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Quando la destra pensa la crisi: Giulio Tremonti e il “mercatismo”
Toni Muzzioli
A
partire dalla primavera dello scorso anno, il discorso pubblico sulla
crisi economica ha preso la piega di un forzato ottimismo: le pagine
economiche dei principali quotidiani ci assicurano che il peggio
è passato, che la ripresa è seppur lentamente
ricominciata ecc. Su questa linea si muove ormai in modo sempre
più deciso tutto il nostro governo, a partire dal presidente del
consiglio, forte sostenitore della tesi della natura
“psicologica” della crisi stessa.
Bisogna riconoscere però che nella coalizione di centro-destra
è esistita (e in parte esiste ancora) una voce ben diversa,
quella di Giulio Tremonti, che ha fatto della denuncia del crack del
2008 (sua l’efficace definizione di «global
Parmalat») il proprio tratto distintivo. Una voce che, sapendo
cogliere con anticipo e “nominare” la conflagrazione
imminente, ha permesso a suo tempo alla coalizione di centro-destra di
presentarsi più “attrezzata” del centro-sinistra
all’appuntamento con la crisi. Non è un caso che durante
una trasmissione televisiva (“Anno zero”, RAI 2,
giovedì 26 febbraio 2009), in risposta a chi lo accusava di
sottovalutare la gravità della situazione economica, egli
rispondesse con queste parole: «Io mi sono, noi ci siamo, il
presidente Berlusconi si è presentato alle elezioni con un
programma che ci aveva dentro la parola
“crisi”».
È il marzo 2008 quando Tremonti pubblica un breve saggio
intitolato La paura e la speranza1 in cui vengono
sintetizzati temi e
motivi del proprio orientamento maturato negli ultimi anni, un
orientamento da lui definito prima “colbertista” e, infine,
“antimercatista”. Si trattava, come vedremo ora più
in dettaglio, di una critica degli eccessi della globalizzazione, che
è assai importante studiare e analizzare, poiché non solo
ha anticipato per alcuni aspetti l’atteggiamento prevalente delle
classi dirigenti europee dopo il crack (si pensi alla parola
d’ordine della nuova Bretton Woods)2, ma ha anche
contribuito
notevolmente a quel mutamento nell’orientamento economico della
destra italiana tanto utile nel garantirle la vittoria
“bulgara” alle elezioni politiche dell’aprile
2008.
Durante la campagna elettorale, infatti, a fronte di un Partito
democratico che faceva sfoggio di un’identità postmoderna
e compiutamente interclassista, così si poteva leggere nel libro
di Tremonti che intanto andava a ruba nelle librerie e “a
cascata” influenzava fortemente il discorso pubblico della
destra:
a
È
finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. (…) Low
cost
può ancora essere un viaggio di piacere, ma non la spesa di
tutti i giorni. Un viaggio a Londra può ancora costare meno di
20 euro, ma una spesa media al supermercato può costare ben
più di 40 euro. Come in un mondo rovesciato, il superfluo viene
dunque a costare assurdamente meno del necessario.
(…) Procedendo per inevitabili linee di rottura, la
globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto
con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo
l’inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a
presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il
conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche
che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo.
(…) In Europa, per la massa della popolazione, – non per i
pochi che stanno al vertice, ma per i tanti che stanno alla base della
piramide – il paradiso terrestre, l’incremento di benessere
portato dalla globalizzazione è comunque durato poco, soltanto
un pugno di anni.
Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si
sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare ancora peggio chi
stava già peggio. Sta meglio solo chi stava già meglio3.
a
La
crisi incombente veniva letta secondo un modello interpretativo
“forte”: «la crisi ruota intorno al mercatismo e
questo libro non è affatto contro il liberalismo (anzi),
è contro il mercatismo, la versione degenerata del
liberismo»4. Tremonti dunque non prende posizione
contro il
liberismo (di cui resta un sincero assertore); si scaglia invece contro
i profeti del miracolo di uno sviluppo continuo sotto il segno del
mercato sregolato, supportati da una ideologia «in grado di
attribuire al nuovo mercato una sua propria ragione d’essere, un
nuovo codice universale, una nuova legge capace di modellare la storia
in divenire»5.
Una vera e propria critica della globalizzazione, motivata certo non da
una sorta di tarda conversione all’anticapitalismo –
com’è ovvio – ma piuttosto dalla crescente
preoccupazione per la crisi economica incipiente (almeno
dall’estate 2007, con lo scoppio della bolla dei subprimes,
l’imminenza della “crisi generale” poteva essere
ignorata solo da chi non voleva vedere!) e direi anche per gli elementi
di “disordine” che la globalizzazione aveva finito negli
ultimi anni per portare con sé sul piano geopolitico, con la
crescita di nuovi attori economici (Cina e India, in particolare) e
l’asserita marginalizzazione dell’Europa6. Un
elemento
nuovo, dunque, a partire dall’inizio 2008, si inserisce con forza
nel profilo politico della destra italiana, un tempo espressione somma
del liberismo “puro”, dell’aziendalismo ecc. Un
elemento, questo, che con ogni evidenza ha giocato un ruolo importante
nel consolidare il già forte blocco sociale che da un
quindicennio sostiene le politiche di Berlusconi e delle sue
coalizioni. Ha scritto a questo proposito in un libro acuto sul
“ventennio berlusconiano” Massimo Giannini:
a
Quel libro [La paura e la speranza], se ha avuto e ha una funzione, era ed è solo quella di mettere il cittadino-elettore che lo legge di fronte a uno specchio: guardati, ecco cosa sei e cosa ti hanno fatto diventare. Il mondo che conoscevi, e che hai creduto di abitare nella lunga stagione dell’irresponsabilità nata con il ’68, è caduto in frantumi. Sei solo e indifeso, davanti a un nuovo Leviatano che ti espone a ogni pericolo. Il salario che non basta più, il lavoro che si perde, l’immigrato che te lo scippa, il clandestino che ti deruba, il delinquente che ti rapina, il governante che non ti protegge più, da niente e da nessuno. Se questa è l’eredità che ti lasciano le sinistre, hai solo una speranza, ed è nel “ritorno alle origini” che ti propongono le destre. (…) Disarmante. Ma anche seducente. E alla fine, ancora una volta, vincente. Per Berlusconi non votano più solo i commercianti del Nord che evadono le tasse, ma anche i pensionati del Sud che non arrivano alla quarta settimana. Non votano più solo le casalinghe narcotizzate dal Tg4, da Amici o dalla Ruota della fortuna, ma anche gli emarginati delle periferie “insidiati” dai cinesi, dai polacchi o dai maghrebini7.
a
Certo,
Giannini, vicedirettore della “Repubblica”, si guarda bene
(o forse non ci riesce proprio) dall’evidenziare come in quella
retorica ci sia una base di realtà, che è appunto
l’insicurezza e la sofferenza sociale prodotti realmente
da
vent’anni di cura liberista dell’economia8, ma
questa
è un’altra faccenda. Per noi si tratta ora di prendere
coscienza che questo nuovo orientamento ha giocato e gioca un ruolo
importante nel radicamento ulteriore della destra nel nostro
paese.
