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Miguel Hernández. La circostanza e il tragico
María
Ortega Máñez*
con la collaborazione di Salvatore Prinzi
In
occasione del centenario della nascita di Miguel Hernández
(Orihuela, 1910- Alicante, 1942), crediamo sia giunto il momento di
riportare in Italia la voce di questo poeta troppo spesso inascoltato,
privo della fortuna che dovrebbe corrispondere alla grandezza dei suoi
versi, all’integrità della sua persona. Proprio
per
rendere conto dell’universalità della figura di
Hernández abbiamo concepito la sua presentazione al
pubblico
italiano come la semplice narrazione della sua esperienza di vita,
accompagnata dalla traduzione di alcune poesie inedite, ma come una
riflessione più larga, incentrata sulle due categorie
filosofiche che più racchiudono la sua opera: la circostanza
e
il tragico. Con questo saggio ci proponiamo quindi di situare il poeta
spagnolo in una prospettiva interpretativa nuova, per ottenere dalla
sua luce rinnovati riflessi (n.d.a.).
La vita di un artista, a volte, è di per sé
un’opera d’arte. Valutare di quest'arte in una vita
è certamente un’ardua impresa, se si tiene conto
che la
vita è un divenire, una durata,
un’azione distesa
e proiettata nello spazio e nel tempo, in questo
spazio e questo
tempo.
D'altronde, proprio spazio e tempo sono le categorie che costituiscono
la percezione (in greco: aisthesis),
e quindi, l'estetica. Non è insomma casuale che tanto
l’arte quanto la vita siano circoscritte dalle stesse
categorie:
si tratta innanzitutto di azioni. Come già Aristotele aveva
capito, l’opera dell’artista supremo, il poeta
tragico,
consiste nel produrre azioni, il cui concatenamento compone la storia o
il mythos1.
Il proprio
del poeta è
quindi l’azione: intesa innanzitutto come oggetto che deve
essere
imitato o ri-prodotto (attraverso le metafore, infatti, il poeta porta
alla luce un tratto di realtà che riunisce diverse azioni).
Ma,
d’altro canto, con il suo fare artistico, il poeta agisce
effettivamente sul mondo, e ogni sua opera ne è espressione.
In
questo senso i capolavori sono accenni
di universalità:
in nome di una certa completezza che presentano e che perciò
rappresentano. Il testo poetico, pur essendo verosimile
(giacché
sottomesso al principio della mimesi), impone infatti una prospettiva
nuova (vale a dire: un altro ordine di cose), il più delle
volte
discordante.
Nell'opera ci
riconosciamo, ma alterati nei tratti, deformi, come
l’immagine di
noi stessi che ci restituiscono gli specchi del
«callejón
del gato»2.
Il poeta opera,
quindi:
nelle visioni della scrittura e nelle conseguenze della vita.
Tutto ciò vale a maggior ragione per la figura di Miguel
Hernández. Tutta la sua vita è stata azione sul
mondo,
attraverso la lotta
e la poesia.
Sono proprio questi due termini a poterci restituire la
globalità della sua opera:
dovremo quindi innanzitutto chiarire il senso dei suoi conflitti
esistenziali e politici, cercandolo nella sua circostanza
– concetto che prenderemo da Ortega y Gasset. In secondo
luogo,
dovremo saggiare il valore della poesia di Hernández,
ricorrendo
alla categoria filosofica del tragico,
seguendo l'elaborazione che ne fa Nietzsche. È attraverso
questa doppia declinazione che compare e si afferma l'autenticità
artistica del poeta spagnolo.
La
circostanza.
L’interpretazione di una biografia evoca lo studio delle sue circostanze.
Sono queste, nel loro divenire, a definire un percorso esistenziale:
soprattutto nel caso del poeta, individuo che lascia un’opera
come traccia del suo passaggio al mondo – lo nuestro es pasar3.
D'altronde la poesia, scriveva León Felipe, «si
appoggia
sulla biografia [...] È biografia fino a che non diventa
destino
e comincia a fare parte della grande canzone del destino
dell’uomo»4.
Se, allora, le
circostanze della vita e dell’opera sono le stesse, ed esse
determinano ciò che il poeta fa,
possiamo chiederci fino a che punto vita e opera si distinguono nella
persona del poeta. Queste, infatti, non sono forse manifestazioni di
una stessa azione?
José Ortega y Gasset ci può aiutare a
interpretare il
senso della vita di Hernández proprio perché pone
al
centro del suo sistema filosofico la nozione di circostanza. Concetto
che abbraccia la realtà nella sua immediatezza, esso indica
tutto ciò che ci circonda, ciò che è circum me,
intorno
a me: «La circostanza! Circum-stantia!
Le cose mute che stanno nel nostro intorno immediato! [...] E
camminiamo fra esse ciechi al loro confronto, con lo sguardo fisso
verso imprese remote, proiettati alla conquista di lontane
città
schematiche»5.
Ortega y Gasset
affermerà che la
circostanza caratterizza ontologicamente l’individuo, come
enunciato nella famosa tesi: «Io sono io e la mia
circostanza; se
non salvo lei, non salvo nemmeno me»6.
La circostanza è il mondo vitale nel quale è
immerso il soggetto: la realtà fisica ma anche l’intorno
culturale,
storico, sociale. L’“io” (primo io
della tesi) si
forma confrontandosi al mondo circostante
e alle sue esigenze, è questo “io” a
rendere alla
circostanza il suo carattere vitale. Il soggetto, quindi, è
inscindibile dalla sua circostanza, e inversamente questa si
costituisce solo intorno ad un soggetto, poiché il mondo
è quel che si vive come tale.
Si può dunque intuire il ruolo fondamentale nella filosofia
orteghiana della nozione di vita. Questa, infatti, è una
somma
di circostanze vissute o vivencias7.
Precisamente, la vita o realtà
radicale
(«radicale» avendo il valore
di immediato8),
è l’ambito nel quale sono presenti sia
l’io che la
circostanza. Tutto il resto è concepito come
realtà
radicata («radicata» nella vita, dentro la quale si
dà). Ma, dal momento che vivere consiste primariamente nel sapere a che cosa
attenersi,
la vita stessa esige la ragione. Una ragione
vitale,
storica, perché dà alla vita la sua direzione, il
suo
orientamento necessario prima dell’azione. E
l’azione ci
affonda di nuovo nella circostanza, di modo che non si esce mai
dall’immanenza. La circostanza quindi costituisce quella
realtà fisica e storica, contestuale, che è di
fatto
perfettamente integrata nell’opera d’arte, senza la
quale
la questione della creazione artistica non si pone neanche. In un
circolo virtuoso, l’artista è spinto a creare
dalla sua
circostanza, e la circostanza dimora nella sua opera.
La Spagna che vide succedersi in pochi anni il fallimento della
monarchia borbonica restaurata, la dittatura del generale Primo de
Rivera (1923-1930), la proclamazione della Seconda Repubblica Spagnola
(1931), il colpo di stato del generale Franco (1936), la guerra civile
(1936-1939) e l’inizio della dittatura franchista (dal
‘39
in poi) è appunto la circostanza ineludibile di Miguel
Hernández. La sua poesia si sviluppa proprio negli anni
della
Seconda Repubblica, proclamata il 14 aprile 1931 dopo che i
repubblicano-socialisti stravinsero alle elezioni municipali che il
governo provvisorio era stato costretto a convocare a causa del
malessere sociale e dei tentativi di rivoluzione seguiti alle
dimissioni di Primo de Rivera.
