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«L’aria
una pagina bianca». Rocco
Scotellaro tra lirismo, autobiografia e inchiesta
Daniele
Visentini
All’interno del panorama composito e ricco di spunti
artistici del secondo dopoguerra, Rocco Scotellaro si distingue come
figura di poeta prima, quindi d’intellettuale in senso ampio,
complessivamente singolare, mai riducibile a confronti di sorta
né leggibile da una mera ottica di scuola, di corrente.
L’interessamento precoce alla poesia; la pronta emancipazione
stilistica dal modello ermetico di Sinisgalli che gli permise, a
partire dalla metà degli anni Quaranta, di sviluppare una
tecnica e un sentimento poetico inediti; infine, l’ancoraggio
saldo a ideali politici esperiti sino al coinvolgimento diretto nelle
sorti della neonata Repubblica Italiana, come sindaco di Tricarico,
sono tutti elementi che concorrono a distinguere Rocco Scotellaro dalla
congerie intellettuale coeva e a farne, si potrebbe dire senza
esagerazione, un isolato.
Prima che come poeta, prima che come prosatore,
prima ancora che come reporter d’estro inedito e folgorante
intuito quale egli si mostrò nelle pagine di Contadini
del
Sud, Scotellaro andrebbe definito nella sua
complessità di
scrittore; un termine, quest’ultimo, che pare più
appropriato di altri a connotare la sua personalità
letteraria. Egli, infatti, mirò a una scrittura intesa come
fissazione definitiva di una voce non individuabile univocamente nelle
necessità espressive del singolo, dell’autore
nella sua soggettività, ma anzi composta dal coro remoto di
voci che avevano ispirato sin dall’infanzia la memoria
poetica, fondandone gli accenti più sinceri: a prendere
corpo sono proprio i contadini del Sud, da un lato considerati in senso
simbolico quali primigeni realizzatori di un moto poietico innato
nell’uomo, dall’altro descritti concretamente come
rappresentanti del mondo di Scotellaro. Lo stesso realismo e
l’anti-musicalità raggiunti in alcuni passaggi
delle poesie, più che frutto di quelli che Pasolini avrebbe
definito lapsus, sono invece segnali d’una adesione totale al
proprio ‘Io’ svelato – quasi che si
trattasse d’un sistema di lenti bifocali –
attraverso il volto di una terra intera, la natia Lucania.
Sotto questo punto di vista, Scotellaro prende le
distanze sia dal magismo siculo di un Vittorini o dal realismo
estetizzante di un Alvaro, sia dalla letteratura meridionale
più propensa a imbrigliare le redini del neorealismo
ideologico, che giungerà ai suoi più compiuti
risultati nell’ambiente napoletano degli anni Cinquanta.
Motivo di distinzione non secondario, tra
l’altro, è la stessa insistenza sulla
modalità di scrittura in versi, che solo alla fine della
breve carriera dello scrittore sfocerà in un prosa comunque
non esente da manifeste connotazioni liriche. Verrebbe da pensare, in
tal senso, a un accostamento al Pavese di Lavorare stanca,
il quale
però a differenza di Rocco Scotellaro non giunse mai a una
completa immedesimazione con un esterno plurivoco e socialmente ben
connotato. Lungi da qualsivoglia apertura (perché,
gnoseologicamente, corrisponderebbe a una limitazione) al campo del
mito, Scotellaro sussume invece la propria storia singola
nell’ambito di una storia collettiva che è pur
sempre ‘Storia’, scevra cioè di ogni
accento antirealistico. In altre parole, se nell’approccio
del Pavese poeta alla propria terra si possono scorgere forti accenti
mitici, essi scompaiono nei componimenti maturi di Scotellaro, e ancora
meno appariranno nelle inchieste sui Contadini del Sud
o nei frammenti
ruvidi e increspati dell’Uva puttanella.
