppure l’agricoltura capitalistica in Italia era un tema di moda o da estremisti.

Ma in quel primo periodo dai verbali emerge che si cercarono contatti con gli studenti, col Movimento Studentesco per un testo che fosse degli studenti.

È vero. Nel 1969 fu pubblicato un bel libro su Gli studenti americani dopo Berkeley, curato dai due giovani sociologi milanesi Alessandro Cavalli e Alberto Martinelli, che in certo modo, anche nel titolo, proseguiva e arricchiva la documentazione offerta da La rivolta di Berkeley di Hal Draper (apparso nel Nuovo Politecnico quando la Serie politica non esisteva ancora). Nel ’70 uscì Il movimento degli studenti medi in Germania, che riguardava anch’esso un’esperienza fondamentale. Però sul movimento studentesco in Italia non si riuscì a pubblicare niente, se non appiccicare un’appendice italiana di Giuliano Ferrara (allora giovanissimo, forse ancora liceale) e Stefano Poscia al libro sugli studenti tedeschi.

Tornerei sulla discussione iniziale con Strada e Gallino, che fu anche lui inizialmente contrario.

Non ricordo bene quale fosse allora la posizione di Gallino.

Aveva una posizione analoga a quella di Strada. Aveva anzi avanzato la possibilità di fare una collana parallela, con problemi di scienza politica.

Ecco, il discrimine era questo. Naturalmente la posizione di Strada e di Gallino era rispettabilissima, dato anche il loro livello intellettuale e culturale. Ma di Gallino non mi ricordavo, forse perché in seguito Gallino, a differenza di Strada, è rimasto su posizioni di sinistra, almeno dal mio punto di vista. Forse per questo l’avevo rimosso.

Mentre lei allora diceva che era fondamentale affrontare i temi dell’imperialismo e dell’antimperialismo.

Questo spiega il fatto che fui io a proporre e mettere insieme il libro di Huberman e Sweezy, La controrivoluzione globale, e poi anche Gli ultimi discorsi di Malcolm X. In fondo i primi titoli della collana, La contestazione cinese di Edoarda Masi e Il Vietnam vincerà, curato da Enrica Pischel, indicavano questa linea. Anche se nelle riunioni, e nei verbali relativi, le posizioni sono un po’ estremizzate, direi però che la mia idea della collana era più articolata e varia di quanto non risulti dai primi titoli.

Mi sembra che si possa identificarla come proposta di strumenti di elaborazione politica, rispetto alle istanze che venivano avanzate in quegli anni.

Fra questi metterei i due libri di Andre Gunder Frank sul sottosviluppo in America latina, quello di Ruy Mauro Marini sul Brasile e il libro di Giovanni Arrighi sull’Africa. Con Frank e Marini (entrambi morti) teneva i rapporti Laura Gonsalez, che li conosceva personalmente. Anche La politica agraria della rivoluzione cubana di Gutelman fu seguito da Laura. Arrighi, se non sbaglio, ci fu segnalato da Michele Salvati. Fu poi Arrighi a metterci in contatto con Luisa Passerini, di cui pubblicammo il libro sul colonialismo portoghese in Mozambico

Il caso di Giovanni Arrighi è un esempio delle consulenze che contribuirono al progetto della collana. Quali altri casi potremmo citare? Per esempio, ho notato che la Collotti Pischel fu fondamentale per alcuni aspetti.