All’epoca, Miguel Hernández aveva ventun anni.
Nato a
Orihuela (Alicante) nel 1910, aveva trascorso la sua infanzia nella
città alicantina dalle trenta chiese. Il padre
l’aveva
costretto ad abbandonare la scuola molto giovane per dedicarsi a
pascolare il gregge familiare. La sua formazione poetica era quindi
avvenuta nella solitudine e partendo quasi dal nulla. Aveva studiato da
autodidatta, leggendo con avidità, in particolare i classici
spagnoli del Secolo
d’oro;
poi si era avvicinato al circolo letterario che si era formato nella
panetteria dei fratelli Fenoll, ai quali assisteva anche colui che
diventò il grande amico di Miguel Hernández,
Ramón
Sijé. Presto cominciò a comporre i primi versi
nel
silenzio del campo oriolano.
Nel frattempo gli spagnoli conquistavano per la prima volta alcuni
fondamentali diritti democratici9.
Nella Costituzione della Repubblica (1931) lo Stato era definito come
«una repubblica di lavoratori di ogni classe che si organizza
in
regime di Libertà e Giustizia», «senza
religione
ufficiale»; si stabiliva il suffragio universale: il voto era
segreto, diretto e si estendeva alle donne; inoltre si contemplava il
divorzio come diritto civile10.
Sulla base delle
nuove
leggi, il primo governo di Manuel Azaña iniziò
ugualmente
una serie di riforme volte a modernizzare il Paese: la riforma agraria,
con l’obiettivo d’insediare i contadini senza terra
nei
grandi latifondi; quella del lavoro, che tutelava i lavoratori e
consentiva i sindacati; ed infine la riforma dell’istruzione,
che
seguiva il principio di un’educazione obbligatoria, gratuita,
laica e mista. Fu proprio in questo periodo che Hernández
giunse
a Madrid, dove fu impiegato come collaboratore da José
María de Cossío, che all’epoca era in
procinto
d’intraprendere il suo trattato enciclopedico Los Toros.
Nella
corrispondenza fra Hernández e Cossío11
è possibile osservare il carattere vivo e indomito del
poeta.
Questo è il periodo della pubblicazione del suo primo libro,
Perito
en lunas (Esperto di lune),
e
di alcune poesie di tema taurino offerte a Cossío, come la
bellissima Silencio
de
metal triste y sonoro.
Nelle lettere a Cossío c’è tutta la
tempesta
spagnola del triennio ‘36-‘39: una guerra si
annuncia, si
prepara si scatena. Le richieste di Hernández sono ogni
volta
più disperate, riflettono una circostanza di fame e di
pericolo:
il pastore urla dalla collina di Madrid «¡Que viene el
lobo!»12.
Il 18 luglio 1936, alcuni mesi dopo la pubblicazione di El rayo que no cesa (La folgore incessante),
il generale Franco si solleva contro il regime repubblicano.
È
l’inizio della guerra civile: ogni spagnolo deve schierarsi
con
una fazione; l’individuo, trascinato dalle circostanze, deve
finalmente agire.
Non siamo sparati sull’esistenza come una pallottola la cui traiettoria sia totalmente determinata. [...] È sbagliato dire che quello che ci determina sono le circostanze. Al contrario: le circostanze sono il dilemma, sempre nuovo, dinanzi al quale dobbiamo deciderci. Però quello che decide è il nostro carattere13.
Allo scoppio della guerra civile Hernández si arruola come
volontario nel 5º reggimento delle Milizie Popolari della
fazione
repubblicana, dove il suo compito è quello di scavare
trincee. E
fu proprio nelle trincee che scrisse le poesie di Viento del pueblo.
Qui si intrecciano la voce del poeta e quella del militante, la lotta
individuale e quella collettiva. Lotte equivalenti, giacché
egli
cantava
le
sue poesie ai compagni al fronte e inversamente, i sentimenti che
incoraggiavano la sua resistenza
tornavano tacitamente a
essere tracciati sul foglio.
La dimensione internazionale del conflitto civile spagnolo, il fatto
cioè di essere un laboratorio della guerra che stava per
giungere in Europa, e il coinvolgimento nelle file repubblicane delle
Brigate Internazionali, ci restituiscono la dimensione universale di
questa tragedia. Chi lottava nella fazione repubblicana, nonostante le
differenti ideologie al suo interno, lo faceva innanzitutto per
preservare la legittimità della scelta popolare. Se un
militare
con la forza poteva decretare la fine di un regime democratico, il
mondo intero allora era perso. Anche per Miguel Hernández il
senso di questa lotta non è altro che la sopravvivenza
dell’uomo libero: «Per la libertà,
sanguino, lotto,
sopravvivo»14.
Fuori di essa non
c’è vita possibile, tanto che «bisogna
uccidere per continuare a vivere»15.
Quest’antitesi barocca esprime la contraddizione che
è
l’essenza del conflitto, il dilemma dell’azione
tragica.
Come si vede, quest’azione ha una dimensione universale, ma
anche
una presa nella realtà molto precisa, quasi materiale. La
poesia
è una forma di azione, si fa nella concretezza, è
presenza alla circostanza. Ecco allora venire avanti gli andalusi di
Jaén,
contadini superbi, braccianti senza terra in un regime di
proprietà ancora feudale. Sono loro che Miguel
Hernández
interroga sulla proprietà – «chi
innalzò gli
olivi?» –, offrendoci questa sua definizione, bella
e
acuminata: «la terra silenziosa, il lavoro, il
sudore»16.
La fine della guerra si avvicina, e con questa, la svolta definitiva
della vita del poeta. Con la vittoria dei nacionales,
comincia la dittatura di Franco e quindi l’esilio e la
repressione dei repubblicani. Hernández cerca di passare in
Portogallo, ma è arrestato dalla polizia, iniziando
così
il suo calvario nelle prigioni di tutta la Spagna. La mediazione di
Pablo Neruda gli facilita la libertà provvisoria, ma presto
è arrestato di nuovo, denunciato questa volta nella sua
Orihuela
natale. A seguito del suo processo, nel 1940, il tribunale lo condanna
alla pena di morte. Questa volta Cossío ricorre alle sue
conoscenze fra i falangisti affinché a Hernández
sia
commutata la condanna a morte in trent’anni di prigione. La
sua
salute, danneggiata gravemente dalla permanenza nelle carceri
franchiste, gli permette di resistere solo per due anni. Nel 1942, a 31
anni, Miguel Hernández muore di tubercolosi nel riformatorio
di
Alicante. Francisco Mollá, poeta alicantino e compagno di
prigione di Hernández, scrive una poesia alla sua morte, le
cui
ultime tre strofe recitano:
La musica è di lacrime umane
Che lente, nei petti si vanno filtrando...
Miguel Hernández va fra quattro tavole,
la bara senza fodera di pino bianco...
L’osservo per sempre... Lo portano a spalla
Quattro amici che scelse tacendo...
“Ci duole persino il respiro...” nella radice
senza nome, senza istante, senza spazio.
La musica agonizza e muore il giorno.
Il silenzio appare divorando...
La vita del Poeta è conclusa!
La vita del Poeta è cominciata!
La
poesia materiale.
A leggere
le poesie di Miguel Hernández abbiamo
l’impressione che
ogni strofa racchiuda l’ultima parola possibile, che ogni
verso
abbia un preciso centro di gravità, che, non appena ci
fermiamo,
esso dichiari: “tutto qui; al di là
c’è il
vuoto”. Forse per questo il drammaturgo spagnolo Antonio
Buero
Vallejo diceva che per lui Hernández era un poeta necessario17.