In particolare nel suo ultimo tentativo di
scrittura – ché di romanzo a tutti gli effetti,
come dimostrarono già nel 1984 le indagini abbastanza
meticolose affrontate dall’Angrisani, non è lecito
parlare1 – Scotellaro mostra tutta
l’energia
performativa del proprio afflato nel contempo ideologico e intensamente
poetico. Nei frammenti superstiti dell’Uva,
in effetti, lo
scrittore s’impegna dapprima a denotare la fisionomia
complessiva dei contadini del Sud, poi a connotare, quasi facendo
convergere in un sinolo allegorico la propria aspirazione lirica e la
necessità d’un intervento fattivo sul terreno
della storia, gli acini ammaccati, rancidi di mosto di
quell’uva puttanella che è perfetta
rappresentazione del popolo lucano: una società coesa
solamente nel suo atavico dramma esistenziale, irriducibile tanto alle
istanze dell’individualismo borghese quanto a una facile
visione comunitaria del mondo contadino. L’allegoria della
vigna, simbolo cristiano dell’umanità per
antonomasia, è quindi simultaneamente ripresa e stravolta:
nessun provvidente viticoltore se ne occupa più e dove
«una volta c’erano due sorgenti di rose e di edera
che coprivano le canne erette e davano l’ombra con le viti
alla stretta rotonda, avanti la casetta», ora non rimanevano
che «il filo di ferro tra le canne e le lamiere
[…] e sarmenti secchi nella rotonda»2.
In un
presente in cui le speranze di redenzione storica e politica si fanno
sempre più rade, gli acini perciò
inselvatichiscono, gemmano assecondando la sola geometria del caso.
Come si vede, la scrittura allegorica viene
riscoperta nel suo originario valore dialettico, nella sua
capacità di coagulare e portare in superficie la linfa
vitale e apparentemente imprendibile della realtà.
Non si deve credere, dunque, che Scotellaro
indirizzi la propria ispirazione lirica verso un allegorismo ozioso,
utile solo a sfuggire un attento esame storico, politico ed economico
dell’ambiente circostante. Al contrario,
l’allegoria sa cogliere al vivo la voce del popolo e diviene,
perciò, mezzo privilegiato d’intervento sul
tessuto della realtà, assumendo connotati ideologici che non
devono e non possono prescindere da una coerenza formale mai smentita
da Rocco lungo tutto l’arco della propria produzione
letteraria.
Compito primario non soltanto
dell’allegoria ma dell’intero impianto lirico,
allora, è proprio quello di ricomporre in un insieme pieno
di senso il privato e il pubblico, il mondo contadino e la sua vicenda
storica, lo scrittore e il rapporto con la sua terra; ed ecco come, ad
esempio, l’annuncio della guerra va a inserirsi ex
abrupto
nel racconto autobiografico degli anni trascorsi dal giovane Rocco
presso il Convitto dei Cappuccini di Sicignano degli Alburni:
Stavano
costruendo un’ala al secondo piano
per un’altra camerata, noi ogni giorno uscivamo per due ore
ad arrecare
i mattoni sulle spalle. Mi sentivo bene, pregavo di più, lo
scrissi a
casa.
Il muratore disse un giorno: – È scoppiata la
guerra, andate a pregare.
Il più studioso si mise a parlare dell’Abissinia e
dava le notizie
nelle ricreazioni, parlava dei generali. Da dove sapeva quelle cose? da
dove seppe che quel locomotore imbandierato che si vide saettare
giù
nella stazione era una staffetta e dietro venivano certi capi
d’Italia?
Leggeva il giornale che gli passava il vecchio padre che era del suo
paese. Parlavano tutt’e due nell’ora di latino di
queste cose e tutti
erano contenti perché si aveva altro tempo a ripassare le
lezioni3.
Sempre su questa linea, gli eventi più significativi della storia possono schiudersi addirittura a partire da una prospettiva naturale, dove la dicotomia tra natura e storia, come quella tra evento pubblico ed evento privato, si ricompone in un ‘tutto’ tragico proprio in quanto indisgiungibile. E allora lo sbarco degli alleati si rintraccia già nei connotati atmosferici che preludono alla sua descrizione; proprio come le sorti degli uomini, l’aria stessa si rinnova e sembra disporsi a essere riscritta nello sguardo attento e appassionato di Scotellaro, che riesce a saldare in un solo, rapido movimento le proprie emozioni e la sconcertante esattezza del dato esterno:
Il
18 settembre venne una giornata fresca e
l’aria una pagina bianca. Potevano essere le dieci del
mattino; l’ora
della contentezza del mondo, ognuno si è istradato, nel
paese e fuori
in campagna e oltre le montagne.
Sarebbero giunti gli inglesi, le donne
e i pizzaiuoli dovevano essere poche centinaia, stettero a guardare la
rotabile verso la Serra, il sole che sorgeva di là alle
dieci si era
spostato sul Basento4.
A tal proposito, è necessario precisare che nemmeno l’orientamento autobiografico dell’Uva puttanella, quel continuo intersecarsi di interno ed esterno, di vita pubblica e vita privata, di azione ed emozione è fine a se stesso. Sin dalle sue liriche più mature, Rocco sentì il bisogno di investire su un piano strettamente personale le proprie aspirazioni civili; così, ad esempio, nella poesia Paese mio, apparsa sulle pagine di «Basilicata» nel ventesimo anniversario della morte del poeta, Scotellaro criticava aspramente (ma lo faceva, si noti, usando la prima persona plurale) la mentalità chiusa, ottusa dei propri compaesani:
Ognuno
di noi vuole essere il padrone
della nostra città medioevale
ed è geloso a morte dell’uguale.
e
subito dopo, cambiando bruscamente registro, annunciava:
Io me n’andrò, sono un cane di nessuno
senza una porta da guardare
nelle notti di luna5.
Proprio come in questa
poesia, anche tra le testimonianze in prosa dei Contadini
e le vicende
autobiografiche dell’Uva puttanella
è possibile
osservare il vincolo inestricabile che lega individualismo e senso
della collettività: due concetti apparentemente antitetici,
ma che nella scrittura di Rocco Scotellaro riescono a raggiungere un
perfetto equilibrio dandosi vicendevolmente senso.
Partendo da tutte queste constatazioni, si
comprende bene come in Scotellaro il lirismo degli anni giovanili venga
piegato, nel corso del tempo, a rappresentare un ben preciso impegno
sociale al quale di fatto l’intellettuale non
rinunciò mai. Se tale formula venisse letta al contrario, si
rischierebbe di fraintendere l’obiettivo primario di questa
scrittura, ossia la comprensione totale del proprio popolo
(nonché, di riflesso, del proprio ‘Io’),
che non può essere realizzata se non facendo coincidere in
un unico tratto allegorico il dato archetipico e quello più
genuinamente politico: è la scrittura a cercare un
compromesso con la realtà, mai viceversa.
In ciò sta pure il significato di un
impegno concreto che va ben al di là di prerogative
meramente corografiche, e anzi tende a universalizzarsi. Ovvio, dunque,
che la semplice e preponderante interpretazione di uno Scotellaro
«figlio del Sud» fallisce un obiettivo
assolutamente primario nella definizione del suo percorso umano: la
capacità che l’intellettuale mostra
nell’oltrepassare i limiti di una ingannevole geografia della
letteratura non pare, infatti, discutibile. Come intuì
Franco Fortini, «Rocco non trama mitologie sulla sua materia;
non inclina al dialetto; non si lascia sedurre dai facili
neoclassicismi. Rappresenta, con una fedeltà dolente, con
un’anima di latte e d’erba, il momento penoso del
passaggio dal paese al mondo, senza rinnegare né
tradire». La sua poesia, intesa in questo senso, rappresenta
perciò «la celebrazione di alcuni dei momenti
più alti della vita collettiva di una classe che prende
coscienza di sé»6.
Solo attenendosi a questi presupposti ci si
può orientare in modo vantaggioso verso la riscoperta di una
personalità niente affatto confinata nei limiti ristretti
della propria regione, di una cultura contadina che si voleva a tutti i
costi definire come immobile e impermeabile, ma anzi meritevole di
maggior considerazione nel quadro delle contemporanee speculazioni
tanto letterarie, quanto ideologiche intraprese in ambito nazionale.
Tale lettura a ben vedere permette anche di far luce sul reale peso
ideologico dell’opera di Scotellaro e, per questo motivo,
può essere utile a chiarire certi punti che dagli anni
Cinquanta in poi vennero fatti oggetto di lunghi dibattiti politici e
ideologici da parte di alcuni tra i maggiori esponenti della sinistra
italiana.
