home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Andrea Inglese
1.
La trasformazione che, in quanto scrittore,
mi riguarda di più, è quella che ha subordinato
in modo prepotente ogni forma di attività culturale alla
logica economica del profitto. La cultura ha perso sempre di
più quella relativa autonomia, che manteneva nei confronti
delle pure logiche di mercato. La mercificazione della cultura non
è certo un fatto degli ultimi trent’anni, ma zone
dell’attività intellettuale e artistica avevano in
precedenza mantenuto un’attitudine autocritica, denunciando
in vario modo questa tendenza generale e mostrando i limiti della
pretesa autonomia del campo culturale nei confronti di quello
economico. Questa attitudine faceva sì che la cultura non
fosse solo compiaciuta celebrazione dei ceti privilegiati e della loro
visione sofisticata del mondo, ma anche espressione di
un’esigenza di trasformazioni materiali e spirituali
radicali, tali da prefigurare una società più
felice e più giusta.
La compiuta subordinazione dell’attività culturale
a quella economica ha vanificato anche quanto persisteva di pensiero
critico presso scrittori, intellettuali e artisti. E ciò
è avvenuto nella forma dello spettacolo.
Su questo punto, nessuna analisi ha potuto finora modificare nella
sostanza quella operata da Guy Debord a partire dal 1967. Oggi nulla
esiste nell’intelletto o nei sensi, che non sia
già anche nel medium, sotto forma di
prodotto a larga diffusione. Oggi nulla è pensato e sentito,
per scandaloso che sia, se non ha già un suo pubblico. (La cosa
dev’essere prima nella mente del pubblico,
affinché possa essere anche in quella
dell’autore.) I nuovi arrivismi di ogni forma e colore,
inclusi quelli a tinte “situazioniste”, che tanto
oggi vengono deprecati nel mondo letterario, non manifestano altro che
la verità del campo: non è il successo personale
la meta ultima, il successo è la sola forma
d’esistenza che un prodotto culturale (artistico o
letterario) può avere. Non ne esistono altre. Al di fuori di
questa non c’è l’insuccesso, la
marginalità, il dilettantismo, la bohème, la
clandestinità. Non esistono margini: ogni differenza
può infatti essere immediatamente investita dallo spettacolo
e ottenere una sua funzione.
Uno dei segni della definitiva perdita d’autonomia della
cultura si è avuto con la celebrazione del presunto
passaggio da una cultura elitaria, per pochi ricchi, ad una cultura
democratica, per tutti. In Italia, sono state le televisioni private di
Silvio Berlusconi ad inaugurare questa nuova era. Tale passaggio si
è avvalso di un aspetto della tradizione del pensiero
critico, per togliere ogni legittimità morale a quanto,
dell’espressione umana, non possa essere ridotto a merce, a
prodotto in grado di essere immediatamente diffuso. Da allora la
diffidenza e lo scetticismo dei ceti popolari nei confronti di tutto
ciò che risentisse di un’elaborazione
intellettuale sofisticata si è mutata in aggressiva
rivendicazione della povertà di strumenti e della
ristrettezza di prospettive, come valore democratico indiscutibile.
Ciò ha ridato, di conseguenza, legittimità a
tutte le nuove forme di elitarismo culturale, di destra come di
sinistra, che non fanno altro che prendere posizione su parcelle di
mercato culturale ridotte, ma ancora in grado di godere di un
plusvalore simbolico.
In un tale contesto, ciò che uno scrivente versi percepisce
è la sempre maggiore irrilevanza della
campo culturale nel suo insieme, per il destino della
società e delle persone che ci vivono. Quello che viene a
mancare è l’idea stessa che la scrittura e la
lettura siano
esperienze formative e trasformative, capaci di
agire su di noi, di modificare la nostra visione della
realtà, di esplorare aspetti dell’umano non
funzionali alla società esistente. Di fronte a questa
eventualità, colui che scrive senza preoccuparsi della
possibilità che il suo prodotto abbia un pubblico, colui che
scrive per realizzare innanzitutto l’avventura
che la scrittura può essere, si percepisce oggi come una
sorta di esperimento vivente. Questa condizione
è un’ulteriore regressione rispetto a quella,
tante volte ribadita in questi anni, dell’intellettuale o
scrittore come
testimone. Il testimone presuppone, almeno, che un ordine di
valori esista da qualche parte, affinché la sua
testimonianza possa essere compresa e valutata fino in fondo. Il
testimone presuppone che un ordine di valori persista in forma
minoritaria e che possa trasmettersi al futuro. Oggi la situazione mi
sembra ancora più difficile e incerta: il poeta in
particolare diventa testimone solo di se stesso, della sua
capacità di dialogare ancora con i morti (la letteratura del
passato), del suo malinteso fecondo con il linguaggio, della sua
capacità di esistere diversamente che come merce. Lo
scrittore come esperimento vivente deve affrontare il rischio del
solipsismo. Per sfuggire alla menzogna generalizzata, bisogna poter
resistere ad ogni evidenza condivisa.
