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La poesia
di Scotellaro
Alessandra
Reccia
Rocco Scotellaro e la cultura dell’uva puttanella
è un importante saggio di Carlo Muscetta, scritto per
«Società» nel 1954, in occasione della
pubblicazione per Mondadori delle poesie di È
fatto giorno .
Da pochi mesi il saggio è stato ripubblicato in
un’elegante edizione da Il Girasole di Catania insieme al
carteggio inedito tra il critico, allora occupato alla sede romana
dell’Einaudi, e il giovane poeta1.
La corrispondenza, datata tra il maggio del 1946 e il febbraio del
1952, ha per argomento la vicenda della pubblicazione della raccolta
poetica, a quel tempo in discussione presso la casa editrice torinese,
dove trovò l’opposizione soprattutto di Vittorini,
che riteneva spesso banali i versi del poeta lucano. In generale la
redazione torinese temeva di sopravvalutare questo autore, la cui
attenzione consideravano momentanea perché legata alla
contingenza politica. Così all’inizio anche
Pavese, generalmente in disaccordo con Vittorini, diede il suo parere
negativo. In generale restavano in redazione i dubbi su
un’opera frammentaria e di sapore populista. Rispetto a
questo giudizio e soprattutto per È fatto giorno
Muscetta, i
cui rapporti con Torino non erano sempre sereni, poté poco2.
Le missive ora pubblicate certo testimoniano dell’impegno
profuso per il giovane amico, verso il quale Muscetta nutriva la
più profonda stima. Tuttavia quei versi non lo convincevano
del
tutto.
Era stato Carlo Levi a consacrare Scotellaro poeta contadino. La
definizione non era piaciuta a molti degli intellettuali più
tenacemente legati al partito Comunista. Le motivazioni politiche
addotte erano molteplici e tuttavia possono essere sintetizzate
nell’accusa di un meridionalismo sentimentalistico e
riformista, che aveva le sue radici nella sinistra liberale e nel
Partito d’Azione. Le amicizie di Scotellaro con Levi e,
soprattutto, con Rossi Doria contribuirono non poco alla formulazione
di questo giudizio che poi fu alla base della steriotipizzazione di
Scotellaro. Il mito del sindaco poeta, criticato da taluni ad esaltato
da altri, ha finito con il tempo per sovrastare la sua poesia, fino a
ridurla a una genuina ma sorpassata esperienza letteraria, ad
un’idea ingenua del rapporto tra poesia e politica, ad
un’esperienza limitata ad un periodo storico che si descrive
come caratterizzato da illusioni e nefaste ideologie.
Proprio quella steriotipizzazione induce oggi Maurizio Cucchi, che
introduce l’edizione completa delle poesie di Scotellaro
pubblicate da Mondadori nel 2004 a cura di Franco Vitelli, a liberare
il poeta dalla gabbia nella quale il suo personaggio lo aveva
intrappolato, ovvero separandolo dall’intellettuale e dal
politico.
Cucchi, che parla giustamente di un poeta in «strettissimo
rapporto con la sua terra e la realtà storica del suo
tempo»
Si ha l’impressione che per assurdo l’unico modo di
restituire Scotellaro alla contemporaneità sia quello di
recuperarlo alla storia. Non va dimenticato che egli
considerò tutta la sua attività poetica,
letteraria e sociologica in rapporto a quella politica. In questo senso
fu un intellettuale di sinistra, di quelli che comprendendo di vivere
in un periodo di forti mutamenti economici e politici mettevano la loro
cultura al servizio della trasformazione sociale.
Il saggio di Muscetta, pur venendo da così lontano, ci
invita a riflettere sul senso e il valore di una poesia che pretendeva
d’essere qualcosa di più di un lamento
dell’anima, di un inerme strumento di consolazione e si
candidava per essere riconosciuta come poesia rivoluzionaria. Non si
tratta di opporre le ragioni, per altro non sempre condivise, di un
saggio degli anni Cinquanta con quelle attuali, che pure nascono dalla
necessità di recuperare un poeta che rischia di essere
totalmente dimenticato. Ma semplicemente di mettere in tensione quelle
con queste.
Nell’immediato dopoguerra la rivoluzione non era solo un
sogno o una speranza di pochi illusi, ma una reale prospettiva per
l’Italia. Nelle città industriali del nord come
nelle campagne meridionali, chi credeva al progetto politico
contribuiva come poteva o sapeva alla sua realizzazione. Anche la
poesia doveva fare la sua parte.
Carlo Levi esaltò senza mezzi termini Scotellaro
«poeta della libertà
contadina»4; parlando addirittura di Sempre
nuova
è l’alba come di una vera e propria
«marsigliese». Tuttavia la poesia di denuncia, la
protesta contadina consegnata in versi non sarebbe mai diventata per
Muscetta una poesia rivoluzionaria. Pur riconoscendo Scotellaro poeta
di talento e d’ingegno, poiché «ambiva
alle forme più alte della poesia contemporanea per un
contenuto che gli sembrava tragicamente degno», riteneva che
un’incompetenza o un’incertezza ideologica gli
impedissero di compiere il salto. I protagonisti dei suoi versi, dal
padre agli emigranti, dai briganti ai contadini in lotta, per Muscetta
erano solo parzialmente recuperati alla storia, al compito storico che
la contemporaneità gli affidava, e restavano in buona parte
nel mito, contribuendo ad alimentare un certo sentimentalismo, su cui
si basava un certo meridionalismo paternalistico e compassionevole.
Alla fine «le immagini leviane del brigantaggio che vengono a
tentare la fantasia anarchica del mondo contadino sono respinte e
insieme accarezzate».
Insomma, nonostante la stima e la forte amicizia che, come attesta il
carteggio, lo legavano a Scotellaro, Muscetta è tutto
proteso nel suo saggio a delineare «il limite del fiato
poetico di Rocco»5.
L’articolo di Muscetta e quello di Alicata6,
uscito solo un
mese prima su «Cronache meridionali», diedero
l’avvio ad un aspro dibattito sulla figura di Scotellaro, che
si incentrò soprattutto sulla funzione della sua opera
nell’ambito della cultura della sinistra italiana, in
particolar modo meridionale. In realtà l’input era
stato dato da un intervento di Salinari che individuò come
uno dei Tre errori a Viareggio, la consegna del
premio a È
fatto giorno7.
L’argomento politico che sosteneva la discussione era quello
del rapporto tra le lotte contadine e quelle operaie, a quel tempo
attive nelle città industrializzate del nord. Le polemiche
che in quei mesi accompagnarono la pubblicazione delle opere di
Scotellaro, tutte postume, furono determinanti per
l’organizzazione del convegno di Matera del febbraio del
1955, voluto da Raniero Panzieri, allora responsabile della cultura del
Psi, da poco arrivato dalla Sicilia, dove aveva partecipato alle lotte
contadine.
Il convegno mise in evidenza il carattere politico della discussione su
questo autore. Panzieri, infatti, propose alla sinistra italiana,
lì convenuta su suo invito, di riattivare una riflessione
sul meridionalismo e sul ruolo delle forze sociali contadine rispetto a
quelle operaie. Non si trattava di mettere in discussione «la
funzione decisiva» che nella lotta doveva avere la classe
operaia, ma riprendere il problema dell’unità
politica delle masse in Italia, posto politicamente
dall’antifascismo e dalla Liberazione. La cosiddetta
questione meridionale, individuata da Gramsci come una
particolarità tutta italiana dovuta allo sviluppo
storico-politico della giovane nazione, si riproponeva nei movimenti di
occupazione delle terre, mentre già le forze reazionarie
democristiane ne organizzavano una risoluzione. Del problema pratico e
teorico che si poneva alla sinistra in quel momento storico Panzieri
tentò di fare di Scotellaro un personaggio chiave8.
Questa
proposta però non fu accolta e del convegno non furono mai
prodotti gli atti. Ne resta comunque traccia in un numero di
«Mondo Operaio», la cui redazione chiese a molti
dei partecipanti resoconti ed impressioni sulla giornata materana.
Ciò che colpì l’attenzione degli
intellettuali intervenuti fu senza dubbio la presenza cospicua e
attenta dei contadini, venuti in città quel 6 febbraio del
1955 a ricordare il compagno da poco scomparso. A loro il giovane
sindaco aveva dedicato tutta la sua attività politica e
sindacale, fin dal 1943.
Tra gli interventi più toccanti e applauditi di quella
giornata ci fu sicuramente quello di Fortini le cui parole rivolte ai
contadini in sala vennero più volte ripetute dagli altri
partecipanti.
La tesi di Fortini9 non era nella sostanza
diversa da quella
di Muscetta. L’accordo di fondo era certamente su una
questione estetica e politica. Per Fortini un eccesso di lirismo, un
accentuato sentimento paternalistico vietava una matura evoluzione,
condizione per ogni passaggio rivoluzionario, dal piano soggettivistico
dell’angoscia e della tenerezza a quello politico
dell’istanza collettiva, del «noi». Nel
resoconto per «Mondo Operaio», ricordando la
vergogna dell’intellettuale di fronte ai contadini
intervenuti, Fortini sospetta che la poesia, in particolare quella di
Scotellaro, alleviando con le sue armonie i dolori di quegli uomini,
finisse di fatto per attutire la rabbia e la lotta, trasformandosi da
strumento di emancipazione in un cappio.
«L’attività politica è
l’unica forma reale di cultura dei contadini di
laggiù».
In sintesi, la poesia di Scotellaro gli era sembrata un cedimento al
dolore del mondo e Scotellaro restava, come già per
Muscetta, un poeta dell’idillio e questo nonostante lo sforzo
di fare dei suoi versi un momento decisivo della coscienza contadina.
Entrambi i critici individuano una discrepanza tra l’aspetto
lirico-soggettivo di questa poesia e la sua pretesa sociale. Anche la
lingua, la cui originalità, secondo Muscetta, è
legata ai contesti tematici proposti e che si spinge fino
«alle parole che più sanno di dialetto, alle
clausole stornellanti con piglio d’improvvisata
popolare», si fa incerta perché affiancata da un
linguaggio di maniera, ostentato «per ambizione di uno stile
più colto e prezioso». La consapevolezza che
«quella vita intorno a lui esigeva parole
nuove»10 non arrivò, per
un’incertezza ideologica e un’immaturità
legata anche alla giovane età del poeta, ai risultati che
pure prometteva. Questo nonostante Scotellaro avesse fatto un passaggio
in tale direzione proprio grazie al suo ingresso attivo nella vita
politica del Mezzogiorno.
A ciò giunse, anche se per vie diverse, Fortini il quale
riteneva che un poeta, quando prende coscienza del rapporto tra le
contraddizioni sue e quelle di un’intera epoca, ha davanti a
sé due strade. La prima è quella di sostituire
immediatamente l’«io» lirico con il
«noi» inserendo nei testi nuovi contenuti a
carattere sociale. Si tratta di un percorso senza futuro, che induce il
poeta, prima o poi, a tornare indietro, abbandonando la pretesa di
immedesimazione collettiva e investendo nuovamente sull’ io,
attribuendogli questa volta la responsabilità di significare
«paradossalmente e negativamente tutto un immenso cerchio di
non-io e di altro». La situazione lirica si presenta
così come un luogo risolutivo delle tensioni
dell’io nel mondo, ma allo stesso tempo luogo ideale in
contrapposizione al reale. In questo senso
l’attività poetica resta scissa da quella
politica, che torna ad essere il luogo specialistico deputato alla
prassi. La discrasia tra il desiderio di conciliazione e la lentezza
dei mutamenti possibili nella realtà è fonte di
angoscia. Ma comunque per Fortini, al contrario invece che per
Muscetta, «può farsi poesia dello squilibrio
tragico fra la persuasione e la speranza da una parte e la paura delle
cose stesse che si sperano, la coscienza di essere inferiori alla
storia e alle nostre medesime promesse». Inseriti in questo
filone Blok e Pasternak, Fortini individua in esso la strada
tentata da Scotellaro.
L’altra possibilità invece è quella
dell’oggettivazione della contraddizione che liricamente si
percepisce sul piano soggettivo. Questo allontanamento da sé
del dolore del mondo ha trovato per Fortini la sua forma ideale nel
romanzo o nel dramma, ma anche nell’inno, nell’ode
o nell’epigramma, in quelle situazioni poetiche,
cioè, in cui le contraddizioni tornano alla forma lirica
liberate «dal primo pianto esistenziale». Era
questa la dimensione con la quale Scotellaro non era riuscito a
misurarsi11.
