home> conflitto/lavoro> L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze
L’arrestabile
ascesa della scuola delle competenze
Alcune riflessioni sui cambiamenti in atto nel sistema scolastico
italiano
Silvia Di Fresco, Matteo Vescovi
State pur
tranquilli / ci saranno sempre
più poveri e più ricchi / ma tutti più imbecilli.
G.Gaber, La razza in estinzione
1. Società della conoscenza/società del
controllo
di Silvia Di Fresco
Sulle
pagine della rivista «L'ospite ingrato» dedicata al tema della
conoscenza,
Sergio Bologna1, dopo aver sottolineato l’inefficacia
dell’attuale
sistema formativo, concludeva il suo articolo chiedendosi quale possa
essere il futuro degli studi umanistici in un contesto in cui il
lavoro, e il suo linguaggio, sono altamente dominati dalla tecnologia.
Il problema ovviamente non riguarda solo l’Italia e non coinvolge solo
aspetti interni alla didattica, ma riguarda il modello di società che
saremo in grado di immaginare per risolvere i giganteschi problemi
ecologici e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È quella che
recentemente Martha Nussbaum ha definito come «crisi dei saperi
socratici», cioè di quei saperi che sviluppano competenze non
misurabili come la capacità di confrontarsi e mettersi in discussione,
di assumere il punto di vista dell’altro, di produrre soluzioni
innovative (e non esecutive) rispetto ai contesti in cui sorgono i
nostri problemi. Saperi che rappresentano le finalità di un’educazione
rivolta alla costruzione di una comunità democratica, all’interno dei
quali l’insegnamento di materie letterarie e scientifiche va
salvaguardata rispetto a un’educazione schiacciata sui saperi tecnici e
specialistici. Sostiene la Nussbaum che tali insegnamenti hanno persino
una finalità economicistica indiretta in quanto «l’innovazione richiede
intelligenze flessibili, aperte, creative. La letteratura e le arti
stimolano queste facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale perde
colpi in fretta»2.
Essendo questi saperi strumenti per la produzione del cambiamento, in
apparenza tutto sembrerebbe chiaro: se si vuole produrre alternative
alla crisi economica esistente bisogna investire sui saperi socratici,
altrimenti il sistema produttivo non riuscirà a mettere in circolo
nuove idee e quindi a risollevarsi. