home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Roberto Deidier
1 Credo che le trasformazioni più incisive riguardino l’universo della comunicazione, e al suo interno il sistema della letteratura. I modi di trasmissione del sapere letterario, ma anche la sua stessa produzione ne hanno risentito sensibilmente, spesso influenzando o comunque orientando la ricerca, sia in positivo, come proposta, sia in negativo, come rifiuto che ha creato delle sacche di resistenza (leggo in quest’ottica la poesia dialettale, per esempio, anche se qui il discorso si complica e il neodialetto si mostra come una pericolosa arma a doppio taglio). È vero che la poesia esula almeno in parte da questo discorso, che investe per lo più la narrativa per ovvie ragioni di mercato. Oggi si assiste più che in passato ala creazione di scritture da laboratorio, la cui sostanza linguistica appare stereotipata se non astratta. Gli editori pubblicano romanzi in vitro marginalizzando la ricerca poetica, che ancora mantiene dei margini di necessità e autenticità, insomma di vitalità. È inevitabile che queste dinamiche abbiano una ricaduta sul lavoro dei poeti, che spesso, però, reagiscono chiudendosi in una sorta di orgoglio arcadico se non sacerdotale, rischiando così di perdere ogni contatto con il presente; che resta, anzitutto, il presente della loro lingua. Nel mio lavoro cerco sempre di lasciare aperta la finestra. Le voci, i suoni, le immagini del mondo esterno si infittiscono in un dialogo serrato con ciò che solo approssimativamente si potrebbe definire l’”interno” della stanza del poeta. I confini devono restare necessariamente labili e mutevoli. È però un sintomo pericoloso che la facilità di comunicazione offerta dai nuovi supporti come internet generi una confusione totale sul valore della poesia, di fatto dando accesso a chiunque abbia due versi nel cassetto: è una forma di falsa democrazia, che impoverisce la ricerca e non contribuisce a creare nuovi lettori, nuovi fruitori. Si ha una riprova di questo nel proliferare di antologie spesso inutili, che riflettono - più che un possibile orientamento della poesia contemporanea – la disperata ricerca di identità del critico che le ha allestite. Anche l’ampliarsi dell’orizzonte del sapere letterario, persino in ambito accademico (oggi s’insegna la letteratura nei corsi di comunicazione, per l’appunto, e anche di architettura) non deve comunque far perdere di vista quelle che sono le specificità della scrittura, specie di quella poetica, che non può essere confusa con lo slogan pubblicitario o con la canzone d’autore. Ogni pulsione, reale e non virtuale, può essere accolta a far parte dell’universo espressivo della poesia e questo, rispetto a un passato di poetiche normative e di manifesti, mi appare come una grande conquista, ma a patto di non svilire le potenzialità stesse della poesia, che restano altissime per chiunque voglia e sappia intenderle.
2 Progettualità e consapevolezza non sempre sono la stessa cosa, ed è naturale che sia così. Intendo dire che se un progetto è destinato ad essere sconfessato dal farsi della poesia, la consapevolezza di quello che si sta facendo è un altro discorso. Credo che ogni poeta si misuri con questo problema, specie al’inizio del suo percorso. Per questo, per parlare del mio lavoro, ho scritto una sequenza di poesie dal titolo “L’uccello d’acqua” nel mio primo libro. Era in realtà, la necessità di chiarire che cosa volevo dalla mia poesia e quella mi era parsa un’immagine eloquente, da sviluppare in forma allegorica. Si tratta, però, di una tendenza che ho riscontrato più nei poeti che hanno già varcato la soglia dei cinquanta, come Fiori. Nella mia generazione questo versante metapoetico sembra meno frequentato, anche se nel mio lavoro ha avuto una funzione fondamentale. Se mi perdo, come è dato perdersi a ogni poeta, posso sempre ripartire da lì. Poesia e poetica tornano a camminare in parallelo senza che la seconda influenzi o imprigioni la prima.
3 Credo che con “progetto” Fortini abbia cercato di identificare qualcosa di ben più ampio che una semplice opzione costruttiva. Sta a testimoniarlo la presenza dello “sforzo”, infatti. Ogni operazione formalizzante è già di per sé ricerca e conquista di significati possibili, scavo nella lingua, nell’infinità varietà delle sue catene associative, nella modulazione della sua retorica (nel senso più nobile) e dei suoi ritmi. Ogni atto di poesia, sembra suggerire Fortini, è dunque di per sé un atto civile, una necessità sociale, una pietra nell’edificio dell’identità individuale e collettiva. E dunque, come suggeriva e ribadiva anche Calvino, di fronte all’incedere, alle urgenze, al’impellenza della Storia, non possono darsi soluzioni né espressive né etiche che non passino attraverso la “fondazione di uno stile”. Peccato che questo termine, che identifica ben più che un atteggiamento lessicale, sia stato spesso frainteso. La conquista di uno stile: è qui che ritrovo pienamente le indicazioni di Fortini, ovvero “organizzazione, volontà, ascesi, selezione”. Al di fuori di questa urgenza restano sono gli esercizi, i calligrammi, i vari divertimenti con cui la lingua si nasconde e spesso nasconde il vuoto semantico, il nulla da dire.
4 Il nesso tradizione-traduzione è imprescindibile, e questo si conferma sempre più guardando al futuro delle letterature, che si trovano in un circuito comunicativo mai registrato in passato con tale efficacia. Ma questo è ancora un dato esterno. È innegabile che un’opera di traduzione, in quanto movimento di due lingue una verso l’altra, rappresenti per il poeta una straordinaria occasione non solo di messa in prova del proprio linguaggio, ma anche di arricchimento, di scommessa, di ampliamento euristico. Non sono un traduttore di professione, e i miei sondaggi in questo senso hanno riguardato perlopiù i poeti di lingua inglese, da Stevenson alla generazione di Auden, fino a Larkin. Ogni tanto mi provo con i classici latini, è uno straordinario esercizio di depurazione linguistica, ma anche i poeti inglesi non scherzano, da questo punto di vista.
5 Ricorro a un esempio per far comprendere meglio a cosa penso quando ho in mente una funzione “politica” o civile della poesia, insomma una “funzione Fortini”, anche se il mio discorso prescinde dal reiterarsi di certe distinzioni come forma e contenuto. Ogni volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce, portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé cospirativo, splendidamente inattuale.
Voglio dire, insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto sconfessato.
Non posso credere dunque a un’etichetta di genere come quella di poesia politica o civile perché ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della coazione alla solitudine, è già una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle mura, all’alba.
[26 giugno 2008]
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