home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Erminia Passannanti
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Come
poetessa nasco nel passato: un passato fatto di poesie apprese e
interiorizzate, prima come cadenza e ritmo, che come contenuto
– contenuto lirico spesso dato didatticamente per scontato,
come nel caso di Leopardi, Carducci e Pascoli.
Così, per tutte le scuole elementari – fase
importantissima, ritengo oggi come allora, per la formazione del futuro
poeta ( se rispetto a questa universale vocazione accogliamo le teorie
di Vico e Wordsworth), ‘Leopardi-Carducci-
Pascoli’, divinità una e trina, erano la poesia
italiana. Ti accorgevi solo al liceo che non erano un’unica
‘persona’, e che il campione nazionale di
‘poeta’ era infatti costituito dal binomio
Cavalcanti-Dante.
Al tempo della mia infanzia, le poesie si apprendevano a scuola, con il
grembiulino addosso, conformati ed uniformati al
‘nuovo’ ideale di alunno voluto dalla repubblica
– figlio/a di orfani/orfane di guerra, reduci e
combattenti, sposatisi in ritardo in pieno boom economico con
l’ossessione della ricostruzione. E da nuovo alunno vivevi la
tua bella infanzia tra i muri di una scuola che si diceva riformata, ma
i cui schemi erano fondamentalmente desunti da quelli
dell’epoca fascista in cui tiranneggiava un vero ed unico
modello: quello del concordato tra Stato e Chiesa dei Patti
Lateranensi.
Nasco dunque come poetessa fuori da un’epoca in cui le poesie
si imparavano a memoria, porte da maestri moralmente irreprensibili
(ovvero umili padri e madri di famiglia, cresciuti in pieno fascismo,
divenuti educatori e “social workers”), e si
ripetevano a casa, aiutati dai propri genitori – che nel mio
caso erano appunto entrambi insegnanti, i quali in realtà
non aderivano affatto a questo falso modello di scuola riformista,
essendo entrambi convinti roussoniani, volti al futuro.
Ed è così che sono cresciuta al desiderio e alla
consapevolezza della scrittura lirica come fuga verso una
realtà più libera sentendomi lacerata tra il
frequentare una scuola conservatrice e reazionaria, (che impiegava e
retribuiva i miei genitori) e una famiglia anticlericale e
progressista, all’interno della quale ero l’
autorizzata ‘anarchica’.
La storia che ha influenzato la mia (diciamo)
‘vocazione’ allo scrivere versi, non parte tanto
dal presente degli anni Sessanta, in cui nascevo, ma dal
passato: sia della guerra e del fascismo patito dai miei
già vecchi genitori - l’una orfana e
l’altro ufficiale tenuto prigioniero in un campo di
concentramento per due anni dai nazisti – sia della
tradizione letteraria dell’ottocento che si
insegnava prevalentemente a scuola, fino alle medie. Le rose
dell’abisso, insieme a paesaggio con serpente, di
Fortini, mi hanno fatto comprendere quanto abbia profondamente agito su
di me, sul mio stile, sulle mie scelte di scrittura, questa tradizione.
Ma la vocazione poetica (che si genera dalla visione del
mondo) non è la stessa cosa che la pratica dello
scrivere versi: la prima può rimanere inespressa, o
sottoespressa, date le condizioni della seconda. La mia vocazione
è stata sostenuta dalla prassi della traduzione letteraria e
dagli studi universitari di letterature straniere.
La mia prima traduzione poetica è stata quella delle poesie
delle sorelle Brontë – Emily Charlotte e Anne
– pubblicate da un editore minore ma di buona reputazione
– Ripostes. Le condizioni economiche di me come scrittrice e
persona in cui queste prime esperienze si collocavano non erano
precarie, essendo studentessa con una famiglia benestante alle spalle,
ma non erano nemmeno chiaramente propizie, dato che, dopo la laurea,
sono rimasta a lungo sottoimpiegata come insegnante, come prevedevo
(temevo) accadesse.
La traduzione delle Brontë mi procurò una borsa di
studi, assegnatami dall’Istituto di Studi Filosofici dietro
indicazione di Franco Fortini, che scelse personalmente la mia
candidatura di borsista per il suo corso seminario “La
traduzione poetica”, e mi scelse – seppi in seguito
– proprio in ragione della qualità formale di
quella mia prima traduzione. Così, per me vale e
varrà sempre l’idea di Fortini della traduzione
poetica come esercitazione creativa, ma anche marziale, alla ricerca di
una propria “voce”.