Mettendo in tensione la proposta di lettura di Cucchi con quelle di
Muscetta e Fortini, sembra utile tornare a riflettere sul rapporto che
in questi versi si istaura tra il momento propriamente lirico e quello
invece politico nella poesia di Scotellaro.
In questi versi, ci sembra, la dimensione idillica, che pure
è predominante, non è mai un rifugio o scopo del
canto. D’altra parte è indubbio che essa rimandi
ad un desiderio di armonia. Questo, però, è
piuttosto dettato da una stanchezza, che il poeta vorrebbe scrollarsi
di dosso magicamente, come invocando gli spiriti benigni.
«Non gridatemi più dentro/ non soffiatemi in
cuore/ i vostri fiati caldi, contadini // Beviamoci insieme una tazza
colma di vino» (Sempre nuova è
l’alba).
Il richiamo all’immediatezza, alla convivialità,
frequente nei suoi versi12, è un
desiderio momentaneo.
Scotellaro, che come giustamente sottolinea Cucchi è
«estraneo ad ogni forma di vana lamentazione», non
è nemmeno al contrario poeta dell’ubriacatura, del
carpe diem, così come si compiacevano di
pensare tanto
Fortini che Muscetta, seppure con argomenti molto diversi tra loro.
Semmai, l’umano desiderio di leggerezza, il saper
approfittare dell’attimo fuggevole sono da lui indicate come
quelle cose che tengono legati gli uomini alle proprie catene. I fuochi
il giorno del santo patrono, il vino la sera di ritorno dai campi, il
canto che automatizza i gesti e allevia la fatica fisica è
ciò che rende sopportabile, e dunque perpetua, la propria
condizione di sfruttati.
«Hanno pittato la luna/sui nostri muri scalcinati!/I padroni
hanno dato da mangiare/quel giorno si era tutti fratelli,/come nelle
feste dei santi/abbiamo avuto il fuoco e la banda»
(Pozzanghera il 18 aprile)
Su questo sfondo, si innalzano le teste dei briganti lasciate ai pali.
Queste chiamano ad una nuova responsabilità che non
è però la macchia, la rivolta fiera e anarchica
dei mitici fuorilegge meridionali, ma è rischio, speranza,
fratellanza.
I versi di Scotellaro erano fortemente legati alla loro
realtà. Non avevano da parlare del movimento contadino quale
poteva essere in teoria, ma dei limiti e delle possibilità
che in pratica esprimeva. Alla rivolta del brigante, come alla tessera
della Dc o alla scelta dell’emigrazione, Scotellaro aveva da
opporre niente meno che il partito, l’organizzazione, il
socialismo. Per questo nelle sue poesie non ci sono eroi, ma solo
uomini che hanno paura di morire e nondimeno muoiono (Due eroi)
che
sanno che la rivoluzione non ammette pace, e tuttavia la cercano (Mio
padre, Di noi fissi). È la
paura e l’attrazione
per la perdita del proprio mondo (L’amica di
città, Salmo alla casa e
all’emigrante,
Dichiarazione d’amore ad una straniera, Lo
scoglio di
positano e altre13) perdita che
resta necessaria in vista di
quell’alba, che Scotellaro era sicuro di scorgere in tutto
ciò che lo circondava. Così un giorno, nel
carcere dove era stato ingiustamente rinchiuso, parlando animatamente
delle sue posizioni politiche Scotellaro si convinse di aver avuto
ragione contro il brigante Giappone che esponeva le sue teorie
libertarie: «Riuscì a batterlo nella discussione
generale perché il mondo nuovo che si sentiva nelle parole
che mi veniva da dire era nel cuore di tutti, anche nel suo»14.
Con questa certezza caparbia, più che ingenua, questo
giovane «gracile com’era, e con quel suo volto
roseo e lentigginoso» avrebbe sfidato il mondo. E ogni giorno
lo sfidava misurandosi con la miseria, l’ignoranza,
l’arroganza, che non erano per lui forze oscure ma
semplicemente un risultato storico. Solo questa chiarezza gli
consentiva di recuperare gli elementi di forza, i vantaggi di quel
mondo contadino che doveva essere superato e dal quale però
non voleva prescindere.
Ne prescinderà invece la modernizzazione operata dal
capitale, mentre la Dc penserà a reprimere le forze sociali
che dal dopoguerra si erano sprigionate in tutto il Sud Italia,
rigettando nella rassegnazione un’intera generazione di
contadini in lotta.