Certo, la Collotti Pischel fu fondamentale per la Cina, il Vietnam, l’India. Ma ci furono anche casi di consulenze singole: per esempio Rodolfo Banfi fece da consulente per un testo, che non è mai uscito, di un gruppo di sindacalisti romani. Avevano scritto un libro grosso modo trontiano, ma con meno consapevolezza teorico-filosofica. In quel caso si arrivò quasi all’accettazione del libro. Poi fu proprio a me e a Ciafaloni che vennero dei dubbi: lo facemmo leggere a Rodolfo Banfi, che lo bocciò senza possibilità di appello. Qualche volta, se era il caso, si chiedevano consulenze anche a esperti indiscutibili. Enrica Pischel era molto propositiva: leggeva tutto quello che riguardava il Vietnam, e la Cina, ma anche l’India, l’Africa. Anche se varie sue proposte non si realizzarono, era molto attenta anche a quello che succedeva in India e in Indonesia (ricordo bene che avrebbe voluto curare un libro sulla strage di mezzo milione di comunisti e di cinesi perpetrata in Indonesia nel settembre del 1965). Edoarda Masi, invece, che nel 1968 inaugurò la collana (e curò una splendida antologia di Lu Hsün nella Nue, La falsa libertà), non svolse mai un ruolo di consulenza.
        Altri consulenti furono il sociologo Carlo Donolo, che allora viveva a Torino, l’economista Carlo Boffito e Lisa Giua Foa. Dopo il libro sull’economia iugoslava, Boffito, insieme con Lisa, curò La crisi del modello sovietico in Cecoslovacchia. Due anni dopo il ’68 di Praga, loro erano stati lì, avevano trovato i testi, avevano conosciuto economisti e politici dissidenti. La collaborazione e i consigli arrivarono anche da altri. Circolavano idee e proposte diverse fra loro, forse perché la collana non era percepita come chiusa, arroccata su poche tesi settarie. Anche l’arrivo in casa editrice (mi pare nel 1969) di Francesco Ciafaloni, un ex ingegnere dell’Eni e poi redattore della Boringhieri, giovò molto alla Serie politica.

Comunque si ospitò il lavoro di giovani studiosi di sinistra, ma interessati ad un lavoro di ricerca serio, che poterono pubblicare le loro opere prime con Einaudi.

Direi di sì. Penso a Cavalli e Martinelli, allora piuttosto giovani, anche se i loro libri erano antologie. Penso a Liliana Lanzardo, a Luisa Passerini, allo stesso Arrighi, che quando uscì il suo libro aveva poco più di trent'anni.

Vorrei farle una domanda a cui forse è difficile rispondere: quali erano i destinatari di questo progetto? A chi si immaginava di rivolgersi la Serie politica?

Questo bisognava chiederlo a Einaudi, che purtroppo non c’è più. Dal punto di vista “commerciale” sarebbe fondamentale il parere di Cerati. Dal mio punto di vista i destinatari erano grosso modo gli studenti desiderosi di approfondire i problemi, i militanti più avvertiti e pensosi di gruppi e partiti di sinistra, o semplicemente le persone interessate a questo o a quel singolo libro. La mia ambizione di allora era una collana che registrasse e documentasse qualcosa di ciò che stava succedendo in Italia e nel mondo in un modo non troppo immediato, con un’articolazione e una varietà di temi politici, teorici, ideologici, ma anche sociologici ed economici. Almeno nelle intenzioni i libri della Serie politica erano diversi dagli instant books che Feltrinelli diffondeva massicciamente con la sigla Libreria (o Librerie) Feltrinelli.

Anche Laterza aveva inaugurato una collana...

Sì, anche Laterza, come pure De Donato e Samonà & Savelli.

Quali erano le differenze con queste collane?

Non saprei dirlo con esattezza senza consultare i rispettivi cataloghi storici. Per quel che ricordo, alcuni libri pubblicati allora da Laterza e De Donato sarebbero potuti uscire benissimo anche nella Serie politica Einaudi. Direi che le somiglianze erano maggiori delle differenze. C’era una domanda, per qualche anno famelica, del pubblico giovanile, di molti che avevano partecipato alle lotte fra il ’67 e il ’69, e che nei libri riponevano aspettative. Non mi nascondo che col senno di poi si può far quadrare tutto; ma è indubbio che esisteva un’élite di giovani militanti i quali volevano informarsi, e non cercavano soltanto slogan, propaganda, o opuscoli effimeri. Einaudi capì che c’era un pubblico per questa collana, anche se sono convinto che non pensò mai – di questo si può chiedere conferma a Cerati, che era la persona che lo sentiva e lo vedeva tutti i giorni – a una collana di alte tirature. Poi forse qualche titolo ha avuto più successo del previsto, ci sono state ristampe di alcuni libri, perfino di quello di Liliana Lanzardo, che era molto grosso: oltre cinquecento pagine, se non mi sbaglio.

