home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Francesco Scarabicchi
1. Ciò che mi impegna è una scrittura fortemente connotata sul piano esistenziale e minata da una costante luce di paura e di precarietà. Si può dire che i mutamenti della domanda per me accadano ad ogni istante e che io e la scrittura ne risentiamo come sismografi mai a riposo. Non c’è una diretta interazione tra evento e lavoro, ma è come se il lavoro fosse attraversato da uno sciame sismico permanente e tutto risentisse di quella vibrazione inesauribile. Per parafrasare uno scrittore degli anni Trenta, la mia potrebbe definirsi “una coscienza senza sonno”. Credo che una forte incidenza sulla sensibilità cosiddetta indiretta e sulle forme della percezione possa averla alterata o mutata la preponderanza e la degradante qualità della televisione. Poi c’è un’economia che si è estesa a tutte le “stanze” del vivere individuale e collettivo, privato e sociale. Una sorta di “cordone sanitario” che ha monetizzato ogni esperienza quotidiana, personale e familiare. A questo si può aggiungere un altro degrado che oggi coincide con la pericolosa perdita della politica e quindi dell’idea stessa di democrazia. Per limitarmi all’Italia: se da oltre un decennio una repubblica parlamentare è diventata azienda e, per buona parte, preda di un monarca imprenditore improvvisatosi politico (con tutti i declini evidenti) e le logiche che la governano sono quelle della “ditta”, se tutti siamo spinti, indotti, guidati, direttamente o indirettamente, a trasformarci da cittadini in dipendenti consumatori, è presto detto l’effetto che tutto ciò ha sul senso del proprio lavoro, sul radicale, intransigente e irrevocabile destino di una parola verticale che tenta di raggiungere le profondità della domanda sull’esistere e sul tempo e si trova sprofondata nelle mobilissime sabbie di una cronaca che risente di una profonda e pericolosa a-democraticità, a-culturalità, di una a-storicità, nell’instabile, minacciato presente. Insomma, la nostra situazione, che in qualche misura è provinciale, risente di un più vasto sistema politico ed economico, nelle conflagrazioni e deflagrazioni d’ogni giorno, magari piccole, dentro il dolore del mondo, lo strazio, la crudeltà. Spesso mi accade di udire, forse oltre la porta buia di me stesso, le urla mute di chi non ha voce nella cronaca, di quanto scompaiono anonimi come non fossero mai stati. Ma questo supera gli ultimi trent’anni, va bene al di là dell’epoca e investe la storia dell’umano che si perpetua.
2. Non so. Credo nessuno nella mia esperienza La domanda mi disorienta alquanto. Se una poesia nasce da un atto di necessità, porta in sé la lingua che la chiama e che la esprime. Certo, le forme del cambiamento sono evidenti e definiscono una serie di autori rispetto ad altri, forse c’è un minimalismo equivoco che riduce un po’ troppo personalisticamente la questione, forse il cerchio di luce si è ristretto e si perpetua la pronuncia dell’io e dei suoi quartierini solitari come se chi scrive abitasse una piccola regione del suo universo. Forse s’è alzata la quantità degli scriventi, s’è allargata a volte in maniera impropria, come se ci fosse un’altrettanto dubbia facilità che non confina affatto con la poesia, ma con l’intenzione della poesia assunta più come un modo di fare che di essere. Lo sosteneva, negli anni Sessanta, Giacomo Noventa. A questo aggiungerei che il sentiero che percorro, da sempre, è un sentiero lirico e condivido una poesia che stia dalla parte di un lirismo essenziale, estremo, piano, che tenti il massimo con il minimo dei mezzi. Non propendo per una poesia che argomenti, che scelga, magari, la via metafisica, che inclini al cristallo del pensiero freddo, letteraria e intransitiva, che abbia la scrittura stessa come orizzonte o meta. Sono convinto che la poesia seguiti ad essere un’arte, l’arte della domanda sul senso mediante la forma. La domanda sceglie la sua lingua come via di transito per approdare al senso. Per capirci: credo che l’autore che sento più contemporaneo e dentro il respiro di quest’epoca “ladra”, secondo Shakespeare, sia Umberto Saba. Il resto va da sé.
