home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Paolo Febbraro
1. Nessuna delle trasformazioni della realtà contemporanea è decisiva. Ognuna di esse, comunque, ha effetto sul mio lavoro. Se a distanza di un giorno o di un anno, scrivo due poesie diverse, è segno che il mondo (e me in esso) si è trasformato. Ma essendo un dato costante del mondo, la trasformazione non si trasforma mai.
2. Si scrivono poesie anche sui fatti propri. Scrivere poesie è a sua volta uno di questi fatti, uno dei più curiosi, un bizzarro, serissimo miracolo di “idiozia”. È normale che si provi il desiderio di scrivere poesie su questo fatto così strano e necessario. È come quando un pittore dipinge una natura morta: riflette sulla pittura stessa, su ciò che gli capita di fare, sugli strumenti con cui lo fa. Se ciò da circa centocinquant’anni avviene più spesso, è perché rispetto a prima scrivere poesie sembra un’azione più da spiegare e spiegarsi.
3. La frase citata di Fortini fa capire la differenza fra l’espressione (il grido, il saluto, il pianto, il sesso) e la forma, ovvero l’arte, trasmessa, voluta, inseguita, infine consapevole. L’arte è etico-politica in sé perché rappresenta la capacità di invenzione del mondo (non parlo di “realtà”, perché il mondo non è solo reale, è anche fantasticato, sognato, rinnegato, cancellato, riemerso ecc.) e dunque una sua possibile traduzione in termini, una sua riflessione soggettivamente “spostata”. L’arte infatti è oggettiva e personale: oggettiva perché parla di ciò che c’è (a tutti i livelli di “realtà”) attraverso suoni o immagini condivise che precedono e impregnano l’individuo, personale perché educa all’hic et nunc della sua creazione, al suo essere storica e mutevole, angolare. Per questo suo eterno mutare, l’arte (vedi la prima risposta) non cambia mai. Ma chiunque la pratica e la diffonde, se ne prende la responsabilità pubblica e politica
4. Ciò che dice Fortini è valido anche per me. È vero infatti che per quanto possiamo intuire nelle nostre poesie una compiutezza dialogante col passato, è quasi impossibile che esse – nell’arco di dieci o quarant’anni – assumano gli echi e i pesi e gli alleggerimenti (delle parti caduche) di un’opera classica. Con la traduzione consentiamo alla parola altrui e alla sua storia umana di attraversarci e maturarci, o anche di rimandarci a una nostra più ricca infanzia.Sulla “tradizione”: io la penso essenzialmente al futuro, tradizione è continuità nella trasformazione, ri-esistenza di pensieri e parole, amoroso conflitto vitale fra essere già compiuti e esseri non ancora compiuti, che si continuano anche aspramente, senza idilli. Il mio rapporto con la poesia contemporanea straniera è piacevole, e dunque come nell’uso dei piaceri vede alternarsi periodi di intensità e di pigrizia malinconica. I poeti non italiani mi danno immagini e stimoli anche quando i poeti miei concittadini mi deludono. Così, se i francesi di oggi mi sembrano in buona parte tardoermetici e impaludati nella falsa frattura fra significante e significato, il gran mare della poesia anglosassone mi chiama spesso a qualche, appunto “piacevole”, navigazione. Più sporadiche sono le letture da altre lingue, ma occasionalmente importanti. E sto cominciando a tradurre io stesso. Ma in generale, essendo la poesia una musica verbale pensante, è straordinario sintonizzarsi su un altro modo di attivarla, su un’altra coerenza sonora e memoriale, su un altro pentagramma. È frustrante e creativo.
5. Più che ai determinati contenuti politici e sociali, mi sento vicino all’uso non conciliante della forma. Attualmente, in Italia va molto in voga una poesia soggettivistica e narrativa, ombelicale, alla ricerca di una parola “innocente”. Nulla di più distante da me. Anche la mia lettura di Saba, Penna e Caproni è del tutto diversa. È come se fosse trafilata da Montale e Fortini, e dal Sereni degli Strumenti. Su un altro piano: affermare – come ho fatto sopra – che nulla si trasforma davvero è anche una dura protesta contro l’idolatria del “nuovo” imposta dal capitalismo. Assomiglia al fatalismo “indiano”, o gattopardesco, ma è anche il rifiuto di un atteggiamento mentale che si riconosce soltanto in una serie di “rivoluzioni” (industriali: la prima, la seconda, la terza…), di superamenti e fratture, di continui avanzamenti e di cattiva infinità. La quale maschera tecnologicamente il crescente esproprio della nostra malandata, entropica e disturbante, ma anche affettuosa e arcaica, fissità interiore.
[4 giugno 2008]
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