home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II
Vincenzo Bagnoli
1. Descrivere in poche righe le trasformazioni decisive della contemporaneità sarebbe compito arduo persino per uno storico professionista; posso solo osservare che i mutati assetti delle società e delle economie, come pure le linee di sviluppo storiche attraverso il cosiddetto postmoderno e oltre hanno prodotto enormi mutamenti nella sfera dell'immaginario, che è poi quella con cui si trova a confrontarsi più direttamente chi scrive (senza con ciò voler risollevare la vexata questio del dualismo fra struttura e sovrastruttura: si potrebbe dire anzi che una delle trasformazioni più notevoli riguarda proprio il rapporto fra queste, mutatosi in una sorta di endiadi non priva di ambiguità, per altro). Queste trasformazioni hanno avuto quindi un effetto enorme sulla mia scrittura, direi decisivo; la mia prima raccolta di poesie (33 giri stereo LP) voleva essere nel suo insieme una specie di “epica” sugli ultimi venti-venticinque anni del Novecento, anzi una rilettura dell'intero secolo alla luce delle trasformazioni avvenute in quel periodo. Come ho spiegato varie volte, in interviste e commenti sul libro, la configurazione mobile e al tempo stesso onnivora della “città musicale” che costituisce l'architettura del libro, snodandosi attraverso piazze-title track e vie secondarie-sottofondi, voleva essere un modo per rappresentare il nostro tempo-spazio multimediale e anzi intermediale, fatto di sovrapposizioni e stratificazioni, nel quale i complessi riverberi che attraversano le singole “storie” individuali rendono queste ultime significative alla pari della “Storia” nel descrivere la nostra realtà: insomma la rappresentazione di una memoria collettiva più vasta e complessa raccontata attraverso un diverso cronotopo. Il punto di vista adottato è quello della “prima generazione cresciuta con la TV in casa, maturata attraverso un'”educazione elettronica” fino a divenire capace di figurarsi il mondo come un ipertesto, all'interno di una realtà sociopolitica che si è nel frattempo evoluta plasmando questa semiosfera e al tempo venendo plasmata da essa, in una strettissima interazione reciproca. Ecco, direi che se trent'anni fa Roversi poteva invitare dai “Quaderni piacentini” la poesia a compiere passi in una nuova direzione “sedendosi al tavolo” con gli altri linguaggi e dialogando con essi, mi pare che oggi la poesia possa essere fatta solo alle condizioni di un dialogo serrato di questo tipo: e guardando al panorama dei miei coetanei e dei poeti più giovani di me devo riconoscere che è così che viene fatta.
2. L'incidenza della componente metapoetica è sicuramente cambiata e credo sia destinata a cambiare sempre di più; non potrà certo svanire, perché in una certa misura tale elemento è presente da sempre nella poesia. Tuttavia mi pare che negli ultimi anni nessuno dei più giovani pensi più seriamente a costruire un'intera raccolta (e forse nemmeno una poesia) unicamente su questo aspetto: si sente maggiormente l'urgenza di una poesia che recuperi una “qualità di racconto”. Poi l'inclinazione autoriflessiva della scrittura può certo entrare nella costruzione del testo, ma solo come uno dei diversi accenti che vanno a comporne il carattere assolutamente sempre più polifonico (anche a costo dell'eclettismo).
3. In queste parole di Fortini (almeno così, estrapolate dal loro contesto), chiunque scriva oggi dovrebbe potersi riconoscere, più o meno; nel senso che l'aspetto progettuale è divenuto secondo me sempre più importante nella costruzione di testi letterari, data la necessaria densità semantica che la loro complessità esige. E il progetto, la selezione, l'organizzazione sono importanti proprio perché evitano che il testo finisca per essere una mimesi della complessità, una sua riproduzione e quindi una resa al caos, al rumore, alla frammentazione con cui essa si presenta ai nostri limitati mezzi conoscitivi. Il testo deve proporne un'interpretazione attraverso le sue qualità simboliche, metaforiche, metonimiche e figurali, introducendo così al proprio interno un elemento di distanza e di pensiero critico. Quelle di Fortini sono del resto parole che ricordano da vicino quanto Calvino ebbe a scrivere nel suo saggio sulla “sfida al labirinto” degli anni Sessanta e anche nelle Lezioni americane di un ventennio successive. La presenza di diverse istanze simultanee va nel senso, a mio avviso, di quel necessario eclettismo di cui dicevo sopra, e che non è resa all'indifferenziato, all'apolitico, ma al contrario presa di coscienza del mutamento e quindi atto di realismo. A mio modo di vedere, infatti, la progettualità non può certo esaurirsi nell'adesione a linee-guida precostituite, siano quelle di un manifesto, di una scuola, o dello stile di un precursore; ogni scrittore ha il compito di formarsi un proprio stile, scegliendo i principi organizzativi secondo il proprio personale parametro di giudizio sulla propria contemporaneità, e non sulla base di vincoli ideologici o estetici, né tanto meno sulla base di un proprio astratto “individualismo creativo”, sciolto da qualsiasi rapporto rispetto all'esistente: e questo compito contiene un elemento già fortemente politico. Solo la capacità di queste scelte di produrre un “discorso” che risulti comunicabile (nel senso pieno del termine, quindi nel senso di condivisibile) ai propri contemporanei sarà la misura dell'efficacia delle scelte stesse, non certo un dettame aprioristico. Altrimenti lo stile è solo di manierismo, ossia adesione a una forma già decisa da altri e in altri contesti “eterodiretta”, non autonoma.