3. Raccolgo subito i grani d’oro di Fortini, a parte l’ascesi, e guardo al quel sostantivo luminoso che metto nel tascapane: selezione. Credo che stia in quel campo di concentrazione la radice della questione che egli pone, soprattutto là dove pronuncia un termine pericoloso e indispensabile: etico. E’ imprescindibile ingaggiare un corpo a corpo contraddittorio con l’etica del vivere e dello scrivere. Voglio dire che è senza vie d’uscita la partita che si gioca tra sé e il testo: c’è una tensione a somigliare al sentimento della propria poetica (Betocchi) sperando di approssimare la domanda della verità e del senso, di avvicinarla il più possibile, nonostante le frane e gli smottamenti dell’umano errare nella duplice valenza del verbo. La forma è quel che si salva dalla tensione, dallo spasimo, dalla salita. La scarpina di Cenerentola: è solo un piede che la calza. Quel che ho da dire può essere detto in un solo modo e quel modo è unico. Il lavoro è nel lasciarsi trovare da quel modo. La ricerca è, appunto, come vuole Fortini, costellata di caratteri severi di sforzo e progetto. C’è un’attesa che nessuno può sapere quanto lunga: disporsi all’attesa vigile, impedire il sonno della sentinella, stare in ascolto. Nel mio lavoro, oltretutto, non scrivo singole poesie che poi entreranno a far parte di una “raccolta”, ma il disegno coinvolge il “libro”, cioè un’architettura di temi, figure e lingua , investe le sezioni, i gradi, i livelli , le soste e i tragitti. Ogni “capitolo” di quel progetto è una parte della forma verso la quale tendo e che pure so imperseguibile come il senso, la verità, l’idea stessa d’assoluto che la poesia a cui guardo possiede nel sogno proiettivo della mia terrena, concreta, “solida” utopia.
4. La risposta potrebbe essere ed è “sì”. Aggiungo che la traduzione, oltre alla completezza, porta la necessità di comprendere la lingua presente dell’opera con la quale siamo in colloquio per risvegliarne la contemporaneità, convocandola nel nostro tempo o, se del nostro tempo, rivelandone, nella nostra lingua, tutte le sensibili facoltà . Oltre ad essere “superba filologia”, secondo Contini, è anche un perenne seminario senza soste né interruzioni. Rammento che, nel 1991, durante le notti infinite della prima guerra del Golfo, per attraversare l’angoscia e il dolore, presi a tradurre Machado, mentre già da tempo ero in viaggio con Lorca, e mi accorsi che il mio tentativo tendeva ad offrire al cristallo di quell’inarrivabile poesia una sponda italiana perché la “lira” della sua musica suonasse anche per chi non la poteva “ascoltare” nel suo idioma. Aveva un forte, segreto valore politico, e quindi etico, perché provava a cogliere, sul cammino dei versi, una ragione del nuovo umanesimo contrapposto al sangue e alle devastazioni, una ragione al “chirurgico” lavoro dei sarti occidentali dietro gli occhiali atlantici. Machado segnava i passi di quelle settimane, la ferità della storia e il dramma. La traduzione è l’altra voce che dimora in noi e che interroghiamo in quell’infinito esame nella ripetuta domanda della lingua. Di poesia contemporanea ne leggo, soprattutto in francese, inglese e spagnolo, ma vorrei disporre di un osservatorio più ampio, come un accordatore d’uccelli, come un vendemmiatore di idiomi.
5. Non mi pare di vedere una “funzione Fortini” all’opera. Non mi pare di cogliere la presenza di una “integrale politicità della poesia”. Mi pare si stia tra il silenzio assordante e “campale” e la “pace terrificante” di cui parla in una sua bella canzone Fabrizio De André. Personalmente, non ho in me la corda civile o politica e ogni tentativo, a parte due o tre testi che condivido, fallisce proprio sul terreno dei risultati, ma penso che la necessità di una presenza politica e civile dei versi richiami la totale assenza dell’una e dell’altra in Italia. Brecht ha indicato un po’ a tutti, nel ’38, il sentiero: parlare d’alberi come un delitto nel tempo delle stragi perché sul sangue stende il silenzio. Penso che sia politico, oggi più di ieri, parlare d’alberi, accentuando una vocazione ad insistere sulla vita, su quel “sì” che ogni autore conferma scrivendo, ben consapevole che “la notizia atroce” l’ha saputa, che “la parola innocente” non è stolta, ma contrasta la tragedia o il dramma. Da un po’ propendo per una certezza: nessuno che scelga la scrittura dice no, nessuno nega o rimuove le ragioni del proprio esistere, anche in chi decide di darsi la morte. Non potrebbe, del resto. La via dei versi è un’adesione “contraria”, ostinata, anomala, ma sta dalla parte della passione, della pulsione, del battito, del respiro.
[12 giugno 2008]
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