Alquanto noto è il parere espresso nel
1954 da Mario Alicata il quale, tenendo conto dell’influsso
esercitato sull’ultimo Scotellaro dalle dottrine del
Rossi-Doria e, nello stesso tempo, dal sodalizio con Carlo Levi,
sottolineò l’incapacità dello scrittore
d’andare al di là di un primitivismo estetizzante,
anti-gramsciano in quanto improntato a valutare la storia contadina a
parte rispetto alla storia generale della società
meridionale e italiana. L’immobilismo, la natura
contemplativa di un progetto scrittorio nato conseguentemente
all’«attività culturale
“pura”»7 svolta da
Scotellaro a Napoli
tra il 1950 e il 1953 nell’entourage di Manlio Rossi-Doria
sarà poi l’argomento su cui si soffermeranno anche
Muscetta e altri esponenti di punta del partito comunista meridionale,
come Giorgio Napolitano8.
Nel corso degli anni tali giudizi verranno rivisti
solo in parte dalla critica di sinistra, se è vero che
ancora nel 1980 Pino Iorio, sposando manifestamente la linea di
pensiero di Alicata e leggendo di conseguenza Scotellaro attraverso la
lezione di Carlo Levi e Rossi-Doria, affermerà che
«le carenze del lucano, in sede politica, riflettono il mito,
sentimentale e perciò forse un po’ romantico,
d’un mondo agreste, nel Mezzogiorno, rassegnato ed immobile,
segnale d’autonoma civiltà»9.
Diverso sarà l’atteggiamento
di Giannantonio, il quale in particolare avvertirà come
indebita proprio la sovrapposizione del pensiero e dell’opera
di Levi alla produzione di Scotellaro10.
Recentemente Russo e Anna
Ferrari11 hanno ripreso tale spunto per parlare
addirittura di un
magistero capovolto, esercitato cioè a partire dal 1946 da
Scotellaro sull’autore di Cristo si è
fermato a
Eboli12.
Allo scopo di comprendere le ragioni storiche su
cui si fondò siffatto dibattito, vanno considerate
innanzitutto le teorie espresse da Antonio Gramsci circa la Questione
meridionale: lo stesso Alicata, promuovendo la lettura
parallela di
Levi e Scotellaro, suggeriva che il denominatore comune tra le
posizioni primitiviste, misticheggianti del primo e le
«incertezze ideologiche, politiche, umane»13
del
secondo andasse ricercato in una scarsa comprensione del pensiero di
Gramsci da parte d’entrambi gli scrittori. Riguardo a
ciò, Alicata insisteva in particolare su tre punti ai quali
molti critici successivi avrebbero poi fatto ritorno: al pari di Carlo
Levi, Scotellaro concepì il mondo contadino meridionale come
un universo unitario, granitico, separato rispetto al resto della
Penisola; in secondo luogo, mancò nell’autore di
Contadini del Sud la capacità di studiare
«i
diversi “mondi culturali” che si possono
ricostruire nelle campagne meridionali nel loro sviluppo storico, vale
a dire determinati nel tempo e nello spazio»;
infine (ed
è il punto vero di distacco dal meridionalismo gramsciano)
Scotellaro, allo stesso modo di Levi, non seppe comprendere la
necessità di uniformare il movimento di rivolta contadino
alle sommosse operaie del Nord, al fine di costituire un generale e
organico movimento di liberazione sociale nel decennio successivo al
secondo dopoguerra14.
Per realizzare quale fu il grado di autonomia di
Scotellaro rispetto alle tesi storiche e ideologiche del Levi,
è pertanto opportuno riprendere i tre punti suggeriti da
Mario Alicata e valutare, così, la disposizione di Rocco ad
accogliere o meno i contenuti del messaggio gramsciano.
Per quanto riguarda il primo punto in questione,
è chiaro sin dal prospetto di Contadini del Sud
–
ripubblicato da Rossi-Doria nella Prefazione al volume del 1954 e
ripreso, recentemente, da Nicola Tranfaglia nell’Introduzione
a L’Uva puttanella, Contadini
del Sud15 – che
Scotellaro non intendeva affatto sostenere l’esistenza di una
società contadina compatta, unitaria. Al contrario, egli
propose a Vito Laterza la pubblicazione di un’indagine che
non solo si estendesse a ben quattro regioni del Sud, ma che di queste
esaminasse, tramite i mezzi privilegiati dell’inchiesta e
dell’intervista diretta, alcuni campioni umani diatopicamente
e diastraticamente variegati: per la Campania, Rocco si impegnava a
indagare sui contratti agrari stipulati nel Beneventano e sugli storici
moti rivoluzionari di Montano Antilia, quindi a descrivere le zone
canapicole dei comuni atellani e i centri circumvesuviani, facendo
perno sulla produzione vinicola di Terzigno e San Vito
d’Ercolano; in Calabria avrebbe studiato i territori intorno
a Reggio, focalizzandosi sull’abbondante produzione
d’olio di centri come Palmi e Taurianova, per poi soffermarsi
sulle coltivazioni di gelsomino e sui bergamotteti caratteristici della
costa che collega lo Ionio al Tirreno, fra Villa San Giovanni e Gioiosa
Ionica; per ultimo, Rocco includeva nella bozza preparatoria un
riferimento alla situazione economica del Salento (la produzione di
tabacco) e al «minifondo» lucano di
«Avigliano, Ruoti e frazioni»16.