Ma come mai noi lettori sentiamo che il poeta ci parla ad alta voce
dell’essenza delle cose? Di quali elementi è fatto
lo stile
di Hernández?
Iniziamo con il dire che nella sua poesia ogni metafora, perfino ogni
parola, ha un riferimento preciso. Hernández non costruisce
mondi astratti, non inventa. Il suo universo poetico è
costituito di una realtà, direi, materiale. «Ma la
realtà è un semplice e spaventoso
“essere
lì”. Presenza, giacimento, inerzia.
Materialità»18.
La
realtà dei versi di
Hernández è di una concretezza estrema: anche se
a volte
la sua esaltazione può mirare a una dimensione trascendente19,
la trascendenza c’è nella misura in cui
c’è
avvicinamento alla realtà materiale, benché la
cosa possa
sembrare paradossale.
Qui la filosofia di Ortega può di nuovo venirci in soccorso.
Questa fa derivare dalla vita stessa tutte le realtà umane,
e
soprattutto quella culturale: «La radice di ciò
che
l’uomo fa e crea è la vita propria nella sua
immediata
realtà»20;
«ciò che oggi riceviamo
già ornato da aureole sublimi ha dovuto a suo tempo
restringersi
per passare attraverso il cuore di un uomo»21.
È questa contrazione
delle cose immediate
che si percepisce nei versi di Miguel Hernández. La loro
concretezza sembra rispondere ad un’esperienza della
realtà vicina a quella che ispira la filosofia orteghiana,
la
quale, come dirà Julián Marías,
autorevole allievo
di Ortega, «proclama il vincolo di ciò che
l’uomo fa
con la sua vita concreta, hic
et nunc»22.
L’obiettivo della ragione vitale, come si è detto,
è quello di sapere
a che cosa attenersi.
La soluzione contemplata equivale alla comprensione della circostanza.
Per fare ciò, è necessario uscire da se stesso.
Ora
«il mio sbocco naturale sull’universo –
dirà
Ortega – si apre attraverso i valichi di Guadarrama o la
campagna
di Ontígola. Questo settore della realtà
circostante
forma l’altra metà della mia persona: soltanto
attraverso
esso posso integrarmi ed essere pienamente me stesso»23.
Successivamente, una volta captato il senso (logos)
o impostata la prospettiva, bisogna però ritornare sui
propri
passi, cioè, dall’universale bisogna tornare al
concreto.
Questo movimento è denominato «ritorno
tacito» (vuelta
tácita)
ed è uno dei tratti capitali del metodo filosofico di
Ortega. Il
punto di partenza è sempre l’immediato,
l’individuale, ovvero ciò che ci è dato
e con cui
abbiamo a che fare. Non possiamo, tuttavia, restare lì,
perché per sapere a che cosa attenerci dobbiamo realizzare
un’azione intellettuale che per il momento ci allontana da
ciò che pretendiamo di sapere – idea, concetto,
cultura in
generale – per permetterci di ritornare con questi strumenti
culturali alla realtà immediata e così
afferrarla. Il
metodo – ripeterà Ortega – è
di andata e
ritorno, a priori e a posteriori allo stesso tempo: «posato
lo
sguardo sul mappamondo, conviene volgerlo di nuovo al
Guadarrama»24.
Il ritorno
tacito
è insomma il percorso che dobbiamo prendere dal generale,
l’acquisito nella cultura, per ritornare
all’immediato
dell’esperienza. L’atto creatore consiste per
Ortega
nell’estrarre un logos
da ciò che è ancora insignificante (i-logico)
– «C’è anche un logos
del
Manzanares»25
–, in un
allontanamento che stabilisce una prospettiva.
Proprio questo movimento di andata e ritorno sembra prodursi nel verso
hernandiano: la realtà materiale viene trascesa nel momento
in
cui diventa espressione poetica per poi portarci di nuovo alla cosa
immediata, rivelandoci la sua essenza
circostanziale.
Così assistiamo a un movimento discendente o di
gravità,
nel riferimento materiale, nelle cose designate, e un movimento
ascendente per il quale questa realtà profonda viene
celebrata e
innalzata. La moglie Josefina, che diventa donna in assoluto,
l’albero del poeta, che gli rivela la natura intera e i suoi
misteri: ecco la sineddoche essenziale su cui si basa la poesia
immanente. Per questo rovesciamento dell’arte,
l’universale
parla nelle cose concrete, che pure non cambiano mai natura.
Questo superamento ha dunque degli accenti arcaici, sembra provenire
dall’origine delle cose, come se l’evocazione del
poeta ci
rivelasse la loro autenticità, il loro lato essenziale, i
tratti
della loro sostanzialità. Il nome che il poeta attribuisce
alle
cose racchiude in sé la stessa natura che pervade le cose
nominate26.
In questo senso l’universo
hernandiano,
come María Zambrano scrisse a proposito di quello di Neruda,
«ci appare come uno squarcio attraverso il quale ci
è
rivelato un mondo inedito e vecchio al tempo stesso; tutto un modo di
sentire la vita, tutta una sensibilità e un senso che ordina
le
cose [già esistenti] in una maniera diversa»27.
Le parole di Miguel Hernández concentrano questa
realtà materiale – questa senziente carne aleteante28–,
catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández
mira al
suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca
l’aratro,
allo scenario reale della vita e della morte, e questa
realtà
essenziale, fatta di «braccianti»,
«sudore»,
«cipolla», «bacio»,
«sangue»,
«fiato», impone le sue leggi. Forse è la
ricerca di
questa autenticità che rende la sua poesia così
necessaria.
Le cose, le sorelle cose nella loro rudezza materiale, nella loro individualità, nella loro miseria e sordidezza, non quintessenziate né tradotte né stilizzate, noncome simboli di valori superiori... tutto questo ama l'uomo spagnolo [...] Non si può forse affermare che [...] ci sia nella nostra arte una corrente di sottosuolo che cerca sempre la realtà non trascendente? Quest'arte vuole salvare le cose in quanto cose, in quanto materia individualizzata [...] L'emozione spagnola dinanzi al mondo non è timore, né gioconda ammirazione,né sdegno fuggitivo che si distacca dal reale; è di aggressione e sfida a tutto quanto è soprasensibile, e di affermazione malgré tout delle cose piccole, momentanee, misere, trascurate, insignificanti, grossolane [...] Ricordate che Diego Velázquez de Silva, obbligato a dipingere re e papi ed eroi, non poté vincere la volontà artistica messa nelle sue vene dalla razza, e va e dipinge l'aria aperta, la sorella aria, che sta dovunque senza che nessuno le presti attenzione, e suprema insignificanza29.
La lingua di Hernández è tessuta con questo rude
amore
per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per
le
cose. È ciò che vedremo analizzando
più a fondo
alcuni elementi tematici della sua poesia.
Il
tragico.
La terra è
l'elemento fondante, nella vita come nella poesia di
Hernández.
A tal punto che lo stesso poeta si definisce come terra: «Mi
chiamo fango, sebbene Miguel mi chiami/Fango è la mia
professione e il mio destino». Hernández
è in
effetti congenere alla terra: Alicante, su tierra
– come si dice in spagnolo, sottolineando la appartenenza a
questo elemento –, è marittima, e dunque, terra
irrigata, huerta.
Mare e terra, anche se complementari, sono per lui opposti, e
così compaiono nella Oda
entre arena y piedra a Vicente Aleixandre,
in cui
l’amico poeta, si dice condannato alla
terra.