Scotellaro non fece a tempo a vedere il nuovo e moderno Sud, eppure
già ne indovinava gli esiti sociali. In questo fu
assolutamente inascoltato dalla sinistra. Non per nulla negli anni
Settanta, rispetto a quel periodo, arriverà dalla Basilicata
l’accusa di un «vuoto di impegno interpretativo che
da allora fino ai tempi più recenti, la sinistra italiana ha
la responsabilità di aver mantenuto sul
Mezzogiorno»15.
Scotellaro lasciò il suo paese nel 1950 per la
città, prima Roma e poi Napoli, dopo quaranta giorni di
reclusione, mosso dall’indigenza e dalla consapevolezza che
fare il sindaco non poteva bastare più. Chiunque legga oggi
la sua breve ed incompiuta autobiografia non può che
meravigliarsi di come questo «Io» si vada
costruendo sempre in rapporto e di riflesso agli altri. Persino il
carcere non è raccontato come un evento traumatico della sua
esistenza ma come un’esperienza privilegiata per la
conoscenza dei rapporti sociali16.
Questo sforzo costante di pensare se stessi e il proprio disagio in
relazione al mondo, e non in isolata opposizione ad esso, è
una caratteristica della poesia di Scotellaro. Che i suoi versi
avessero avuto un risvolto pratico lo dimostrarono infine i contadini
quel 6 febbraio a Matera. Scotellaro non si era mai preoccupato
«di parlare loro più lentamente», come
invece si premurò di fare al convegno Pirelli, e nemmeno si
era posto il problema di dover separare gli argomenti per i contadini
da quelli per gli intellettuali, come sospettava Fortini che diceva,
forse a se stesso, che «ai contadini si può
parlare di tutto». Una prova ne viene ancora dal periodo del
carcere quando, discutendo con gli altri detenuti, opponeva la sua
verità alla loro. Non si sarebbe certo meravigliato, come
invece tutti i suoi amici intellettuali, della serietà e del
contegno dei contadini, della loro capacità di comprendere i
versi. Raccontò uno di loro intervenuto al dibattito:
«Ci leggeva le sue poesie, le componeva seduto accanto a noi
sull’aia dove si trebbiava, accanto al fosso dove si zappava,
seduto alla nostra mensa, e ci chiedeva: vi piace? A noi piacevano
perché Rocco scriveva con parole nostre».
Non si pensi ad un ammiccamento poetico, la lingua di Scotellaro, come
già poté notare Pasolini17,
non è mai
banale o colloquiale, certamente essenziale piuttosto che mimetica.
Valeva forse la pena che un Muscetta o un Fortini si domandassero cosa
intendessero i contadini con «parole nostre».
Politicamente, la loro partecipata presenza poneva in termini nuovi il
problema individuato da Gramsci dell’avversità nel
meridione tra gli intellettuali e classi lavoratrici. Vale
indubbiamente la pena oggi accogliere l’invito di Cucchi a
restituire una fisionomia autonoma a questo poeta
«appassionato e fedele» esaltando la ruvidezza di
certi suoi versi asciutti e spigolosi, ma anche, aggiungiamo, di
riproporre con questi versi la possibilità di una poesia che
pretenda per sé una funzione, un ruolo e un posto attivo
nella storia degli uomini. Non allontanare dunque, ma semmai restituire
il poeta «alla complessità della sua azione e del
suo lavoro culturale»18.
note
1. C. Muscetta,Rocco Scotellaro e la cultura dell’uva puttanella. Con carteggio inedito, Catania, Il Girasole, 2010. Da qui citeremo il saggio di Muscetta, da ora Rocco Scotellaro.
2.
All’Einaudi sarebbe saltata, nel 1954, anche la
pubblicazione de L’uva puttanella. In
questa occasione fu
Muscetta stesso ad esprimere le sue perplessità,
più che sull’opera sulla curatela di Levi. Cfr. L.
Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni
Trenta
agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp.
670 e
684-85.
3.
M. Cucchi (a cura di), Poesia. Antologia, Milano,
Mondadori, p. 238.
Ringrazio Claudia Crocco per avermi segnalato le presenze di Scotellaro
nell’antologie poetiche degli ultimi anni. Cfr. anche G.