 Ebbe una ristampa.

Ecco, perfino quello ebbe una ristampa. Dal catalogo storico risulta che il libro di Edoarda Masi ebbe tre edizioni, quello di Arrighi due, quello di Gutelman sull’agricoltura a Cuba – non l’avrei mai detto – ebbe una seconda edizione nel ’77. Un autore che aveva un suo pubblico è Andre Gunder Frank: ebreo tedesco, figlio di un romanziere di una certa notorietà pubblicato anche nella Medusa Mondadori, era un political economist che si occupava di America latina. Laura Gonsalez conosceva bene lui e sua moglie (che mi pare fosse cilena). Vedo che il suo libro più innovativo e noto, Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, pubblicato nel 1969, ha avuto 5 edizioni. Evidentemente Frank (e forse non solo lui) aveva anche un pubblico universitario e docenti che lo consigliavano o lo adottavano per i loro corsi. Delle tirature non so nulla; ma dato che la collana è morta e sepolta, Cerati potrebbe fornire qualche dato.

 Mi ha molto colpito il caso di un libro in particolare: quello di Irene Invernizzi sul carcere come scuola di rivoluzione.

Fu un libro molto controverso.

 Ebbe una prefazione di Norberto Bobbio che lo inquadrava. Questo è interessante per comprendere quale fosse il rapporto della collana – del progetto di collana – con i gruppi della nuova sinistra.

Il libro di Irene Invernizzi fu suggerito e mediato da Gianni Sofri, fratello di Adriano. Non ricordo se a quell’epoca (1973) insegnasse già all’università o lavorasse ancora alla Zanichelli; era comunque uno studioso stimato. Come militante o simpatizzante di Lotta Continua, conosceva evidentemente l’attività della Invernizzi nelle carceri, e fu lui che ce la presentò: era una ragazza giovane, mi sembra di Pavia o della provincia pavese. Venne a Torino con il suo ragazzo, e ci parlò di questo lavoro, indubbiamente interessante e serio. Proporre e far pubblicare un libro che si presentava col titolo Il carcere come scuola di rivoluzione non era la cosa più semplice del mondo: l’atteggiamento prevalente in casa editrice non sembrava favorevole. Come faceva in casi del genere, Einaudi cercò un avallo autorevolissimo: quello di Norberto Bobbio. Anche se Bobbio l’avesse criticato radicalmente, il fatto che ci fosse la sua prefazione autorizzava l’editore a pubblicare il libro (confesso di non ricordare che cosa scrisse Bobbio).
        Un altro caso analogo, ma andato male, fu quello delle Schedature Fiat di Bianca Guidetti Serra. Questa volta però Einaudi, come già era successo nel 1963 con il libro di Goffredo Fofi, non ebbe il coraggio di pubblicarlo. Altro che il carcere come scuola di rivoluzione! Ogni volta che c’era di mezzo la Fiat, per Einaudi erano dolori.

 Ciafaloni mi ha detto che si arrivò alla stampa del libro.

È vero: ricordo una copia di “segnature” (il libro stampato ma non ancora cucito), una bozza della copertina con correzioni autografe di Giulio Einaudi e un listino delle novità con il titolo del libro. Per pubblicarlo Einaudi pose la condizione che fosse preceduto da un’introduzione di Norberto Bobbio, ma Bobbio tergiversò a lungo e sembrò rinunciare. Forse si rendeva conto che il libro disturbava e imbarazzava molto Giulio Einaudi, forse si ricordava della sua fallita mediazione sul caso Fofi di quasi vent’anni prima. Sulle Schedature Fiat nell’archivio della casa editrice dovrebbe esserci uno scambio di lettere con Bobbio di Francesco Ciafaloni e del sottoscritto: eravamo decisi a non mollare, e proponemmo a Einaudi un’introduzione di Stefano Rodotà, che entrambi accettarono. Rodotà scrisse l’introduzione in tempi brevi, ma a Einaudi non bastò: dopo averci pensato molto, decise di non pubblicare il libro, che uscì poco tempo dopo da Rosenberg e Sellier.

 Alcuni temi del dibattito politico della – e sulla – sinistra in quegli anni, però, dalla Serie politica non furono affrontati. Mi chiedevo per esempio come mai mancasse un testo sul femminismo, o mancasse un testo sulla violenza politica di quegli anni.

È vero. L’assenza del femminismo si nota, anche se bisogna fare alcune precisazioni e tenere conto del peso ineguale che avevano il Nuovo Politecnico e la Serie politica nella programmazione editoriale. Nei primi anni della Serie politica il femminismo e i problemi delle donne erano già all’ordine del giorno: lo testimonia il libro di Juliet Mitchell, che faceva parte della «New Left Review» ed era una teorica di spicco del femminismo inglese. Il suo libro La condizione della donna (1972), di cui mi occupai io – conoscevo la Mitchell e trovai la traduttrice –, fu destinato da Bollati al Nuovo Politecnico proprio per la rilevanza del tema e la fama dell’autrice. (In seguito mi sono reso conto che bisognava tradurre il titolo “La condizione femminile” dato che l’originale Woman’s Estate alludeva per contrasto a Man’s Estate, La condizione umana.) Nella Serie politica uscì invece un libro di denuncia e intervento militante tradotto dal francese, Un caso di aborto. Il processo Chevalier, con una prefazione di Simone de Beauvoir e una nota all’edizione italiana di Lietta Tornabuoni. Ma riconosco che sui temi del femminismo e della condizione femminile bisognava essere più attenti e curiosi. Funzionò meno anche il circuito di relazioni e di suggerimenti dei consulenti informali.
        La mancanza di libri sulla violenza politica colpisce oggi ancora di più. Senza voler nascondere che ci furono omissioni e ritardi anche enormi, dovuti a disattenzione e trascuranza del tema, bisogna però ricordare che la critica della violenza non era all’ordine del giorno della discussione politica come oggi. È vero che nel 1973 Einaudi pubblicò l’antologia di Gandhi Teoria e pratica della non violenza come un classico del pensiero politico, e che il lavoro di Bobbio e di Renato Solmi in casa editrice (Solmi, in particolare, aveva fatto della nonviolenza e della minaccia atomica uno dei suoi principali argomenti di riflessione) poteva richiamarci a quel tema, ma negli anni ’60 e ’70 eravamo in proposito poco sensibili e per nulla anticipatori.

 Per non parlare di Malcolm X.

 Più che ai libri di Malcolm X (Ultimi discorsi, Con ogni mezzo) o di Frantz Fanon, figure che non sono certo riducibili a teorici della violenza, penso alla raccolta di testi del Black Panther Party o forse al Carcere come scuola di rivoluzione di Irene Invernizzi (dico “forse” perché non l’ho mai riletto). E anche un libro come Il Vietnam vincerà privilegiava ovviamente la guerra e le armi, sia pure come mezzo di difesa.
        Ricordo vagamente che negli anni ’70 ci arrivò addirittura per vie molto traverse, che non saprei ricostruire, la proposta di pubblicare alcuni testi sulla lotta armata (forse delle Brigate rosse o di fiancheggiatori). Dicemmo subito che non c’interessava neanche esaminarli. Rammento anche che Ciafaloni e io avemmo un colloquio in casa editrice con un giovane – arrestato qualche anno dopo come dirigente delle Brigate rosse – il quale, se non ricordo male, si presentava come un sociologo-educatore. Proponeva confusamente una ricerca che non ci convinse affatto. Qualche volta il fiuto viene anche da un po’ di consapevolezza culturale e politica.
        Questi accenti autocritici mi sembrano oggi scontati, anche se le mie propensioni andavano allora ad argomenti e libri come quelli di Daneo, di Rodinson, di Huberman e Sweezy, di Frank, di Chomsky, di Nairn. Penso anche a Capitalismo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economia americana dell’economista Seymour Melman, un libro suggerito, tradotto e presentato in modo esemplare da Renato Solmi. O a Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno di Sidney Tarrow, uno studioso americano di tendenza liberal. In questo caso fummo criticati “da sinistra” perché sembrava più un libro del Mulino che non della Serie politica Einaudi. Un piccolo libro di cui ero e continuo a essere orgoglioso, anche per averci lavorato molto, è quello di Sara Lidman, Rapporto dal sottosuolo svedese. Si tratta di una serie di bellissime interviste ai minatori di una miniera nell’estremo nord della Svezia. La Lidman era un’ottima giornalista militante, molto nota in patria anche come scrittrice. Venuta a mancare l’introduzione italiana che era stata commissionata a uno studioso dell’argomento, mia moglie e io preparammo una lunga nota introduttiva d’inquadramento. Ricordo che il libro della Lidman piacque molto a Peppino Ortoleva e piacque moltissimo a Danilo Montaldi. Quando lo scoprì, Montaldi ne fece una recensione entusiastica su «Libri Nuovi», il foglio promozionale della casa editrice, e ne acquistò molte copie da regalare ad amici e compagni. Un altro libro eccellente fu quello di Tom Nairn, storico e scrittore scozzese ancora oggi molto attivo, L’Inghilterra di fronte all’Europa.

 Le chiedo di Liliana Lanzardo. Ho già avuto modo di parlarne con l’autrice, e dal colloquio con lei è emerso che il Partito comunista si oppose alla sua tesi osteggiandola anche a mezzo stampa. Ad esempio con una recensione molto negativa di Paolo Spriano. E all’interno dell’Einaudi, dato che comunque c'erano molti collaboratori legati al Partito comunista...

, certo, Spriano era un autore e collaboratore di vecchia data della casa editrice e per un periodo era stato anche a Torino, responsabile dell’ufficio stampa. Fra i redattori e i consulenti che partecipavano al consiglio editoriale gli iscritti al Pci erano relativamente pochi: Vivanti, Spriano, forse Strada. Ma la tesi della Lanzardo non piaceva, credo, neppure a Bollati, che pochi anni dopo propose infatti un libro sulla Fiat con una tesi quasi opposta a due sindacalisti della sinistra comunista torinese, Sergio Garavini ed Emilio Pugno: Gli anni duri alla Fiat. Anche in quel caso, evidentemente, Einaudi fece prevalere il suo punto di vista. Credo che a volte non basti leggere i verbali del consiglio editoriale per capire come andavano realmente le cose. Quei verbali sono fondamentali, sono la base documentaria da cui partire; ma tutto quello che succedeva il mercoledì veniva poi vagliato e delibato da un comitato ristretto, di cui facevano parte Einaudi, Bollati, Cerati, il direttore amministrativo Filippo Santoni e quello della produzione, Oreste Molina, che prendevano la decisione definitiva.

Valutando anche con criteri economici e politici.

Sì. Facevano le loro valutazioni di costo e di mercato: insomma, tutto quello che un’azienda deve fare, credo. La discussione del mercoledì sul libro, su qualsiasi libro, era importantissima, anche perché a Einaudi serviva per farsi un’idea. Einaudi era molto intelligente e dalle posizioni divergenti degli interlocutori coglieva la sostanza del libro. Non era un lettore. Non leggeva, o leggeva poco: aveva però un grande fiuto e riusciva perfettamente a capire di cosa si stava parlando, facendo discutere e magari litigare perché emergesse quello che gl’interessava. Suppongo che anche nel caso della Lanzardo la sua decisione, espressa magari in una riunione ristretta dei dirigenti, sia stata decisiva.

Abbiamo già sfiorato questo argomento: il fatto che alcuni autori e alcuni temi della Serie politica trovarono spazio all'interno del catalogo Einaudi anche in altre collane. Penso al Nuovo Politecnico, alla Pbe e a Einaudi Società. C’erano collane che affrontavano tematiche analoghe. Collane sia contemporanee – quelle che abbiamo citato – sia antecedenti, come i Libri bianchi o la collana di Panzieri. Qual è la specificità della Serie politica?

Io direi che c’è una continuità abbastanza marcata, fatta salva la differenza di tempo e di contesto, fra i Libri bianchi e la Serie politica: la Serie politica riprende per molti aspetti il discorso interrotto dei Libri bianchi.
        Per la collana di Panzieri, La nuova società, il discorso è diverso perché era nata per pubblicare libri di sociologia: sociologia industriale, sociologia economica, sociologia religiosa, sociologia che non saprei se definire militante o narrativa quando penso a quel capolavoro che è Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi: un libro che poteva uscire anche nei Saggi, e che oggi l’Einaudi pubblicherebbe forse nei Supercoralli. È un bellissimo libro di storie di vita, con un vertice rappresentato da quella di Cicci, la puttana protagonista del Pro e il contro di due vite. Forse qualcuno dei libri pubblicati nella collana di Panzieri sarebbe potuto uscire anche nella Serie politica. Ma la collana di Panzieri voleva essere – e in parte credo sia riuscita a essere – una collana di sociologia rivolta soprattutto alla realtà italiana. Panzieri aveva consulenti del calibro di Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano per la sociologia in senso stretto, Paolo Sylos Labini e Sergio Steve per l’economia, Vittorio Lanternari per la sociologia religiosa.
        Ci sono comunque contiguità e sovrapposizioni tra collane. Il libro di Daneo già nominato, per fare un solo esempio, sarebbe potuto uscire nella collana di Panzieri, se non fosse stato ancora nel catalogo delle Edizioni Avanti!.
        Invece, come ho detto, la Serie politica riprende tra gli anni ’60 e i ’70, dunque mutatis mutandis, l’esperienza dei Libri bianchi, una collana a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60. È cioè una collana che, cambiati i tempi in maniera notevole, anche se erano passati pochi anni, voleva guardare a quello che succedeva in Italia e nel mondo sul piano dell’attualità politica.

Agendo sull’immediato.

Direi di sì, ma con la pretesa di non fare instant books, libri che si consumano in pochi mesi.

Vorrei sapere qual era invece il rapporto con altre collane contemporanee, come ad esempio il Nuovo Politecnico.

Il Nuovo Politecnico aveva un’ambizione culturale molto maggiore, che si manifestava negli autori, quasi sempre di grande notorietà, negli argomenti che affrontava, nelle tendenze metodologiche che esprimeva, perfino nella qualità della scrittura saggistica. Era una collana di punta in tutti i sensi, anche riguardo all’attualità: non a caso Bollati vi fece pubblicare un libro-manifesto come L’istituzione negata di Basaglia e dei suoi collaboratori del manicomio di Gorizia.
        Anche la Serie politica aveva autori eccellenti (Baran, Chomsky, Fanon, Nairn, Rodinson, l’africanista inglese Basil Davidson), ma lì non c’era la ricerca dell’autore in quanto tale. Nel Nuovo Politecnico risalta invece questa cifra «autoriale». Applicando questo criterio, anche la raccolta di Baran, Saggi marxisti, è un libro d’autore (fra l’altro curato e tradotto da Renato Solmi), e poteva essere un ottimo titolo del Nuovo Politecnico. Ma forse Baran sollecitava meno la sensibilità di Bollati. Direi che Bollati voleva fare una collana al più alto passo coi tempi, se così si può dire, con grandi autori su grandi temi: temi che potevano anche intersecare la politica, ma erano soprattutto filosofici, antropologici, etnologici, letterari. D’altro canto, alcuni temi istituzionali (come la scuola e gli studenti, la fabbrica, la casa, il carcere, gli istituti minorili) o legati al territorio (come La fabbrica del cancro), in cui la realtà da documentare prevaleva talvolta sull’autore, potevano essere affrontati solo nella Serie politica.

Francesco Ciafaloni ha parlato di un carattere in qualche modo marginale della Serie politica rispetto ad altre collane.