Quest'appartenenza si deve senza dubbio all'origine contadina del
poeta: l’opacità del lavoro della terra, di una
fatica che
sa di combattimento, della morte30.
Enterrar
– “seppellire”,
“sotterrare” –
è infatti un verbo frequente nella lingua di
Hernández;
così come l’azione contraria, quella di
dissotterrare, di
riportare alla luce.
Voglio scavare la terra con i denti,
voglio metter la terra parte a parte
a dentate secche e calde.
Voglio minar la terra fino a trovarti,
e baciarti il nobile teschio
e toglierti il bavaglio e ritornarti.31
La terra è
legge inesorabile, che per
aver ingoiato
anzitempo l’amico Sijé
(«la terra che occupi e alimenti»), sfida il
sentimento del
poeta. La terra è principio, materia e fine della vita.
Terra: terra nella bocca, nell’anima, in tutto.
Terra che mangio e che alla fine mi inghiottirà.
Con più forza di prima mi partorirà ancora, madre
32.
La terra è profondità materiale che per
raggiungere
bisogna scavare, penetrare, affondare. È seno di morte ma
anche
di vita nuova, di rigenerazione, di eterno ritorno. Con quella fatale
invocazione di vita che tante volte lo portò nelle sue
poesie a
ricordare la fossa – come commenta Buero Vallejo33–,
Hernández scrive:
Anche se sotto la terra
Col mio amante corpo sto
Scrivimi alla terra,
Che io ti scriverò34.
Versi scritti dalla
prigione, in una poesia
intitolata in spagnolo Carta,
cioè Lettera.
Anche davanti alla morte, alla sconfitta, Hernández
manifesta
un’ansia esistenziale inesauribile, un desiderio vorace di
vita35.
Ferito sono, guardatemi: ho bisogno di più vite.
Quella che posseggo è poca per la grande missione
Di sangue che vorrei perdere per le ferite.
Dite chi non fu ferito36.
Il sangue figura questa volontà di vita, è animo
per chi
combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo
si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o
per la malattia.
Il
tempo è sangue. Il tempo
circola nelle mie vene.
E davanti all’orologio e all’alba mi sento
più che ferito,37.
Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta
di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si
rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si
associa al
germogliare dei fiori, alla primavera.
Se perfino agli ospedali si va con gioia,
si convertono in orti di ferite semiaperte,
di adelfi fioriti davanti alla chirurgia
di porte insanguinate
38.
Insomma, sanguinare è, nel perdere la propria vita, darsi
completamente alla vita, che è lotta e rigenerazione; ed
è proprio questa consegna profonda – questo
integrare
l’Uno-primordiale nietzscheano39
– a produrre la
gioia tragica. Hernández, avendo sperimentato personalmente
sia
il dolore delle ferite che la gioia – di vivere, di amare, di
lottare40
–, è un
«poeta vitale e per questo, tragico»41.
Come in Ortega, «il riassorbimento della
circostanza» si
configura come «il destino concreto
dell’uomo»42.
Destino
tragico, se la sua assunzione è consapevole e costituisce la
soluzione ineluttabile di un conflitto di forze; faena para pocos,
direbbe Buero.
Essere poeta e soldato è quindi per Hernández
vocazione e
circostanza. La sua grandezza risiede nel aver integrato perfettamente
l’una nell’altra, evidenziando una coerenza
compatta e
assoluta fra vita e opera. La circostanza, ad esempio, è
visibilmente presente sopratutto nelle poesie del Cancionero y romancero de
ausencias: la fame, la
mancanza di libertà,
impregnano una poesia che ha come punto di partenza e di arrivo di
questo ritorno
tacito
poetico i piccoli eventi familiari dei quali il poeta in carcere
è stato privato.
Il motivo di questa composizione è noto: sua moglie gli
scrisse
una lettera dicendogli che mangiava solo pane e cipolla, che a suo
figlio erano usciti i primi denti e rideva molto. Questo fatto provoca
un entusiasmo disperato che si tradurrà nelle Nanas de la cebolla.
Tre dualità antitetiche parallele percorrono questa poesia.
La
cipolla indica la fame (rispettivamente «brina» e
«ghiaccio nero»), il ridere è
libertà, che
«mette le ali», mentre i denti sono
un’arma,
«cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed
ignaro
della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince
l’abbattimento, ecco Hernández che scrive questi
versi
luminosi nel buio della sua cella:
Mi destai da bambino:
mai svegliarti.
Triste ho la bocca:
Tu ridi sempre.
[...]
Vola bimbo nella doppia
luna del seno.
Lui, triste di cipolla,
tu, soddisfatto.
Non ti abbattere.
Non sapere che succede,
né cosa occorre
43.
Nel Niño
yuntero
è sancita la posizione di Miguel Hernández
accanto agli
umili, ai dimenticati, fedele alla sua origine. Il protagonista
è un bambino che, come il piccolo Hernández,
lavora
duramente in campagna. Dal suo esemplare più disfatto si
raggiunge l’integrità dolorosa
dell’uomo, che si
definisce appunto per quello che non ha. L’antitesi struttura
anche questa poesia, nella quale si oppone la fragilità
dell’essere bambino all’ingiusta condizione che lo
schiavizza e lo fa invecchiare prematuramente.
Comincia a vivere e comincia
a morire da cima a fondo.
[...]
Comincia a sentire, e sente
la vita come una guerra44.
Si percepisce fino a
che
punto l’antitesi è
costitutiva
dell'espressione hernandiana, della sua poesia materiale. Da questo
punto di vista bisogna concordare con il poeta e ispanista francese
Jean Cassou: la poesia di Hernández sembra la
possibilità
remota di «un’arte sorta dalle
impossibilità del
più profondo silenzio»45.
In effetti, questa poesia nasce da cose solide:
il campo pietroso, la sua povertà... Ma, autodidatta sin
dall’inizio, Hernández giunge ben presto alla
complessità: dal sonetto culterano al ritmo popolare del romance,
egli coltiva tutte, o quasi, le forme di componimento poetico.
«In Spagna, il barocco, il concettismo, il gongorismo, il
preziosismo, non sono arte di corte o di salone, ma espressione
popolare»46.
Solo così si
può
comprendere la perfezione naturale dell’espressione
hernandiana,
quell’alleanza particolare tra barocco e
spontaneità:
«l’uomo della natura, l’uomo-popolo, in
Spagna,
è aristocratico. È signore del meglio, principe
della
perfezione».47
Dai primi sonetti
compaiono le selezioni verbali, le antitesi e contraddizioni,
«quelle parole come contramor,
o quelle con il prefisso de
o des,
tutto questo vocabolario di opposizione e di annullamento»48
che dimostra tanta forza, passione, tanta vitalità
viscerale. Le
parole infatti sono contorte, muscolose, risuonano proprio dove si
negano semanticamente. Se a questa tensione e risonanza del linguaggio
aggiungiamo il ritmo marcato, o dal verso corto o dalle pause
intermedie, si ottiene la musicalità caratteristica di
questa poesia che è forse il primo elemento estetico che
seduce chi
le ascolta49.
Vado, vado, vado, ma rimango,
ma vado, deserto e senza sabbia:
addio, amore, addio fino alla morte50.
Le sonorità di questo castigliano, insieme alle immagini
evocate, fanno della poesia hernandiana un misto apollineo-dionisiaco,
nel senso nietzscheano di un equilibrio perfetto fra gli elementi
rappresentati da queste due pulsioni51.