Oggi comunque, a molti mesi dall’inizio “ufficiale”
della crisi, posizioni come quelle di Tremonti non sono più
isolate: è ormai l’intera classe dirigente occidentale ad
avere abbandonato i toni apologetici di un tempo sulla globalizzazione,
la finanza ecc. Si pensi a Sarkozy, il quale ha mostrato di prendere
per le corna il toro della finanza sregolata, dicendo parole di fuoco
contro l’irrazionalità del sistema e le teorie
dell’onnipotenza del mercato9. O, dal lato del
centro-sinistra, a
Gordon Brown, che ha cercato di riposizionare il Labour con una
rinnovata attenzione al tema delle regole e dello stesso intervento
statale, abbandonando quella religione dello stato minimo che era stata
propria di Blair. E, da ultimo, rimanendo in Gran Bretagna, al
«conservatorismo civico e comunitario» proposto dal suo
avversario David Cameron10. Ma parole molto dure contro
banchieri e
finanzieri le abbiamo sentite dalla Merkel, da Zapatero, per non
parlare di Obama. Si tratta comunque, in tutti i casi, di ridefinizioni
minime (almeno per ora) e di natura essenzialmente retorica e
“comunicativa”, laddove la sostanza è colta
probabilmente da un commento apparso su “Le Monde
diplomatique”: «una spruzzatina di Keynes in brodo
liberista»11. In effetti, potremmo dire che dalla
crisi del
liberismo, grave ma non mortale, è quasi subito emerso un liberismo
della crisi, nel quale gli assunti centrali del
“credo” vengono mantenuti tutti, ma necessariamente
temperati con il ricorso allo stato (in funzione perlopiù di
salvataggio delle aziende e di “socializzazione delle
perdite”) e con l’invocazione ormai rituale di un
supplemento di regolazione12.
In questo quadro, a muoversi con maggiore disinvoltura sembrano oggi in
tutta Europa le forze dello schieramento “conservatore”
che, a fronte di socialdemocrazie totalmente snaturate da decenni di
cieca obbedienza ai dogmi neoliberali, sono pur sempre capaci di
parlare la lingua della protezione e dell’ordine contro la
finanza sregolata e l’avidità dei banchieri. E qui si
inserisce difatti Tremonti, che sceglie una retorica decisamente
neotradizionalistica, mobilitando tutto un armamentario ideologico
– elementi della dottrina sociale della Chiesa, identità
cristiana e occidentale, motivi dell’anticapitalismo reazionario,
il recupero delle identità locali – che si presta
perfettamente a riempire di contenuti la nuova fase delle politiche
liberiste, apertasi con la Grande Disillusione per le promesse della
globalizzazione. Egli del resto non è nuovo in questo ruolo. Va
tenuto presente che egli viene da un lungo e fecondo rapporto –
fatto anche di consuetudine personale – con i massimi dirigenti e
con lo stesso leader della Lega Nord, un movimento che non ha certo
atteso la grande crisi per sviluppare una propria contestazione, dai
tratti localistici e reazionari, della globalizzazione. Egli anzi
è da tempo il trait d’union tra Forza Italia (e
ora tra
PdL) e Lega, almeno da quando nel 1999 patrocinò il
riavvicinamento tra Cavaliere e Senatùr.
Ed ecco, infatti, l’altro elemento che emerge con forza da La
paura e la speranza, la dimensione per così dire propositiva
del
saggio tremontiano, divisa a sua volta in un insieme di proposte
concrete di politica economica (su cui non è possibile qui
soffermarsi) e nell’affermazione di un quadro di principi e
valori da rilanciare per “uscire dalla crisi”.
Tremonti ama atteggiarsi a contestatore della modernità, sul
filo di una sorta di Kulturpessimismus in salsa
“lumbàrd”, debole e traballante sul piano della
coerenza teorica, ma solido ed efficace come atto d’accusa degli
eccessi della globalizzazione. Un atto d’accusa particolarmente
gradito, in questa congiuntura, in primo luogo a ceti medi impoveriti o
in preda a panico da declassamento, e poi a sempre più ampi
settori proletari frammentati e confusi, oltreché massacrati
dalle politiche sociali degli ultimi due decenni.