Quanto al contesto storico, la mia prima raccolta – Macchina
- era pronta nel 1993, vinse un premio Nazionale nel 1995
(Premio Laura Nobile, di Siena) ma è potuta venire alla luce
nella collana curata da Romano Luperini per Manni, “La
scrittura e la storia” solo nel 2000, perché mi
mancavano i fondi richiesti dall’editore per autofinanziare
quella prima pubblicazione. Aggiungo che malauguratamente,
sebbene il premio Laura Nobile consistesse proprio nella pubblicazione
dell’opera, questa non fu mai finanziata dall’ente
promotore.
Una raccolta successiva l’ho intitolata La
realtà (2004) ed era un tributo in primis a Questo
Muro, di Fortini, e dunque ai miei ideali marxisti per i
quali, date le circostanze di vita, non ho potuto mai concretamente
battermi. La ‘realtà’ di questa raccolta
è dialettica, in bilico tra procedimenti allegorici e
simbolici che parlano della nostra storia contemporanea, ma in modo
radicalmente trasversale, dunque, essenzialmente, dalla prospettiva
dell’artista e dell’intellettuale non integrato,
dissidente, quale Fortini mi ha indicato d’essere.
2 Quando mi sono resa conto che la metascrittura iniziava a diventare tra gli scrittori una vera moda, un vezzo, ovvero, una facile scappatoia (non solo una necessità dell’artista nel suo rapportarsi al linguaggio e ai suoi segni) ho cercato di evitare di indulgere in metascritture. Il re-writing e l’intertestualità sono strumenti indispensabili sia al poeta sia al traduttore di poesia, ma bisogna agire un forte controllo sugli allettamenti di queste componenti autoreferenziali, per non farsi prendere in meccanismi consolatori e narcisistici. Nulla può dire di nuovo, può cambiare, la poesia, ammoniva Fortini. Nessun poeta, nessun testo può vantare un’assoluta originalità. Ma bisogna lottare per continuare a scrivere con la consapevolezza di questa difficoltà. L’autoreferenzialità programmatica, come discorso che un’arte fa su se stessa, comunque la preferisco al cinema, sebbene anche quella stia ormai scadendo in maniera tanto da non suscitare più nessuna sorpresa anche nei migliori registi.
3 Io credo che al numero tre del questionario abbia risposto con la mia mini-monografia su Poesia delle Rose, dove Fortini affronta il complesso imponente di tutte queste questioni, usando appunto le armi del ‘camouflage’ letterario, che sotto sotto esamina appunto questo lento, profondo, maestoso processo di formalizzazione della poesia. Preferisco citare direttamente dal Fortini di Verifica dei Poteri: “(La poesia) assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento reale, interumano, della propria immagine formale e a un tempo luogo di consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una droga o di un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (p.254)
4
Sono
stata e rimango una traduttrice di poesia in lingua inglese in
Italiano: ho tradotto, come dicevo, le Brontë, Sylvia Plath,
Geoffrey Hill, Seamus Heaney, e curato una antologia di poeti
britannici, Gli uomini sono una beffa degli angeli. Dopo essere stata
borsista di Fortini, ho collaborato con lo scrittore tedesco Sebald per
tre anni, d’estate, al suo progetto “British Centre
of Literary Translation”.
Ho collaborato con l’Arts Council del Galles e
tradotto poeti gallesi importantissimi, come RS Thomas. Ho fatto della
traduzione poetica, come arte, genere, linguaggio,
l’argomento della mia tesi di dottorato
all’university College di Londra sull’opera di
Franco Fortini. Non smetto di analizzare e riconsiderare i contenuti
del testo di Fortini che curai in quella sede,
Realtà e paradosso della traduzione poetica (1989)
– opera inedita in cui Fortini esprimeva le sue idee
originali su questa disciplina con cui così intensamente ed
intimamente accostava, nella pratica e nella formulazione teorica,
la traduzione di testi altrui alla scrittura lirica di primo
grado, la sua.