4. Con questa idea di traduzione posso dire di concordare completamente, così come con l'idea di mantenere una tensione vitale con la tradizione: la necessità di farsi il proprio stile – di cui dicevo sopra – non implica certo slanci futuristi o l'obbligo alla tabula rasa; anzi, in nome di quel criterio eclettico è bene mantenere vive le tensioni con tutte le componenti che possono essere funzionali all'oggi della poesia, che vengano da una tradizione lontana nel tempo (per rispondere anche a un elemento della domanda precedente) o nello spazio. Il fascino di una tradizione non sta secondo me, insomma, nel suo esotismo, nel suo essere semplicemente altro rispetto al qui e ora, ma al contrario nella possibilità che essa può offrire di essere resa, partendo da un altrove spazio-temporale, funzionale al qui. Detto ciò, per me il confronto con la poesia contemporanea (più o meno) in lingua straniera è stata decisiva per superare certi limiti, certe inclinazioni centripete della poesia italiana negli anni scorsi: ossia quell'orbitare forzoso attorno a nuclei pesanti, a volte antinomici fra loro, che pareva ineludibile (avanguardia vs. Tradizione, ermetismo vs. realismo ecc.) e che, distorcendo il visibile, finiva per costringere a non pochi attardamenti nel nostro panorama. Oltretutto una buona parte dei traduttori italiani, almeno fino a qualche anno fa, ha saputo proporre ai propri lettori una lingua più viva di quanto non facessero i poeti connazionali loro contemporanei: a me, almeno, le traduzioni di Eliot fatte da Sanesi nel 1961 hanno offerto, quando ho cominciato a interessarmi alla scrittura, all'inizio degli anni Ottanta, un esempio di lingua maggiormente “praticabile” di quanto non potessero fare raccolte come Satura e Reisebilder, che pure sono di dieci anni successive.
5. Credo che la definizione di Mengaldo abbia senso, né potrebbe essere altrimenti, se collocata in un preciso contesto storico; che non è più quello dell'oggi. Quindi, per venire alla “funzione Fortini”, finché si parla di un “uso non conciliante della forma” non posso che riconoscerne l'attualità, mentre l'aspetto più prettamente contenutistico mi sembra che abbia senso solo se situato nel quadro dei poeti coevi a Fortini e dei loro lettori, delle loro aspettative. Come dicevo sopra, la cosa che qualifica maggiormente la capacità di un testo è la sua efficacia nel rivolgersi ai propri contemporanei, nel produrre un discorso che essi trovino riconoscibile e dotato di senso, il che non significa però compiacerli ed essere concilianti, né tantomento banalizzanti. In questa capacità di tradurre, attraverso un progetto rigoroso e l'uso del pensiero critico, l'irriconoscibile (l'informe, lo sconosciuto, il complesso, il nuovo, il trapassato) in riconoscibile (e comprensibile) sta tutta la forza “politica” della poesia. Credo anzi che una possibile dimensione “civile” della poesia contemporanea possa risiedere nel suo sapersi fare “classica” nel senso evocato qualche anno fa da Stefano Dal Bianco e recuperato di recente da Andrea Inglese nel parlare della poesia di Raos: classica cioè non nel senso di un adesione a modelli allogeni rispetto al nostro qui (il che sarebbe piuttosto l'orientamento del classicismo), quanto piuttosto rispetto alla capacità di essere significativa del e per il proprio presente, cercando cioè una forma dirompente e al tempo stesso assolutamente eloquente, non di nuovo nel senso (deteriore) di persuasiva, ma in quello pieno di comunicabile e condivisibile. Insomma, a mio modo di vedere il massimo della funzione “pubblica” o “ciivile” che la poesia oggi possa avere consiste nell'evitare di essere solipsismo dell'interiorità, annodata nelle proprie viscere, o virtuosismo manieristico, attorcigliata attorno a cabale esoteriche, e di sapersi invece dispiegare (per citare ancora Roberto Roversi) come “descrizione in atto”.
[12 giugno 2008]
home> scrittura/lettura> La funzione Fortini. Risposte al questionario II