Majorino, Poesia e realtà 1945-2000,
Milano, Marco Tropea
editore, 2000.
4.
Dalla lapide messa per volontà di Levi sul muro della
casa del poeta a Tricarico, che recita: «A Rocco
Scotellaro/Sindaco socialista di Tricarico/ Poeta/ Della
libertà contadina».
5.
Le citazioni di Muscetta sono tratte da Rocco Scotellaro
cit.,
rispettivamente alle pp. 19, 21 e 22.
6.
In realtà nel settembre del 1954 uscirono due interventi
di Alicata su Scotellaro. Il primo in «Il
Contemporaneo», 4 settembre 1954, dal titolo Contadini
del
sud e l’altro, Il meridionalismo non si
può
fermare ad Eboli, in «Cronache
Meridionali»,
settembre, 1954. Quest’ultimo pubblicato successivamente in
L. Mancino (a cura di), Omaggio a Scotellaro,
Manduria, Lacaita, 1974,
pp. 134-63.
7.
C. Salinari, Tre errori a Viareggio, «Il
Contemporaneo», 28 agosto 1954. Poi in Omaggio a
Scotellaro
cit., pp. 697-98.
8.
Lo scopo e il giudizio di Panzieri sulla giornata sono dichiarati in
un editoriale di «Mondo Operaio» (Il
convegno di
Matera su Rocco Scotellaro, 19 febbraio 1955) firmato a nome
della
Redazione con il titolo Il meridionalismo di Scotellaro
e poi
pubblicato nella raccolta a cura di S. Merli, Raniero Panzieri,
L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956,
con il
titolo Cultura e contadini del sud, pp. 156-61. Un
affettuoso
ringraziamento a Luca Baranelli per avermi introdotto alla lettura di
Panzieri.
9.
L’intervento di Fortini fu accompagnato da una lettura di
poesie di Scotellaro. Nonostante gli incoraggiamenti, Fortini non volle
mai dare alle stampe il suo contributo che fu pubblicato con la scelta
antologica senza il suo consenso negli anni Settanta dalla Basilicata
Editrice. Ne risultò un intelligente libretto che ancora
oggi costituisce un’interessante antologia di Scotellaro. Di
rilievo è l’Introduzione al libro a cura
della Redazione di «Basilicata». F.
Fortini, La poesia di Scotellaro, Roma-Matera,
Basilicata editrice,
1974.
10.
Le citazioni di Muscetta sono in Rocco Scotellaro
cit. alle pp. 19
e 21.
11.
Cfr. F. Fortini, La poesia di Scotellaro cit., pp.
53-59.
12.
Vedi ad esempio (dalla raccolta di Vitelli) Morra
p. 194, Verde
giovinezza, p. 90, Sempre nuova è
l’alba, p. 67,
La pioggia, p. 66, Cena, p. 28.
13.
Rispetto a questo motivo sembra centrale in tutta la poesia di
Scotellaro il tema della straniera. Fortini che lo considerava un
prodotto originale del lucano tuttavia lo leggeva come un invito del
poeta «all’immobilità» del suo
mondo. Eppure sembra che la straniera rappresenti
l’attrazione verso l’esterno, il desiderio di fuga
da un lato e il richiamo alla responsabilità della terra,
dall’altro. In questo senso il tema della straniera fa coppia
con quello dell’emigrante, che ne rappresenta il termine
antitetico.
14.
R. Scotellaro, L’uva puttanella e Contadini
del Sud,
Laterza, Bari, 1964, p. 73.
15.
Introduzione a cura della Redazione
«Basilicata», in F. Fortini, La poesia di
Scotellaro cit., p. VII.
16. «Essi non ci hanno soltanto messi in galera per scacciarci dalle strade, ma così ottengono che ci avvezziamo all’umile ordine interno e che ricreano tra noi la gerarchia dei servizi, la necessità di una legge». R. Scotellaro, L’uva puttanella cit., p. 80.
17. P. P. Pasolini,Passione e ideologia (1948-1958), Torino, Einaudi, 1985, p. 300.
18. Questa e le altre citazioni di Cucchi, quando non diversamente indicato, da M. Cucchi, Introduzione, in R. Scotellaro, Tutte le poesie cit., pp. V-IX.
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