Questo implica un lavoro assiduo e in solitudine, a partire dalle
modalità più ordinarie di percezione. Lo
scrittore come esperimento è colui che può forse
parlare a nome d’altri, solo parlando a partire da
sé, solo interrogando l’esistenza di un
possibile ordine di valori che non sia quello dello spettacolo
– ossia del profitto. E d’altra parte, questa
condizione apre un campo sterminato per la scrittura poetica: Perec lo
chiamava l’infraordinario, noi possiamo
concepirlo come tutto quanto esiste al di sotto della soglia dello
spettacolo, al di sotto di quanto è mediaticamente
consistente, significativo. Tutta la strada che dall’esilio
del reale ci riconduce ad esso.
2. Non mi pare che la dimensione autoriflessiva della scrittura poetica sia oggi più diffusa che trent’anni fa. Se davvero lo fosse, io interpreterei questo aspetto come parte di un fenomeno più ampio: il manierismo che ha preso piede a partire dagli anni Novanta. Manierismo e neometricismo, e forse anche un’enfasi sulla componente metapoetica, sono per me reazioni ad una perdita di prestigio del genere lirico, e si configurano come reazione corporativa. Di fronte ad un indebolimento delle gerarchie di valore – eclissi delle collane di riferimento, moltiplicazione degli scriventi versi, ecc. –, il poeta reagisce mettendo l’accento sugli aspetti tecnici del proprio mestiere: si professionalizza.
3.
Il
termine “formalizzazione” come inteso da Fortini
rinvia per me alla questione della figurazione. La
conquista di una forma è sempre realizzazione di una figura
di mondo. Ciò significa che ogni singolo verso
deve poter sostenere come proprio sfondo la totalità del
mondo, o almeno una tensione ad essa. Il verso, come meccanismo che
governa il fondamentale scarto tra metro e sintassi, tra ritmo e senso,
deve rendere palpabile il diramarsi simultaneo delle versioni del
mondo. Il verso e più in generale l’organizzazione
ritmica del componimento – anche quando si tratti di un brano
di prosa – è la traccia
dell’enunciazione vivente, del soggetto che nella sua
fragilità esistenziale e conoscitiva apre un mondo. Ma lo
specifico della forma poetica sta nel fatto che al di fuori
dell’enunciazione – prima e dopo di essa
– nulla è veramente garantito, né il
soggetto che parla né il mondo di cui si parla. Ogni
garanzia esiste nella presa di parola non garantita, in questo rischio
di tenere assieme soggetto e mondo, attraverso un discorso non di
completezza (lineare, narrativo) ma d’intensità
(puntuale, provvisorio). Ogni libro di poesia è una convocazione
di un soggetto e di un mondo, di un certo soggetto e di un certo mondo.
L’idea stessa di convocazione implica un’assunzione
di responsabilità etico-politica. Di questo soggetto-mondo
solo certi rilievi emergeranno, ed essi acquistano un peso decisivo
proprio in rapporto a tutto ciò che nel componimento non
è reso visibile, a tutto ciò che è
taciuto. La forma è l’organizzazione di una
figura, e la figura è uno spiraglio. Ciò che
decido di far vedere si rapporta, ogni volta, a tutto ciò
che non faccio vedere: il poeta si muove di continuo tra il visibile e
l’invisibile sociale, così come tra il
significativo e l’insignificante.
Il problema della forma si pone per me, innanzitutto, a livello di
serie di testi (di sezione o di intero libro), e non a livello di
singolo componimento. Per questo motivo sono ben poco interessato
all’utilizzo delle forme chiuse. Non si tratta di vivificare
o meno forme ereditate, si tratta di sperimentare una nuova forma
ogniqualvolta si esplora un diverso aspetto del mondo. E qui
è implicito l’uso del patrimonio letterario
ereditato, ma anche il riuso di una quantità di discorsi
extraletterari.
4. In tempi recenti, sono intervenuto diverse volte sul significato che per me e per altri poeti a me contemporanei ha l’esperienza della traduzione. In particolar modo, su invito di Paolo Febbraro, ho dedicato al rapporto mio e di altri con la poesia francese contemporanea un saggio approfondito intitolato Passi nella poesia francese contemporanea. Resoconto di un attraversamento, saggio che apparirà questo autunno nell’“Annuario di poesia”, curato da Febbraro e Manacorda. Qui mi limiterò soltanto a definire ciò che io chiamo “attraversamento” e che costituisce per me l’esperienza chiave della traduzione. Un attraversamento è legato ad una carenza originaria, ed è un movimento che cerca altrove quello che non riesce a trovare a casa propria. Esso si definisce, innanzitutto, in termini di critica della propria cultura, o più precisante d’insoddisfazione nei confronti delle proprie istituzioni poetiche. Questo vuole la logica dell’attraversamento: essa prevede sempre un “rimbalzo”, un possibile ritorno. Questo avviene in ultima analisi nel lavoro di traduzione, ma non solo. Lettura di testi in lingua originale, traduzioni dal francese all’italiano, riflessione sugli scritti teorici, tutti questi momenti agiscono poi sulla nostra consapevolezza di autori, di scrittori in lingua italiana.
