home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Gabriele Frasca
1. Mi è capitato di soffermarmi molto sui mutamenti economici, politici e sociali degli ultimi trent’anni, in specie in Italia (ma non solo). Praticamente l’intera mia produzione narrativa non parla d’altro. Gli unici artefatti che non entrano in risonanza col loro sociale, sono quelli che suonano a vuoto.
2. La poesia, in quanto opera vocale, riflette sull’atto della scrittura quando avverte di non identificarsi con esso (e dunque sempre, se per davvero riflette su di sé). Poesia e scrittura sono due media diversi, addirittura in competizione in certe fasi della cultura. Il fatto che si siano stratificati, come avviene sempre coi media (nessun medium scalza l’altro, piuttosto l’ingloba), non vuol dire che talvolta non trapeli lo scollamento. E ogni volta che avviene questo disimpasto, s’intravede la malta ideologica; che poi è il modo consueto con cui l’arte, in quanto rimessa in stato, fa «oh oooh» ai sonnambuli della messa in stato. Non c’è oggetto d’arte che non confessi, e riproduca, innanzi tutto quello che Joyce chiamava «the original sinse».
3. La questione della forma è seria, e va ben al di là di un presunto scontro fra gli ecumenici dello «scrivo ciò che dal mio cuore escresce» e i falsari dell’antica sonetteria del corso. Sono anni in verità che non mi raccapezzo, anni che non riesco a capire come possano le macchine più generose nel sommuoverci apparire ai più (artatamente) distratti solo ordigni racchiusi nella loro ambigua perfezione; o come le strutture versali che mettono in questione, e in movimento, il senso, se mai riconducendolo alla pastosità melodica che consente di scambiarcelo, siano il più delle volte ricondotte al diletto dei giochi formali, se non al delibato delitto dello stile che da dolce si rende a fior di labbra aspro. Eppure questi congegni formali che sono la necessaria gabbia mnemotecnica della poesia, cospirano per niente di meno che un supplemento di vita, e non sanno che farsene di quell’effimero compiacimento intellettuale che tanta poesia richiede, con il suo corredo di elitari «ci siamo capiti», come sola possibile regola d’innesto, o che guardinga offre come unico flebile contatto. Per chi, per rimanere dalle parti dell’estremo Joyce, abbia deciso di ricombinare suono e senso («and begin again to make soundsense and sensesound kin again»), il processo di verità che nella poesia (letta, detta, cantata, performata) prova a mettersi di traverso rispetto all’orchestrazione degli enunciati di un’epoca, per cui ve ne sarebbero di visibili e di nascosti, finisce presto col configurarsi come una «forma d’avversione» rispetto al fluire del senso comune. Un enunciato, diceva Gilles Deleuze commentando Foucault, «rimane nascosto se non riusciamo a elevarci sino alle sue condizioni di estrazione». Quando però un’avversione prende forma e fa fluire via i discorsi di copertura lasciando, come una piccola diga, a secco l’enunciato che si presume nascosto, allora è facile scoprire come in ogni epoca tutto, anche ciò che dovrebbe essere occultato, sia detto con estrema chiarezza. Una forma d’avversione mette in ombra ciò che, sul fondo volutamente oscuro in cui scorre il senso comune, si staglia di una chiarezza abbacinante. La questione della forma, come ogni questione dell’arte, è una decisione politica.
4. Se prendiamo per buone la parole di Fortini, e perché non farlo, non si fa altro che tradurre, non dico nella poesia, ma nella vita.
5. Sarebbe più divertente parlare di una «funzione Mengaldo», visto che, gira che ti rigira, sempre dalle parti dell’università, o del «discorso dell’università» (avrebbe detto Lacan, diffidandone), si resta. Quanta nostalgia per il passato, eh? Quel passato che gli studi rendono sempre all’ordine del giorno. Le vecchie lotte, le vecchie speranze, riviverle una volta ancora come fossero ora. Fin quando restano i testimoni del tempo, tutto questo funziona. Che cosa mai ci allontana dall’evento, se ancora abbiamo qualche fortunato che lo visse in tutta la sua intensità che può parlarcene? Tecnicamente si chiama successione apostolica, ed è un bel casino, perché procede creando un presunto paesaggio permanente atemporale in cui riconoscersi, a scapito ovviamente di quello che ci avviene intorno. Rimanere fedeli a un evento è il modo migliore per impedire a ogni altro evento di manifestarsi. Intendiamoci: sull’«integrale politicità della poesia» non posso che essere d’accordo. Ma che essa occorra a servir messa nelle piccole comunità accademiche (dove la politica c’è, e persino «integrale», ma è tutt’altra cosa), beh mi convince meno. Come tutti gli stati maggiori secondo quel mattacchione di McLuhan, anche quello accademico è sempre pronto a vincere la guerra... scorsa (e persa).
[12 giugno 2008]
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