Oltre alla varietà di paesaggi umani
cui prima si accennava, tramite questo sommario elenco di capitoli si
può constatare l’estrema capillarità ed
elasticità del metodo d’indagine di Scotellaro il
quale, approcciando allo specimen dei Contadini del Sud,
tenne conto di
tre fattori concomitanti allo sviluppo del Mezzogiorno: quello
schiettamente economico, legato da un filo rosso alla conformazione
geografica del territorio; quello storico-politico, dallo studio dei
moti cilentani all’interesse per «le roccaforti
comuniste» di Cerignola e Andria e della lucana Irsina;
infine, quello socio-culturale che, come suggerì Manlio
Rossi-Doria, garantisce al piano dell’opera «un
ordine che piacerebbe a un poeta e anche ad un economista
agrario»17.
Questa analisi, tra l’altro, inficia
anche la seconda critica mossa da Alicata all’indagine di
Scotellaro: la determinazione «nel tempo e nello
spazio»18 che l’allora
direttore di
«Cronache meridionali» sentiva mancare nella prosa
e nei versi di Rocco è tutta presente in nuce
nel breve,
laconico eppure cruciale prospetto di lavoro steso dallo scrittore due
giorni innanzi alla morte. Come primo intento, esso si propone
d’interpretare le specificità dei diversi mondi
contadini, al di là di qualsiasi lettura sinottica che
tenda, semplicisticamente, a far affiorare soltanto i tratti comuni
alle varie realtà locali per ridurre queste ultime a un
coacervo originario di cultura comune.
Infine, per smentire la terza annotazione critica
di Alicata, è di grande utilità la lettura di un
brano contenuto negli Scritti rari di Scotellaro,
poco noto e
ciò nonostante fondamentale, intitolato I
contadini guardano
l’aria. In esso il pensiero dell’autore
potrebbe
apparire conforme a quell’immobilismo anti-gramsciano di cui
l’Alicata lo tacciò, specie quando viene spiegato
il modo in cui gli agricoltori lucani «vestono e parlano e
giudicano secondo un accordo che li avvince, si riconoscerebbero in
qualsiasi parte della terra»19; subito
dopo, però,
Rocco suggerisce: «bisogna […] aderire
inizialmente a questi articoli statutari della concezione contadina
della loro primogenitura e dei capricci del cielo, poi ti lasciano
entrare»20. Alla fine, proprio in
riferimento
all’auspicato confronto tra la cultura dei contadini e quella
degli operai, vengono forniti al lettore dei cenni tutt’altro
che trascurabili:
Abbiamo
discusso tante volte un artigiano,
un operaio, un uomo che scrive e tutti loro. Nelle feste abbiamo potuto
senza scosse mettere insieme il jazz e la zampogna. Perché?
– Stiamo
bene noi – dicevano – starete bene voi. Noi daremo
il
pane, voi farete le
scarpe nuove, alle figlie daremo il mobilio e un corredo. Un giornale,
un libro, eccome se bisognano!
Fu così che vennero a gridare con noi o a sorridere con
l’occhio lucido
come una zappa. Chiedono sempre ora «Come va per noi? Che
dicono i
giornali? Ce la faremo? Attenti e forti ce la faremo».
E proprio questa combattività intelligente (–
abbiamo aperto gli occhi
– dicono) è questa combattività che
contrasta con tutta una vecchia
storia del conservatorismo contadino, che si assume da qualche parte
operi ancora nelle campagne21.