Come la
tragedia
greca, la poesia di Hernández è fatta di una
sintesi tra
apollineo (bellezza delle immagini, canone classico nella metrica e la
rima) e dionisiaco (forza originaria che percorre tutto, presenza del
corpo, brutalità delle manifestazioni vitali). Qui
però
un elemento cambia il segno: la musica, pulsione originaria e
inebriante della quale Dioniso è l’emblema, in
questa
poesia è prodotta dal ritmo e la rima, appartiene
cioè
agli elementi formali. La musicalità è quindi
apollinea
– «architettura dorica in suoni»52.
Inversamente, le immagini hanno una forza dionisiaca, comportano il
sublime che batte nella poesia hernandiana. Come se sotto la
fluidità concorde del linguaggio scoppiasse un tumulto di
immagini; immagini che diventano brutali, per quanto dionisiache,
quando dipingono un dolore forte:
Oggi ho solo una smania
di strapparmi il cuore
E metterlo sotto una scarpa53.
Le parole si affilano
come
per cogliere la lacerazione del sentimento:
da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da
un’altra parte l’amore, che muove sempre in
Hernández da una realtà concreta, quella fisica.
Le liriche amorose posteriori a El
rayo que no cesa,ispirate
quasi tutte dalla moglie
Josefina Manresa, esprimono la gioia
dell’unione con la disperazione della lontananza54.
Presente o assente, il corpo c’è, emanando una
sensualitànaturale, predicando l’essenziale
materialità di
ogni cosa.
Tranne il tuo ventre
tutto è confuso55.
Il corpo
è
infatti talmente integrato
nell’amore e
nella
vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una
dimensione mistica. In Io
non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il
corpo
della
donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso
all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e
trascendenza
fanno un tutto senza fessure, cosmico.
Sotto la pelle t’avanzo, e sangue è la distanza.
Gravita il mio corpo in una densa costellazione.
L’universo raccoglie la densa risonanza
là, dove la storia dell’uomo è stata
scritta56.
È una poesia voluttuosa e appassionata, intitolata La bocca,
a recare più di tutte l’impronta caratteristica di
Hernández. L’istinto totalizzatore del poeta
tragico e necessario scoppia in versi come:
Morte ridotta a baci,
a sete di morire piano,
dai alla gramigna sanguinante
due tremendi colpi d’ala.
Il labbro di sopra, il cielo
E la terra l’altro labbro57.
La concezione
vitale
che
ispira la teoria nietzscheana
dell’arte58
, con la sua generazione biologica come forma di unione degli opposti,
con la sua eternità materiale, sembra essere stata messa in
versi da Miguel Hernández. Così la vita, nella
sua
rigenerazione inerente, prolunga l’essere
all’infinito:
Per sempre rimaniamo fusi nel nostro figlio:
fusi come desiderano le nostre brame voraci:
in un ramo di tempo, di sangue, i due rami,
in un fascio di carezze, di capelli, i due fasci.
[...]
Col nostro amore in spalla, addormentati e desti,
continueremo i baci nel figlio profondo.
Quando ci baciamo si baciano i nostri morti,
si baciano i primi abitanti del mondo59.
Forse però
c’è ancora qualcosa di
più affine
al tragico in senso nietzscheano nell’opera di
Hernández.
La sintesi apollineo-dionisiaca trova nell’elegia il suo
genere
lirico più adatto. Il tragico dell’Elegia
deriva da questo incontro sublime tra la bellezza della forma e la
brutalità del sentimento, l’esperienza della morte
dell’amico. L’abisso aperto da questa breccia viene
difficilmente superato. L’accento dell’elegia
è
quello di subito dopo il pianto; la voce rotta del cante jondo60,
le ferite aperte, l’anima in lutto, l’avvilimento
massimo:
«che a doler mi duole persino il fiato». Questo
verso
riesce a esprimere l’inesprimibile: il dolore più
estremo,
che oltrepassa la dimensione fisica e raggiunge l’ineffabile,
si
presenta in qualcosa di così etereo come l’aria
respirata
– l'alito, il soffio, il fiato: l’anima per i Greci
(psyché),
il principio per cui si ha vita. L’elegia canta insomma la
perdita che si sa definitiva e, in questo senso, rappresenta l'epilogo
della tragedia, che è la lotta dell’eroe per
deviare un
destino opprimente. È questo lo stile che
Hernández
adotta nella parte centrale della sua Elegia,
in cui la ribellione contro l’accaduto appare sprovvista di
qualunque segno di trascendenza religiosa, marcata
dall’anafora no
perdono.
Non perdono alla morte innamorata,
non perdono alla vita disattenta,
non perdono alla terra né al nulla.
Ciononostante,
il tragico all’interno di questa poesia emerge
anche formalmente. Nell’Elegia
si alternano infatti apollineo e dionisiaco: il dionisiaco a
significare la dismisura del dolore, l’apollineo la sua
attenuazione (implicita, ad esempio, nei richiami al defunto:
«ritornerai», «ti agogno»). I
due dei greci
sono fratelli che nella loro opposizione marcano
l’unità ulteriore
del piacere e del dolore, della luce e dell’ombra, della vita
e della morte.
Non c’è distesa più grande della mia
ferita
Piango la mia sventura e i suoi effetti
E sento più la tua morte della mia vita.
[...]
Alle anime alate delle rose
del mandorlo bianco ti agogno,
ché dobbiamo parlare di tante cose
compagno dell’anima, compagno.
Considerata
formalmente nell’insieme, la
poesia di
Hernández opera la sintesi tragica di cui parlava Nietzsche.
Quel che affiora alla superficie è la parte apollinea,
questo
linguaggio preciso e trasparente che ricopre un strepitoso fondo
dionisiaco. Come direbbe Maria Zambrano:
Amore, terribile amore di materia, che finisce per diventare amore
delle viscere, dell’oscura interiorità del mondo.
Sopra la
superficie del mondo ci sono le forme e la luce che le definisce,
mentre la materia geme sotto ad essa61.
Non si poteva
formulare meglio la nostra
interpretazione del tragico,
in senso formale, nella poesia hernandiana. Materia sotto la forma,
Dioniso versus
Apollo, ombra dietro la luce: Hernández ci porta dalla
superficie alle viscere della terra per poi, tacitamente,
dissotterrarle e
ritornarvi.
Hernández è dunque tragico nello stile,
nell’animo
che si proietta verso il mondo lacerandosi, è tragico nel
contenuto, ed è tragico anche per genealogia,
giacché il
pensiero e la poesia spagnoli sono radicati in quello che Miguel de
Unamuno chiamò «il sentimento tragico della
vita». I
grandi paradigmi della letteratura spagnola, Don Chischotte e
Sigismondo, sono, rispettivamente, una tragedia andante
ed
una
tragedia sognante;
entrambi, attraverso un meccanismo diverso di deformazione sistematica
della realtà, che sia follia o il sogno, manifestano una
discordanza simmetrica tra la maniera in cui si percepisce il
mondo e la maniera in cui il mondo è. E che cosa sono le Coplas
di Jorge Manrique? L’animo di Fray Luis de León?
Il
concettismo, nella sua profondità, non è contiguo
al
tragico? Non è tragico il sonetto di Quevedo Amor constante
más
allá de la muerte?
I Cantares
di
Machado? Gli esperpentos
de Valle-Inclán? Questo sentimento, in fondo vitale, che
stimola
la lingua dei grandi spiriti spagnoli, è fatto proprio anche
da
Hernández. Non è dunque strano che poeti pure
lontani nel
tempo ricorrano alla stessa impostazione antitetica, a ciò
che
la lingua ha depurato riducendolo al suo significato essenziale:
«Nous avons quelque chose d’attique dans
l’esprit qui
ne nous quittera jamais»62.