Interrogandosi su quella che chiama la fine del
«romanticismo» indotta dallo sviluppo della società
industriale (il «flusso globale e banale dei consumi»),
Tremonti osserva che essa ha avuto innegabili meriti, ma anche effetti
negativi che oggi si traducono in «un vuoto nel cuore e
nell’anima dell’Europa»:
a
La fine del romanticismo è stata (…) anche un male, perché la forza impetuosa del nuovo flusso ha cercato di sbriciolare e di spazzare via, trascinandola con sé, anche una buona parte dell’humus che c’era sul fondo della nostra storia: l’idea che l’uomo non ha creato la società ma, all’opposto, è parte di un meccanismo storico più complesso dell’uomo stesso; l’idea non divisionista e non atomica della sua appartenenza a una comunità storica, a una civiltà organica; l’idea che le sue radici affondino nella stessa terra in cui riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare, l’opposto dell’universale globale…13
a
Tremonti,
insomma, occhieggia alla tradizione dell’anticapitalismo
romantico, senza peraltro giungere davvero ad una sintesi organica, ma
limitandosi appunto ad allusioni. Anzi, in verità più che
di anti-capitalismo romantico, siamo forse qui in presenza proprio di
una visione idealizzata (romantica?) della società capitalistica
stessa: si fantastica infatti di un modello in cui, a fronte della
prosecuzione (o anche dell’inasprimento) delle politiche di
riduzione del pubblico e di piena subordinazione del lavoro salariato,
si affermerebbero armonia e coesione sociale a colpi di tradizione,
disciplina, valori cristiani, Occidente, impresa
“sana”…
Il mercato, in questa visione, resta centrale, l’alfa e
l’omega della vita associata, ma ora gli si affiancano uno stato
capace di far valere una propria funzione attiva, secondo il motto
«market if possible, government if necessary»14,
governi
decisionisti capaci di sanare l’eccesso di democrazia e
permissivismo generato dal lungo Sessantotto (obiettivo polemico che
Tremonti ha in comune con il suo collega Sacconi), attori di contorno
quali la Chiesa, il “privato sociale” e le associazioni del
volontariato, invocati come sostituti del vecchio welfare
«totalitario» (sic), burocratico e
deresponsabilizzante,
secondo la migliore tradizione thatcheriana15. Le due parole
chiave sul
modello sociale di riferimento sono – non a caso –
federalismo e sussidiarietà.
Non deve stupire il singolare miscuglio di liberismo economico e
invocazione dell’identità (europea, nazionale,
locale… su questo Tremonti non è molto chiaro), di
pulsioni tradizionalistiche e cultura edonistico-televisiva, la cui
massima incarnazione è proprio il capo del governo di cui
Tremonti è ministro. Si tratta di un carattere tipico della
“rivoluzione neoliberista” fin dai tempi della Signora
Thatcher e di Reagan (unione di politiche “strutturali” a
favore del grande capitale e di campagne “sovrastrutturali”
di revival conservatore, nazionalista e religioso), ma anche,
più in generale, di un paradosso del capitalismo avanzato, come
ha scritto con intelligenza il critico letterario britannico Terry
Eagleton:
a
È una spiccata caratteristica delle società capitalistiche avanzate essere a un tempo libertarie e autoritarie, edonistiche e repressive, molteplici e monolitiche. E non è difficile scorgerne la ragione. La logica del mercato è quella del piacere e della pluralità, dell’effimero e del discontinuo, di una grande rete decentrata di desiderio di cui gli individui sembrano solo effetti fugaci. Ma per tenere in sesto tutta questa potenziale anarchia occorrono forti fondamenta e una salda struttura politica. Più le forze di mercato minacciano di sovvertire ogni stabilità, più occorre insistere a gran voce sui valori tradizionali16.
a
Con
l’evocazione, di volta in volta, del dirigismo statale (il
già citato “colbertismo”),
dell’antimercatismo, di motivi antimodernisti (in prevalenza sul
piano culturale e del costume), così come più di recente
dell’ordoliberalismo tedesco17, Tremonti segnala con
forza il
proprio posizionamento ideale. Egli si fa cioè assertore di un
liberalismo di tipo nuovo che non abbandona affatto la direttrice
“classica” del liberismo di questi decenni; ma abbandona i
toni entusiasti e ottimisti degli stolidi cantori della globalizzazione
ed acquista quelli protettivi e rassicuranti della
“comunità” (soprattutto locale), del governo forte
(incarnato dal neobonapartismo berlusconiano),
dell’identità occidentale.
