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Marco Berisso
1. Come molti della mia generazione ho vissuto buona parte della mia esistenza sotto l’influenza (e verificandone l’evoluzione) della televisione: e l’influsso del medium televisivo sul lavoro letterario mio come di molti altri è fuori dubbio, magari come obbiettivo polemico con cui, però, occorre fare i conti. I mutamenti di tipo politico dei decenni passati e la miseria del presente mi provocano a tratti una certa quantità di bile: da tempo medito di espettorarla su carta, ma poi non ne faccio niente, e credo che sia una fortuna.
2. Non penso che una componente metapoetica (nel senso di riflessione sul proprio fare poesia) sia peculiarità degli ultimi decenni più di quanto lo sia stata per Dante o per Petrarca. Non penso nemmeno sia stata una componente particolarmente forte nel mio fare poesia. Forse lo è stata, paradossalmente, di più nel mio romanzo, anche se nessuno sembrava essersene accorto.
3. La progettualità nel lavoro letterario è inevitabile, va aldilà del libro, che può anche non esserci ancora o non esserci mai, riguarda il fare letterario in quanto tale, la sua consapevolezza (quindi il suo essere). Nel mio caso, poi, credo sia sempre stata particolarmente evidente quando era legata alla scelta di determinate forme (appunto) metriche recuperate. Credo che un processo di progettualità sia comunque imprescindibile per qualunque disciplina artistica (e forse neppure solo artistica: una partita con un wargame implica una forte dose di «organizzazione», «volontà», «selezione» e forse persino «ascesi»).
4. Leggo poco o nulla della poesia contemporanea in lingua straniera, per assenza di competenze linguistiche specifiche e carenza di informazione. In passato sentivo tutto questo come una vera e propria menomazione, ormai mi ci sono rassegnato. Date queste premesse, con le traduzioni ho un rapporto di inevitabile sudditanza: nei pochi casi in cui ho qualche strumento per capire lo stacco e la distanza dall’originale (ad esempio con alcuni trovatori), ho sempre potuto verificare l’assoluta incapacità di superare lo stacco che mi/ci divide da quei testi. E l’ho trovato l’elemento più vitale di entrambe le pratiche di scrittura coinvolte (quella del trovatore e quella del suo traduttore).
5. Non so se esista o sia esistita una “funzione Fortini” (posso persino candidamente confessare, in conclusione, di non aver mai amato Fortini). Credo però che «rappresentare determinati contenuti politici e sociali» abbia poco a che fare con l’eventuale politicità della poesia. Quei contenuti, di norma, sono rappresentati molto meglio, come ci si può ben immaginare, dal discorso politico in senso stretto. Semmai è fare letteratura che assume in sé, paradossalmente, un valore politico in quanto tale. Ma è un fatto non nuovo, contingente, di non so quanta durata.
[12 giugno 2008]
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