Tragica
è l’impostazione che trova nell’antitesi
l’espressione più giusta.
Bisogna uccidere per continuare a vivere63.
Ah, la vita: che bel penare così moribondo!64
Vivere-morire
è l’antitesi radicale che
Hernández
affronta e sdoppia in diversi piani. Su questa struttura antitetica, il
tragico si manifesta spesso attraverso il dispositivo metaforico
luce/ombra. Ombra eterna,
forse l’ultima poesia di Hernández, e certo una
delle più riuscite, inizia con questi versi scoraggiati:
Io che credevo che la luce era mia
precipitato nell’ombra mi vedo.
La struttura
antitetica si mantiene inalterabile.
Sotto fondo,
c'è il dilemma shakespeariano che qui diventa essere luce o
essere ombra, lottare ancora difendendo la luce, o lasciarsi ingoiare
dall’ombra. La poesia prosegue in crescendo, approfondendo il
pessimismo della caduta, nella delusione dopo la disfatta di
ciò
in cui si credeva e per cui si aveva lottato, per concludere con questa
quartina:
Sono un’aperta finestra che ascolta,
come scorre tenebrosa la vita.
Ma c’è un raggio di sole nella lotta
che sempre lascia l’ombra sconfitta.
Difficilmente
si
può concepire un’espressione
più
completa e sublime del tragico in poesia. Il tragico, infatti, non
è sinonimo di rassegnazione o di annientamento
dell’uomo
da parte della fatalità, ma esso è anzi il
sintomo di una
forza. La tragedia esprime per Nietzsche lo scontro con
l’avversità connaturata al mondo, l'affermazione
che gliresiste:
Il dire sì alla vita persino nei suoi problemi
più oscuri
e più aspri, la volontà di vivere rallegrantesi,
nel sacrificio
dei suoi tipi più elevati, della propria
inesauribilità, - questo
io ho chiamato dionisiaco, questo
io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragico65.
Poeta tragico ci è sembrato dunque Miguel
Hernández,
sbattendo una tale opera in faccia ad un mondo ostile, portando fino
alle estreme conseguenze, in maniera gioiosa, l’umana azione
che
egli prescrisse a se stesso.
Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo66.
La grandezza che gli concede il suo risvolto tragico non solo lo
conduce ad assumere stoicamente carcere e morte dopo una guerra
fratricida67,
ma anche a dire in tali disperate
condizioni
– ammalato e con una condanna a trent’anni
– al suo
compagno di prigione Buero Vallejo: «Domani, io e te, dovremo
fare cinema insieme»68.
Questo proiettarsi
nella vita, e persino nell’arte, in un faccia a faccia con la
morte concentra tutto il tragico dell’esistenza.
Quest'assetto
– sfidare la morte in una maniera artistica –
rimanda a
quello del torero. Così lo immaginava infatti
Hernández
nell’acme della corrida:
Sorridere può essere, in quell'istante
critico, uno sfizio,
una tragica arroganza69.
E il sorriso torna anche in una delle ultime poesie di
Hernández. Come ci racconta Buero Vallejo: «Un
certo
carcerato guardava preoccupato la fotografia di sua figlia, che
festeggiava dopo qualche giorno il suo onomastico senza ch'egli avesse
niente da mandarle. Miguel, quando lo seppe, prese la fotografia e le
dedicò quella bellissima poesia intitolata Il pesce più
vecchio
del fiume.
Questa poesia, che a prima vista può sembrare minore, non lo
è affatto, ed esprime magistralmente quella lotta fra dolore
e
gioia tipica del poeta tragico che era. Del grande, dolente e solitario
uomo che fu»70.
Eccola:
Il pesce più vecchio del fiume
per la tanta saggezza
accumulata, viveva
brillantemente cupo.
E l’acqua gli sorrideva.
Tanto cupo arrivò a stare
(per niente l’acqua lo diverte)
che dopo tanto meditare,
prese la strada del mare,
cioè, quella della morte.
Ridesti tu accanto al fiume,
bimbo solare. E quel giorno
il pesce più vecchio del fiume
si tolse quell’aria cupa
e l’acqua ti sorrideva.
Tra
queste due poesie (Corrida
reale e Il
pesce più vecchio del fiume),
trascorre tutta
la vita del poeta. Eppure, nonostante le ferite, le speranze infrante,
i chiari indizi di aver preso la strada
del mare, lo stesso sorriso
tragico dell’artista
naïf
regala a una bambina questa favola sul divenire vitale, sulla riva di
un fiume eracliteo. In definitiva, non è Miguel
Hernández
quel nietzscheano
eroe,
la
sera della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia
gli ha recato ferite e la perdita dell'amico; ma [...porta] questo
cumulo immenso di afflizioni di ogni specie [ed è] pur
sempre
ancora l'eroe che, allo spuntar di un secondo giorno di battaglia,
saluta l'aurora e la sua felicità […prende] tutto
questo
sulla propria anima, il più antico come il più
nuovo, le
perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie
dell'umanità,
[possiede] infine tutto ciò in una sola anima e tutto
insieme
[stringe] in un unico sentimento»71?
Un
sentimento di umanità che, come poeta, ci lascia
presentire in un solo verso: sonreír
con la alegre tristeza del olivo.
Insomma, il sentimento tragico affiora dalle profondità del
vissuto alla superficie del verso, trovando nell’antitesi
l’espressione che racchiude meglio la sua natura e la sua
origine. Ecco perché la circostanza e il tragico si
intrecciano
così naturalmente in Miguel Hernández: a tale
vita, tale
espressione. Vita e arte hanno in lui tinte affini.
Dipinta,
non
vuota:
dipinta è la mia casa
con il colore delle grandi
passioni e disgrazie72.
La poesia di Hernández, di primo acchito, lascia sul lettore
un’impressione di bellezza compiuta. Ma se invece, come la
terra,
si ara, golpe
a golpe,
verso a verso, come diceva
Machado73,
allora rivela ad ogni lettura aspetti nascosti, significati ulteriori;
più si approfondisce, più si rivela ricca e
inesplorata.
All’inizio di questo scritto suggerivo che la vita di un
artista,
in certi casi, è di per sé un’opera
d’arte.
La vita di Miguel Hernández è, per essere
più
precisi, un’opera d’arte tragica. Nelle sortite
della sua
azione sul mondo risuona il mito prometeico – e il Prometeo
di Eschilo è la tragedia di una resistenza ad un potere
nuovo,
di un titanico amore verso gli uomini: le catene da rompere per il
soldato repubblicano sono le stesse, e la stessa è
l'abnegazione
del poeta volto al popolo. Tragico perché antitetico,
perché soprattutto vitale.
Il tragico sgorga dalla poesia hernandiana come la forza che resse la
vita del poeta fino al suo ultimo gesto, come ricorda Vicente
Aleixandre: «Non si spense mai, neanche all’ultimo
momento,
quella luce che soprattutto, tragicamente, lo fece morire con gli occhi
aperti».