5.
Continuo
a considerare l’opera poetica e intellettuale di Fortini un
punto di riferimento fondamentale per il mio lavoro. Penso a Questo
muro e a Paesaggio con serpente come due
tra i maggiori libri di poesia del nostro Novecento. Quanto alla
“funzione Fortini”, essa solleva oggi diverse
questioni. Innanzitutto, la considerazione di una “integrale
politicità della poesia” ci può
immunizzare dal rischio di una poesia “civile”, di
cui tanto si reclama il ritorno. E’ probabile che tanta
nostalgia di poesia civile sia legata al tasso
d’inciviltà che regna nel nostro paese, tanto nei
palazzi come nelle strade. Ma non si vede bene quale potrebbe essere un
nucleo di valori condivisi dall’intera società
italiana, nucleo che farebbe da sfondo al dettato del poeta civile. Una
poesia cattolica, in Italia, per assurdo che possa sembrare,
può essere certa di riscuotere più consenso, e
trovare elementi ideologici di maggiore condivisione, rispetto a una
poesia civile, che esalti valori popolari o valori repubblicani. Ma una
poesia politica non presuppone nessuna condivisione,
semmai esalta la sua dimensione
di parte. E questa dimensione rimane per me legata alla
scrittura poetica: dal momento che io scrivo, escludendo come molla
fondamentale del mio agire il profitto, sono già parte di
una minoranza, utilizzo un patrimonio culturale trasmesso nella forma
incerta del dono. Ma questo scarto apparentemente irrilevante si pone
come prefigurazione di uno scarto più ampio e di carattere
politico: quello della circolazione del sapere e
dell’espressione artistica come forma gratuita e vitale, non
governabile in termini di profitto economico o di rendita
istituzionale.
Detto questo, per qualcuno nato nel 1967 non è probabilmente
possibile immaginare una “politicità della
poesia”, per il semplice fatto che è scomparsa
l’esperienza che raccoglieva e promuoveva
quella politicità. A partire dagli anni Ottanta non
c’è più stata esperienza politica nei
termini in cui poteva averla vissuta Fortini. Al suo posto abbiamo
avuto esperienze di militanza eclettiche, scostanti, più o
meno estranee alla vita di partito, o poco integrate in esse. Neppure
l’esperienza da Seattle a Genova, nel movimento
altermondialista, ha potuto sedimentare forme di agire politico
consistenti. Di conseguenza, la stessa “funzione
Fortini” è venuta storicamente meno.
A questo punto, però, andrebbe modificata l’ottica
della questione. Un teorico della letteratura, il francese Jacques
Rancière, può offrirci indicazioni in questo
senso. Mi riferisco in particolare ad un suo saggio recente: Politique
de la littérature (2007). Vi è un
terreno “impolitico” nelle nostre vite, che
può divenire occasione di una “politica”
propriamente letteraria. Se la parola politica è quella che
svela pubblicamente un nuovo campo di oggetti, e con esso una nuova
dimensione della soggettività, la parola poetica
è quella che viaggia ai margini del campo politico, laddove
si gioca invece una disarticolazione tra oggetti e soggetti. La parola
politica istituisce un noi e rivendica la
capacità di questo soggetto collettivo di deliberare intorno
a degli oggetti, che erano in precedenza sottratti alla sua
deliberazione. La parola poetica coglie invece le linee di divergenza
presenti all’interno del noi, e mostra come esista un
sottrarsi degli oggetti alla presa e alla discussione collettiva, che
non ha le sue ragioni in conflitti per il potere o
l’egemonia. Esiste un’opacità degli
oggetti, che resiste ad ogni sforzo di appropriazione simbolica in
termini politici: un’insensatezza del mondo che difficilmente
può essere presa in conto dalla parola politica. Anche per
la politica in senso proprio non è irrilevante la
“politica della letteratura”. Nei confronti delle
più grandi promesse di emancipazione dell’essere
umano, formulate in termini politici, la parola poetica
ricorderà i vuoti, le lacune, il fondo tragico della vita,
contro ogni chimera di un’umanità completamente
risanata dal dolore, dalla morte, dall’insensatezza.
Alla luce di quanto detto, io interpreto l’integrale
politicità della poesia come un rapporto costante tra la
“politica della letteratura” e la politica
propriamente detta, o come il costante cortocircuito che si
può realizzare tra il terreno impolitico delle nostre vite e
quello politico. Sciogliere questo rapporto sarebbe impossibile. In
tale caso prevarrebbe infatti una concezione semplicemente apolitica
della scrittura letteraria.
[17 agosto 2008]
home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II