In effetti era così, soprattutto rispetto al Nuovo Politecnico. In casa editrice le gerarchie erano chiare: delle collane attente al dibattito in corso, il Nuovo Politecnico era la collana di punta, mentre la Serie politica era una sorella minore, o un’ancella. Bisogna però tener presente che Einaudi ha avuto il merito di farla, questa collana; anche se forse, come spesso succede, non l’ha amata completamente e fino alla fine. A un certo punto la Serie politica cominciò a dare chiari segni di sofferenza.

Possiamo parlare del perché sia finita la collana? Perché e in che modo è terminata l’esperienza della Serie politica?

Io da un certo punto in poi me ne sono occupato meno, perché in casa editrice dovevo fare anche altre cose. Degli ultimi libri della collana si è occupato di più Francesco Ciafaloni, ma non è certo questa la ragione del declino. Il libro di Ivar Oddone, Alessandra Re e Gianni Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, che suscitò anche l’interesse di Italo Calvino, lo seguì Francesco. Come pure Le lotte operaie alla Seat, sulle commissioni operaie spagnole, La partecipazione subalterna di Alfredo Milanaccio, e la ricerca sull’Istat di Enrica Guglielmotto e Antonella Martina, I conti non tornano.

Nelle riunioni di Rhêmes tra il ’76 e il ’77 si comincia a parlare di una crisi della collana. Soprattutto dalle relazioni che faceva Cerati a Rhêmes, emergono le difficoltà economiche nella vendita della collana. Da un lato si parla di crisi anche dal punto di vista dell’aspetto grafico, dall’altro soprattutto si parla di un esaurimento dei temi per cui era nata.

È vero. Com’era successo quindici anni prima per i Libri bianchi, direi che anche la Serie politica si concluse per esaurimento di temi e di pubblico e divenne quasi un contenitore, tanto che alla fine la fisionomia della collana era un po’ cambiata. Gli ultimi libri sono in buona parte di sociologia: immagino, ad esempio, che I dirigenti industriali in Italia di Magda Talamo sia stato messo lì perché altrimenti non sarebbe uscito da Einaudi. Lo stesso vale forse per il libro di Butera, Lavoro umano e prodotto tecnico. Un titolo dell’ultima fase che invece ebbe fortuna, tanto da essere poi promosso nel Nuovo Politecnico, è quello di Fabrizio Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo?. In prima battuta non era stato accolto nel NP, anche se l’autore fin dall’inizio voleva uscire in quella sede. Il libro andò bene nella Serie politica e fu ristampato due anni dopo nel Nuovo Politecnico.

Un’altra causa della fine della Serie politica è quella che esponeva lei stesso in una delle riunioni di Rhêmes: «La casa editrice Einaudi ha fatto politica in molte altre collane da quando è nata la Serie politica».

È vero: non ricordavo quest’osservazione, ma mi ci riconosco. Si diceva spesso: facciamo la Serie politica perché le grandi opere vanno bene, e ci possiamo permettere anche questo lusso. Per circa un decennio fu così, ma alla fine era diventata una collanuccia residuale.

Riguardo alla veste grafica...

La veste grafica non mi è mai piaciuta.

Ho notato una quasi inequivocabile somiglianza con la veste grafica dei Quaderni rossi di Panzieri.

Il modello poteva e forse voleva essere quello. Però il rosso dei «Quaderni rossi» faceva un’enorme differenza. Il viola della Serie politica era a mio avviso disastroso: spengeva il titolo, l’autore, le frasi stampate in prima e quarta di copertina. Alle riunioni in cui furono decisi gli aspetti grafici della collana non fui invitato. Mi sembra di ricordare che il colore viola fu scelto da Einaudi, Cerati e Nico Orengo. Per un libro sulla Cina ci fu una goffa innovazione (finita lì): una striscia orizzontale gialla, che forse alludeva ai cinesi... Ma all’interno la cura tipografica e la pagina, col classico carattere Simoncini Garamond, erano quelle inconfondibili e impeccabili dei libri Einaudi di allora.

Il richiamo ai Quaderni rossi era esplicito?