* * *
Silencio de metal triste y sonoro
Silencio
de metal triste y sonoro, Una
humedad de femenino oro De
amorosas y cálidas cornadas Bajo
su piel las furias refugiadas
|
Silenzio di metallo triste e sonoro
Silenzio
di metallo
triste e sonoro, Un’umidità
di femminile oro Di
amorevoli e calde cornate Sotto
la pelle le furie rifugiate |
Aceituneros
Andaluces
de Jaén, No
los levantó la nada, Unidos
al agua pura Levántate,
olivo cano, Andaluces
de Jaén, Vuestra
sangre, vuestra vida, No
la del terrateniente Árboles
que vuestro afán ¡Cuántos
siglos de aceituna, Andaluces
de Jaén, Jaén,
levántate brava Dentro
de la claridad -- |
Raccoglitori di olive
Non
li innalzò il nulla, Uniti
all’acqua pura Alzati,
ulivo canuto, Andalusi
di Jaén, Il
vostro sangue, la vostra vita, Non
quella del possidente Gli
alberi che il vostro affanno Quanti
secoli di raccolta, Andalusi
di Jaén, Jaén,
alzati valorosa, Dentro la
luminosità -- |
El niño yuntero
Carne
de yugo, ha nacido Nace,
como la herramienta, Entre
el estiércol puro y vivo Empieza
a vivir y empieza Empieza
a sentir, y siente Contar
sus años no sabe, Trabaja
y, mientras trabaja A
fuerza de golpes, fuerte, Cada
nuevo día es Y
como raíz se hunde Me
duele este niño hambriento Lo
veo arar los rastrojos, Me
da su arado en el pecho, ¿Quién
salvará a este chiquillo Que
salga del corazón |
Il bimbo aratore
Carne
da giogo, è nato Nasce,
come i ferri, Fra
lo sterco puro e vivo Comincia
a vivere, e comincia Comincia
a sentire, e sente Non
sa contare i suoi anni, Lavora,
e mentre lavora A
forza di colpi, forte, Ogni
nuovo giorno è E
come radice affonda Mi
duole questo bimbo affamato Lo
vedo arare le stoppie, Il
suo aratro mi colpisce nel petto, Chi
salverà questo bambino Che
venga dal cuore
|
Yo no quiero más luz que tu cuerpo ante el mio
Yo
no quiero más luz que tu cuerpo ante el mío: ¿Qué
lucientes materias duraderas te han hecho, No
hay más luz que tu cuerpo, no hay más sol: todo
[ocaso. Claridad
sin posible declinar. Suma esencia Claro
cuerpo moreno de calor fecundante. Yo
no quiero más luz que tu sombra dorada |
Non voglio altra luce che il tuo corpo davanti il mio
Non
voglio altra luce che il tuo corpo davanti il mio: Quali
lucenti materie durature t'hanno fatto, Non
c’è altra
luce che il tuo corpo, non c’è altro sole: tutto
è [tramonto. Chiarezza
senza possibile declino: somma essenza Chiaro
corpo, bruno di calore fecondante. Non
voglio altra luce che la tua ombra dorata, |
Eterna sombra
Yo
que creí que la luz era mía Sangre
ligera, redonda, granada: Sólo
la sombra. Sin astro. Sin cielo. Cárdenos ceños,
pasiones de luto. Falta
el espacio. Se ha hundido la risa. Carne
sin norte que va en oleada Sólo
el fulgor de los puños cerrados, Turbia
es la lucha sin sed de mañana. Soy
una abierta ventana que escucha, |
Ombra eterna
Io
che credevo che la luce era mia Sangue
leggero, melograno rotondo. Solo
l’ombra. Senza astro. Senza cielo. Segni
violacei, passioni di lutto. Manca
lo spazio. Strozzate son le risa. Carne
disorientata che va come un'onda Solo
il fulgore dei pugni serrati, Torbida
è la lotta senza sete di domani. Sono
un’aperta finestra che ascolta, |
* María Ortega Máñez (Alicante, 1984) è laureata in Filosofia presso l’Università di Paris 1 Panthéon-Sorbonne, dopo aver effettuato parte dei suoi studi all’Università di Valencia (Spagna) e Toulouse-le Mirail (Francia). Attualmente prepara la tesi di dottorato all’Università di Paris-Sorbonne sotto la direzione del Prof. Denis Guénoun. La sua ricerca, storica e filosofica, è centrata sul concetto di rappresentazione teatrale.
note
1.
Vale la pena notare come nella Poetica
di Aristotele il mythos
tragico abbia due definizioni: quella di praxeôs
mimèsis,
«rappresentazione
dell’azione» (Poet. 6, 1449b),
e quella di sunthesis tôn
pragmatôn,
«combinazione dei fatti» (Poet. 6, 1450a).
Chiaramente
Aristotele si riferisce esclusivamente all’arte del poeta, da
cui
il titolo del suo scritto; arte quindi che mira all’azione,
e che opera
con i fatti.
2.
«Il vicolo del gatto» è una stradina
di Madrid
dove all'inizio del Novecento c'erano degli specchi che deformavano
l'immagine dei passanti. Ramón María del
Valle-Inclán ha ripreso quest'immagine in Luces de Bohemia
per definire il suo stile letterario, l'Esperpento:
«Gli eroi classici riflessi dagli specchi concavi danno
l’Esperpento.
Il senso tragico della vita spagnola può presentarsi solo
mediante un'estetica sistematicamente deformata», R.M. del
Valle-Inclán, Luces
de Bohemia, in Obras
escogidas, vol. II, Madrid,
Aguilar, 1974. p. 1246.
3.
Cfr. Antonio Machado, Cantares.
4.
León Felipe, “Poética de la
llama”, in “Ganarás la luz”, Prosas,
Madrid,
Alianza, 1981. p. 103. Salvo indicazione contraria, tutte le traduzioni
dallo spagnolo sono mie.
5. J.
Ortega y Gasset, Meditaciones
del Quijote, a cura di
Julián
Marías, Madrid, Cátedra, 1984. p. 65.
6. Ibidem,
p. 77.
7. Il
termine spagnolo vivencia
fu usato per la prima volta da Ortega y Gasset nel 1913 per tradurre il
tedesco Erlebnis,
sostantivo astratto formato sul verbo Leben,
“vivere”.
8.
Cfr. J. Ortega y Gasset, op. cit., nota 39, p. 69.
9. Di
religione (art. 2), di circolazione (art. 31), di espressione e
di stampa (art. 34), di associazione (art. 39), di insegnamento (detta
anche «libertà de cattedra», art. 48),
etc.
10.
Constitución de la República Española,
art. 1, 3, 36, 43.
11.
Cfr. Miguel Hernández: Cartas
a José
María de Cossío,
a cura di Rafael
Gómez, Santander, Ediciones de la Casona de Tudanca, 1985.
12.
In riferimento al testo di León Felipe, “Pero,
¿por qué habla tan alto el
español?”, in Prosas,
Madrid, Alianza, 1981. pp. 79-81; in cui il poeta deriva magistralmente
quello che è un difetto nazionale - il parlare troppo ad
alta
voce - dalle circostanze dolorose della Storia del popolo spagnolo, che
non solo giustificano questa particolarità, ma la rendono
legittima e necessaria.
13.
J. Ortega y Gasset, La
rebelión de las masas,
Barcelona, Orbis, 1983.
pp. 66-67.
14. El
herido
in El
hombre acecha.
15. Canción
del esposo soldado, in Viento
del pueblo.
16. Aceituneros,
in
Viento del pueblo.
17.
A. Buero Vallejo, “Un poema y un recuerdo”, in Miguel
Hernández. El
escritor y la crítica,
a cura di
María de Gracia Ifach;
Madrid, Taurus, 1988. p. 33.
18.
J. Ortega y Gasset, Meditaciones
del Quijote, op. cit., p. 222.