La traduzione poetica è senza dubbio la disciplina cardine
che per Fortini fu veicolo di un rapporto unico, autentico e vibrante
tra tradizione e presente. Non smetto di essere influenzata dal Fortini
poeta, dal Fortini saggista e dal Fortini traduttore, come scrittore in
cui questi tre linguaggi raggiungono una perfetta sinergia, e
così facendo, mi sento e sono sua convinta discepola.
Personalmente tendo a tradurre non solo i poeti che mi insegnano a
scrivere ma la cui Weltanschauung mi sembra di potere condividere.
Tuttavia,
nei casi più
pericolosi, come in quello dato dalla prossimità alla Plath,
seguendo i consigli di Fortini in Realtà e
paradosso della traduzione poetica, cerco di rimanere vigile
e di operare una resistenza contro la mera gratificazione della forma.
Ho provato a tradurre i versi di Amelia Rosselli
dall’inglese, ma a quello stadio, era lei stessa ancora
immersa in un work-in-process. Non amo tradurre Juvenilia.
Citerei un significativo e noto brano dalla
conversazione tra
Fortini and Franco
Loi, in
Franchi dialoghi (pp.29-30) : “Leggere
una poesia, anche fra sé e
sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e
quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla.
Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile
solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura
e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo
grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una
sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto
linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua
coscienza, di tutto il suo inconscio.” (pp.29-30)
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Vedo
sopravvivere la funzione-Fortini in poeti noti
e meno noti, come Biagio Cepollaro o Enrico Cerquiglini, molto
impegnati e sensibili alla crisi del presente, con
l’incombente minaccia dell’analfabetismo culturale
e storico che investe ampie fasce della popolazione fatta retrocedere
ad un centinaio di anni fa per le bieche manovre populiste delle
gerarchie al potere. Questa funzione-Fortini come poesia della vera
dissidenza, senza bandiera, patriottismi degeneri e dirigenti, ho
cercato di farla rivivere in me curando due edizioni
dell’antologia Poesia del Dissenso.
Fortini,
si sa, nelle sue provocazioni,
verbali e scritte, porte in forma poetica o discorsiva, saggistica,
tendeva a forme di radicalismo che non di rado scatenavano conflitti
ideologici, animosità ed inimicizie con i suoi
interlocutori, come accadde nella nota polemica con Pier Paolo
Pasolini. Spesso ferito dagli esiti i tali scontri, chiedeva ai suoi
versi di rendere giustizia al loro fine ultimo, che era quello di
conferire senso alle contraddizioni, stabilire un dialogo: “A
loro chiedo aiuto perché siano visibili/ contraddizioni e
identità fra noi/ Se un senso esiste, è
questo.” (Franco Fortini, L’ospite ingrato,
1966). Si trovò a dovere giustificare pubblicamente le
intenzioni celate dietro questo suo atteggiamento provocatorio e
polemico, che era sostanzialmente la funzione politica a cui allude
Mengaldo, di cui per altro Fortini non riteneva di dover chiedere
venia:
“M’auguro naturalmente che alcune di
quelle pagine possano essere intese anche per quel che dicono,
lì, punto e basta. Ma più convinto sarei se tra i
versi, gli pseudo versi e le prose, chi legge non avvertisse la
coerenza di una persona, che non conta niente, ma almeno in traccia
riconoscesse le contraddizioni d’una età e che per
lui contassero.” (Franco Fortini, L’ospite
ingrato,
1966).
Fortini, vale ricordarlo, da vero comunista
quale mai era stato riconosciuto d’essere, intendeva che la
nazione vivesse il presente in nome di una volontà
riformatrice e progressista che non indietreggiasse dinanzi alle
antinomie della ragione, e che, anzi, sapesse esporne le fratture e
farsene carico. E dunque mostrava continuamente di avere
profonda coscienza di questo tempo scisso, il quale, per diffuso
disorientamento e disordine epocale, necessitava presupposti e
procedimenti rigorosi, formalmente controllati. Per questa ragione, il
tema della contraddizione emerge ed è, in ogni tipo di
scrittura di Fortini, motivo intrinsecamente politico: non
l’esito di una rinuncia all’impegno, ma la protesta
di un intellettuale incessantemente focalizzato sulla storia e sulla
realtà e su come riformarla.
[12 settembre 2008]
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