L’obiettivo reale infatti è di indurre un deciso
disciplinamento sociale in vista del dopo-crisi, che i centri del
potere economico già prospettano in termini di inasprimento
delle condizioni dei salariati e dei ceti popolari. Una posizione assai
infida e pericolosa, dunque, ma capace di dare una lettura della crisi
coerente ed efficace, mentre il centro-sinistra italiano sembra
incapace di liberarsi da quel “fideismo di mercato”18
che da
troppo tempo costituisce la sua unica visione del mondo.
a
note
1. GIULIO
TREMONTI, La paura e la speranza. Europa: la crisi globale
che si avvicina e la via per superarla, Milano, Mondadori, 2008
[d’ora in poi: PS].
2. Questa parola d’ordine, dall’ottobre 2008 ripetuta come
un mantra ad ogni angolo del Pianeta, si trova già in PS,
p. 106.
3. PS, p. 5 e 7.
4. PS, P. 19.
5. PS, p. 34.
6. Mi pare corretto interpretare la posizione di Tremonti come una
contestazione dell’Europa per non aver saputo egemonizzare la
globalizzazione, come hanno invece saputo fare gli Stati Uniti (cfr. ANTONIO
CARLO,
Capitalismo 2008. Nel tunnel senza uscita,
13.3.2009, p. 42, consultabile alla URL:
http://www.crisieconflitti.it/documenti_lista.asp?ty=articolo),
con i quali infatti si caldeggia una rinnovata alleanza
“egemonica” di fronte al crescente peso globale dei
cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, Cina, India). Una posizione insomma
che, sul suo versante geopolitico, mostra tutta la sua vicinanza
– anche se fuori tempo massimo – con la vecchia politica neocons
di Bush jr.
7. MASSIMO GIANNINI, Lo Statista. Il
Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo, Milano, Baldini
Castoldi Dalai, p. 50-51.
Altrettanto consapevole del ruolo dell’antimercatismo di Tremonti
nel cementare consenso al centro-destra in tempi di crisi è
Luigi Cavallaro, che non manca però di coglierne le ragioni
profonde, fuori dall’insopportabile elitarismo della sinistra liberal.
Secondo Cavallaro, infatti, «sarebbe oltremodo sbagliato se
l’intellettualità di sinistra liquidasse il ragionamento
di Tremonti con un’alzata di spalle. Le “paure” di
cui egli scrive nel suo libretto sono infatti le stesse che hanno
condotto gli operai del Nord a votare Lega e quest’ultima a
sfondare persino nell’“Emilia rossa” d’un
tempo. Sono le paure generate da politiche economiche sbagliate, che
hanno eretto a feticcio il “risanamento finanziario”
disinteressandosi delle sue conseguenze sull’economia reale.
Paure indotte da una immigrazione regolare e clandestina certo modesta,
ma comunque sufficiente ad accelerare il trend discendente dei salari
e, per colmo d’ironia, spacciata addirittura come
“necessaria”. Da politiche “sicuritarie” a
parole ma in realtà incapaci di fronteggiare la crescita di zone
franche ai margini delle nostre città e non di rado anche al
loro interno» (LUIGI CAVALLARO, La
“comunità” che viene, “il
manifesto”, 17 maggio 2008, ora in ID., Tra due destre. La
politica economica del tempo presente, Ancona, Cattedrale, 2008, p.
120-121).
A titolo di esempio, si riportano alcune affermazioni di Sarkozy tratte
da quello che in Francia è ormai celebre come “discorso di
Tolone” (24 settembre 2008): «L’idea
dell’onnipotenza del mercato che non doveva essere contrastato da
nessuna regola, da nessun intervento politico, era un’idea folle.