19.
Nel senso spaziale di “oltre-passare”,
«andare di
un posto a un altro, oltrepassando un certo limite».
José
Ferrater Mora: Diccionario
de Filosofía, tomo
IV; Barcelona,
Círculo de Lectores, 2001. p. 3565.
20.
J. Ortega y Gasset, op. cit., nota 36, p. 68.
21. Ibidem,
p. 69.
22. Ibidem,
p. 68.
23. Ibidem,
p. 76.
24. Ibidem,
p. 78.
25. Ibidem.
26.
Cfr. Platone, Cratilo.
27.
María Zambrano, “Pablo Neruda o el amor a la
materia” in Hora
de España,
Barcelona XXIII, noviembre 1938. p.
149.
28.
Cfr. M. Hernández, Nanas
de la cebolla.
29.
J. Ortega y Gasset, Meditazioni
sul Chisciotte e altri scritti di metafisica,
a cura di G.
Ferracuti,
http://www.ilbolerodiravel.org/ferracuti/ortega-meditacionesTraduzioni.pdf.
p. 102.
30.
Cfr. Jean Cassou, “Tumba de Miguel
Hernández” in Miguel
Hernández. El escritor y la crítica,
a cura di María de Gracia Ifach, Madrid, Taurus, 1988. p. 72.
31. Elegía
in El
rayo que no cesa.
32. Madre
España, in El
hombre acecha.
33.
A. Buero Vallejo, op. cit., p. 30-31.
34. Carta
in El
hombre acecha.
35.
Questa poesia rende conto, in un certo modo,
dell’importanza
che ebbe la corrispondenza nella vita di Hernández,
trascorsa
spesso lontano da Orihuela (cfr. l’edizione dell’Obra completa
di Espasa-Calpe,
Madrid 1992, vol. III, dove si può leggere l'epistolario
integrale). Le lettere a Josefina Manresa non solo ci immergono
direttamente nella circostanza concreta del poeta, ma costituiscono il
filo comunicativo con ciò che Miguel Hernández
era, amava
e sperava.
36. El
herido,
in El
hombre acecha.
37.
18 Julio 1936 - 18 Julio 1938 in El
hombre acecha.
38. El
herido,
in El
hombre acecha.
39.
L’«Uno-primordiale» (das Ur-Eine)
è un concetto preso da Schopenhauer e che ritorna spesso
lungo La
Nascita della
tragedia. Fondamentalmente
designa lo strappo del principium
individuationis
che diventa fenomeno artistico e che secondo Nietzsche dà
significato al dionisiaco. Detto con le parole di Hernández
in Madre
España:
«Madre: abisso da sempre,
terra da sempre: profondità dove sfociano tutti i
sangui».
40.
Cfr. Llegó
con tres heridas in Cancionero y romancero de ausencias.
41.
A. Buero Vallejo, op. cit., p. 31.
42.
J. Ortega y Gasset, op. cit., p. 75.
43.
Nanas de la cebolla.
Se la
circostanza è latente durante tutta la poesia, i due ultimi
versi costituiscono la sua definizione in chiave tragica (marcata
quindi dalla negazione).
44. El
Niño
yuntero in Viento
del pueblo.
45.
Jean Cassou, op. cit., p. 73.
46. Ibidem.
47. Ibidem.
48. Ibidem.
49.
Musicalità infatti avvertita dai diversi cantanti che
hanno
adattato le poesie di Hernández: Joan Manuel Serrat, Paco
Ibáñez, Víctor Jara...
50. Yo
sé
que ver y oír a un triste enfada,
da El
rayo que no cesa.
51. A
questo proposito, ricordiamo la tesi di Nietzsche:
«Apollo
e Dioniso […] i due impulsi così diversi
procedono l'uno
accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e
con
un'eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più
robusti,
per perpetuare in essi la lotta di quell'antitesi, che il comune
termine “arte” solo apparentemente supera;
finché da
ultimo per un miracoloso atto metafisico della
“volontà” ellenica, appaiono accoppiati
l'uno
all'altro e in questo accoppiamento producono finalmente l'opera d'arte
altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica».
F.
Nietzsche, La
Nascita
della tragedia, in Opere,
a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1972, vol. III, tomo
I, p. 21. Bisogna notare che Apollo rappresenta il dio solare della
misura, del principium
individuationis,
della divinazione. La pulsione apollinea è il sogno,
perciò si associa alle belle apparenze, le immagini ideali e
dunque, alle arti plastiche. Simmetricamente, Dioniso, è il
dio
del vino e della trasfigurazione, rappresenta l’abolizione di
tutte le frontiere, specialmente quella dell’individuazione.
L’analogia dell’ebbrezza è la
più prossima a
noi di questa pulsione, composta dallo spavento e l’estasi
che
salgono dal fondo intimo dell’essere umano quando il principium
inidividuationis
soffre un’eccezione. In arte Dioniso dà origine
alle arti non-plastiche, come la musica.
52. Ibidem,
p. 29.
53. Me
sobra el
corazón.
54.
Tutti e due i sentimenti son riuniti, ad esempio, nella Canción del
esposo
soldado.
55. Menos
tu vientre
in Cancionero
y
romancero de ausencias.
56. Bambino
della notte.
57. La
boca.
58.
Con queste parole inizia infatti La
Nascita della tragedia:
«Avremo acquistato molto per la scieenza estetica, quando
saremo
giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza
immediata dell'intuizione che lo sviluppo dell'arte è legato
alla duplicità dell'apollineo
e del dionisiaco,
similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei
sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che
interviene solo periodicamente», F. Nietzsche, op. cit., p.
21.
59. Figlio
della luce e
dell’ombra.
60. Cante
jondo,
“canto
profondo” è il flamenco nella sua forma
più
primitiva. Si noti la prossimità di questo tipo di musica
con il
genere letterario dell’elegia, nel senso originario greco di
“lamento cantato”.
61.
María Zambrano, op. cit., p. 150
62.
Cfr. Alfred de Musset, De
la tragédie in Œuvres
Complètes en prose,
Paris, Gallimard
Bibliothèque de La Pléiade, 1960. p. 889.
63. Canción
del esposo soldado.
64. Hijo
de la luz y de
la sombra.
65.
F. Nietzsche, Il
crepuscolo degli idoli, in Opere,
cit., vol.
VI, tomo III, Quel che
devo devo agli antichi,
pp. 160-161.
66.
Dedica del suo libro Viento
del pueblo a Vicente
Aleixandre.
67. “Spagna,
pietra stoica che si aprì in
due pezzi”, Madre
España, in El
hombre acecha.
68.
Cfr. A. Buero Vallejo, op. cit., p. 33.
69. Corrida
real
(Toro y torero) en Primitivo
Silbo vulnerado. Nello
spagnolo originale, desplante,
qui tradotto come “arroganza”, nel gergo taurino
indica
«un'attitudine di sfida immobile del torero davanti al toro,
generalmente al termine di una serie di mosse, destinata a sottolineare
una dominazione ormai acquisita». Cfr. Francis Wolff, Philosophie de la corrida,
Fayard, 2007. p. 315.
70.
Antonio Buero Vallejo, Mis
recuerdos de Miguel Hernández, para la
exposición Miguel Hernández, poeta.
Alicante, marzo 1992.
71.
F. Nietzsche, La
gaia scienza, in Opere,
cit., vol. V tomo II, libro IV, §337, L'“umanità”
dell'avvenire, p. 197.
73. Canción
última.
74. Cfr. Antonio Machado, Cantares.
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