Le interviste ai contadini,
lette da questa ottica, assumono un valore propriamente euristico: i
connotati anarchici attribuiti ai contadini del Sud e, specularmente,
all’autore stesso devono ben poco a una costruzione
mitologica (come per Levi in letteratura e in parte per Rossi-Doria nel
settore dell’economia agraria) e si profilano, invece, come
il frutto di un processo storico che Scotellaro inquadra attraverso un
attento studio di tipo descrittivo. In questo modo, egli offre al
lettore un documento registrato al vivo delle problematiche sociali,
politiche e culturali che affliggevano la propria regione e tutto il
Sud d’Italia nelle prime fasi della nuova Repubblica e si
dispone, nel contempo, a lavorare per un futuro cambiamento
nell’assetto nazionale.
Lungi dal contrastare l’ideale
gramsciano di una sinergia a venire tra i contadini del Sud e il Nord
operaio, la lezione di Scotellaro non va quindi interpretata seguendo
l’indebito parallelismo con la figura di Levi proposto
dall’Alicata, ma neppure assecondando Pompeo Giannantonio,
secondo il quale l’opera dell’ex sindaco di
Tricarico apparirebbe in qualità di un «documento
di umanità, più che manifesto
politico»22. I Contadini del
Sud, così come
L’Uva puttanella e le ultime poesie di
Scotellaro, danno
invece forma a un documento umano inteso politicamente alla stregua di
un manifesto, atto cioè a diagnosticare il morbo
dell’Italia meridionale post-bellica isolandone un campione
significativo. Qui sta il ruolo dello Scotellaro più
autentico, che non è affatto quello neutro del poeta
contadino, ma quello ben più complesso dell’uomo
politico amareggiato che, tentando di riappropriarsi della propria
cultura, si fa intellettuale. Pur intendendo la scrittura in senso
attivo, Rocco la mette comunque al riparo da aprioristiche connotazioni
di partito per riuscire a rappresentare in modo lucido e persuasivo il
senso profondo di quella «schiavitù
contadina» che si trasforma, paradossalmente, in
«libertà»23 in
quanto espressione
sovversiva di un popolo per lungo tempo rimasto abbandonato a se stesso.
Nulla, insomma, che possa sembrare riconducibile a
teorie immobilistiche sullo stato delle campagne meridionali, o tanto
meno a una definitiva rinuncia alla politica intesa in senso attivo.
A seguito di queste precisazioni si comprende
anche meglio come lo stesso impianto autobiografico dell’Uva
puttanella di cui si parlava in precedenza, innestato sul
tronco di
quella sfiducia nell’autorità che aveva condotto
Scotellaro a dare le dimissioni dalla carica di sindaco, sia in tutto
funzionale all’inchiesta; lo ammette lo stesso scrittore nei
suoi quaderni preparatori: «questo racconto»,
scrive infatti Rocco a proposito dell’Uva puttanella,
«ha rasentato appena l’autobiografia e
l’inchiesta che sono gli strumenti più diretti
della comunicazione»24.
La narrazione autobiografica dunque non solo
convive con l’inchiesta, ma diviene assieme a essa la chiave
di volta della comunicazione: è il ritrovato che permette
all’uomo di farsi scrittore e allo scrittore di mantenere
intatte, in un atto creativo necessariamente appassionato, le proprie
più intime e sentite prerogative di uomo.
Smentendo una volta in più
l’accostamento diretto di Scotellaro alle modalità
scrittorie di Levi, si può dire allora che mentre per
quest’ultimo il fattore autobiografico è
funzionale all’«inchiesta»,
nell’Uva puttanella e in parte dei Contadini
del Sud i due
elementi comunicativi convivono, senza possibilità di una
riduzione a qualunque forma di nichilismo. Nel momento in cui
l’autobiografia e l’inchiesta vanno a saldarsi a
scopo eminentemente comunicativo, si realizza in effetti una sorta di
campionatura del dato reale, la quale, proprio a causa della sua
vocazione comunicativa, non può che assumere un valore
conoscitivo e, perciò, positivo; in tal senso Scotellaro si
offre come rappresentante ideale di un intero popolo, di una storia
collettiva: la sua personale sconfitta politica viene assunta a
paradigma di un’ingiustizia generalizzata e si dispone a
denotare la condizione contadina tout court.