L’idea che i mercati hanno sempre ragione, era un’idea
folle. (…) La crisi attuale ci deve incitare a rifondare il
capitalismo su un’etica della fatica e del lavoro, a ritrovare un
equilibrio tra la libertà e la regola, tra la
responsabilità collettiva e la responsabilità
individuale.» (cfr.
Le discours de Nicolas Sarkozy à Toulon
). Può essere interessante osservare che moltissimi passaggi di
questo discorso, oltre a quello citato, sono in piena sintonia con
affermazioni del nostro ministro dell’economia. In alcuni casi,
poi, la somiglianza è quasi letterale.
Così gli ingredienti essenziali del nuovo conservatorismo
britannico sono stati sintetizzati: «rivitalizzazione dei corpi
intermedi e ri-territorializzazione dell’economia. Il welfare
dovrebbe essere decentrato e in parte delegato al mondo delle
associazioni e delle cooperative. I territori dovrebbero diventare
motori di sviluppo tramite una completa riorganizzazione del sistema
bancario e degli incentivi pubblici, al fine di promuovere
l’accesso al credito per tutta la “gente comune” e di
sostenere i piccoli produttori contro il big business e i vari
monopoli, pubblici e privati. Le risorse locali dovrebbero essere usate
primariamente per le esigenze di crescita reale, scoraggiando ogni
impiego speculativo» (MAURIZIO FERRERA, I
«conservatori rossi» di Cameron: una possibile risposta ai
localismi, “Corriere della sera”, 3 aprile 2010, p. 12).
11. Cfr. LAURENT CORDONNIER, Un pizzico di Keynes
in brodo liberista, “Le Monde diplomatique”, ed. it.,
aprile 2009, p. 4-5.
12. Alla base di questo orientamento, ormai generalizzato tra i
governanti, sta infatti quella che Emiliano Brancaccio ha definito una
interpretazione «minimalista» della crisi attuale, volta ad
oscurare i suoi caratteri strutturali: «…la tesi
più accreditata tra gli esponenti del mainstream
neoclassico è che le determinanti siano da ricercare in una
politica monetaria americana lassista, e nell’assenza di vincoli
all’uso della leva finanziaria da parte delle banche» (cfr.
EMILIANO BRANCACCIO, Un’ombra in fondo al
tunnel, “Marxismo oggi”, 1-2009, p. 58-59).
13. PS, p. 75.
14. PS, p. 82.
15. Cfr. PS, p. 90.
16. TERRY EAGLETON, Le illusioni del postmoderno,
Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 148.
17. L’ordoliberalismo è una scuola di pensiero economico
che si sviluppa tra Austria e Germania negli anni Trenta e che cerca di
ripensare il liberalismo, nel contesto della grande crisi, alla luce di
un ruolo attivo dello Stato e del rifiuto dell’autoregolazione
del mercato. Ripresi nel dopoguerra nella Repubblica Federale Tedesca,
i contenuti dell’ordoliberalismo contribuirono alla elaborazione
del modello della “economia sociale di mercato”. Il
riferimento a questa tradizione è comparso a partire
dall’autunno 2008 in diverse circostanze (cfr. ANGELO
PANEBIANCO, Il mercato nell’angolo,
“Corriere della sera”, 16 marzo 2009, p. 1). Va osservato,
in ogni caso, che nella visione (e a maggior ragione nella prassi) del
nostro ministro dell’economia il richiamo
all’“economia sociale di mercato” appare slegato da
qualunque propensione alla spesa sociale o a politiche dei redditi
espansive (cfr. ALBERTO BERRINI, Come si esce dalla
crisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 77).
18. L’efficace espressione è di Giorgio Ruffolo (cfr. MARCO
D’ERAMO, Il debito del capitalismo [intervista a
Giorgio Ruffolo], “il manifesto”, 1 novembre 2009, p. 2-3).
[12 maggio 2010]
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