Può darsi, come ho detto, ma era più apparente che reale. Nei «Quaderni rossi» il primo articolo cominciava in copertina e seguitava poi nelle pagine successive; mentre nella Serie politica in prima e quarta di copertina compariva solo un capoverso significativo del libro.

Per concludere: lei nella sua prima e-mail mi diceva che nella Serie politica prevalse più volte la propaganda sull’analisi e la ricerca. Quale giudizio si sente di dare oggi su quell’esperienza nel complesso?

Se ho scritto «più volte» ho esagerato; mi pare più giusto dire «qualche volta». Di Cohn-Bendit abbiamo visto, ma anche il libro sull’editore tedesco Springer lo ricordo piuttosto debole e improvvisato. Ma guardando la collana con distacco, come un episodio remoto documentato da un catalogo, direi che è stata nel complesso un’esperienza dignitosa. Che si potesse fare molto meglio è indiscutibile, come abbiamo già notato a proposito del femminismo e della violenza. Ma si poteva fare anche di peggio. Mediamente, i libri analoghi di Feltrinelli, di De Donato, di Laterza, di Samonà & Savelli, o di altri editori non erano migliori di quelli della Serie politica. Se la collana non fu poi così spregevole lo si deve anche alle numerose consulenze informali di amici e conoscenti di cui abbiamo già parlato; nonché al controllo della casa editrice e al nostro autocontrollo. Anche se a volte siamo stati lì lì per farli, grossi passi falsi non li abbiamo fatti. Le proposte – che spesso non portavamo neppure alla discussione del consiglio editoriale – arrivavano di continuo e in grande quantità: c’erano tante persone, sia note sia del tutto sconosciute, che ci scrivevano, ci telefonavano, ci mandavano testi. Succede sempre per qualsiasi collana editoriale, e tanto più per una collana di attualità politica iniziata nel ’68. Un po’ per le costrizioni aziendali, che considero tendenzialmente virtuose, un po’ anche per nostro intuito e discernimento, la scrematura era massiccia.

In conclusione: mi sembra che si possa identificare questo progetto editoriale come una proposta di strumenti per l’elaborazione politica di istanze del movimento della Nuova sinistra. Le sembra un’interpretazione corretta?

Sì, ma solo in parte. Credo infatti che i libri non siano pezzi rigidi di una macchina, e che abbiano sempre qualcosa di sfuggente, d’incontrollabile. I titoli di una collana possono anche avere l’ambizione di costruire un discorso articolato e coerente, se non un progetto. Al tempo stesso, però, le ipotesi, le teorie, i pensieri, i fatti che espongono vengono percepiti dai lettori nei modi più diversi. Anche se penso che un progetto sia utile e forse necessario, non credo in una progettualità a oltranza, asserita o assertiva, non foss’altro perché poi ogni libro, una volta pubblicato, fa storia a sé. Anche per un episodio editoriale marginale com’è stato quello della Serie politica Einaudi, credo di più allo “spirito di servizio” (non necessariamente e non sempre, in questo caso, per il movimento della Nuova sinistra). Se ripenso a quei libri – ma è chiaro che parlo in parte col senno di poi – li vedo anche e soprattutto nella loro singolarità, nella tenuta o debolezza culturale di ciascuno. C’è quello su cui si contava come strumento, come pezzo di un discorso, che invece non ha funzionato: nessuno l’ha letto, nessuno l’ha recensito, nessuno l’ha visto. Ce n’è un altro, viceversa, a cui magari si dava scarso rilievo progettuale, che ha messo in moto pensieri, ha suscitato interesse e discussioni, e ha finito per essere un mezzo di conoscenza e di approfondimento. O semplicemente un buon libro da leggere.

 

 

 

 

Quest’intervista, registrata a Firenze da Luca Zanette il 20 luglio 2007, è stata riscritta integralmente da Luca Baranelli fra il settembre e il novembre 2007. Sarà utilizzata in questa forma da Luca Zanette nella sua tesi di laurea sulla Serie politica Einaudi (relatrice la prof. Paola Pallavici dell’Università di Torino). Luca Baranelli si riserva il diritto di pubblicarla in altre sedi.

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