Si giustifica così ideologicamente, in
modo compiuto, anche quell’innegabile ispirazione lirica di
cui si diceva all’inizio: è il continuo travaso
dell’esperienza personale di uomo politico e di letterato
nell’esperienza collettiva di un popolo a innervare la
scrittura di Rocco e a permettere alla poesia di inquadrare, senza
alcuno scarto, la storia.
note
1.
Cfr. A. Angrisani, L’«Uva
puttanella» di Scotellaro,
Roma,
I.R.M.A.R.,
1984.
2. R. Scotellaro, L’Uva puttanella, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 2009, p. 5.
3. Ivi, p. 25
4. Ivi, p. 53.
5. «Basilicata», n. 4, a. 1973, ora in Omaggio a Scotellaro, a cura di L. Mancino, Manduria, Lacaita, 1974, p. 95, vv. 4-9.
6. F. Fortini, La poesia di Scotellaro, Roma – Matera, Basilicata editrice, 1974, p. 53.
7. M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, in «Cronache meridionali», 9 settembre 1954; poi in Omaggio a Scotellaro, cit., p. 156.
8. Si vedano rispettivamente C. Muscetta, Rocco Scotellaro e la cultura dell’«Uva puttanella», in «Società», 5, ottobre 1954; G. Napolitano, Personaggi nuovi delle campagne del Sud, «Incontri, Oggi», settembre 1954.
9. P. Iorio, Limiti e lezione di Rocco Scotellaro, Napoli, Edizioni «HYRIA», 1980, p. 4.
10.
Cfr. P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, Milano,
Mursia, 1986.
11. Si vedano rispettivamente G. Russo, Il contadino Scotellaro dava lezioni a Levi, «Corriere della Sera», 12 luglio 2003, p. 33; A. Ferrari, «È fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo»: Scotellaro fra tradizione e modernità, intervento al XII Congresso Nazionale dell’ADI, Moderno e modernità: la letteratura italiana, Roma, 17-20 settembre 2008, Università La Sapienza, disponibile all’indirizzo http://www.italianisti.it/fileservices/Ferrari%20Anna.pdf.
12. Qui va specificato che la notorietà stessa di Scotellaro, dopo la sua prematura scomparsa, si deve senz’altro al diretto intervento di Carlo Levi, il quale si dichiarò sempre convinto del primato assunto da Rocco nell’ambito della letteratura meridionale (si veda in particolare l’articolo Rocco Scotellaro per la libertà contadina, apparso sul numero di marzo del 1955 di «Cultura moderna»). Nel corso degli anni Levi tornerà frequentemente a citare Scotellaro come uno dei suoi maggiori punti di riferimento a livello letterario: ciò può confermare, in qualche modo, l’importanza assunta dalla figura dell’ex sindaco di Tricarico nel percorso artistico di Levi stesso (si veda, per esempio, l’intervista Cosa cambia nel Mezzogiorno. Tra letteratura e realtà, trasmessa dal Terzo programma Rai il 14 novembre 1972 e ora ristampata in C. Levi, Un dolente amore per la vita, a cura di L. M. Lombardi Satriani e L. Bindi, Roma, Donzelli, 2003, pp. 45-48)
13. M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, cit., p. 156.
14. Ivi, p. 153.
15. Cfr. l’Introduzione di N. Tranfaglia a R. Scotellaro, L’Uva puttanella, Contadini del Sud, cit., pp. XI-XII.
16. La Prefazione di Rossi-Doria a Contadini del Sud si trova ora nel volume Omaggio a Scotellaro, cit., pp. 277-78. Si cita qui il prospettto riprodotto alle pp. 277-78.
17.
Ivi, p. 278.
18. M. Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, cit., p. 153.
19. R. Scotellaro, Scritti rari, in Omaggio a Scotellaro, cit., p. 17.
20.
Ivi., p. 18.
21.
Ibid.
22.
P. Giannantonio, Rocco Scotellaro, cit., p. 73.
23. Si vedano i vv. 1-3 della poesia Passaggio alla città, scritta in occasione del trasferimento a Portici, dove Rocco avrebbe lavorato accanto al Rossi-Doria: «Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà», (R. Scotellaro, È fatto giorno, a cura di C. Levi, Milano, Mondadori, 1954, p. 152).
24.
R. Scotellaro, Uno si distrae al bivio,
Roma, Basilicata Editrice, 1974, p.
105.
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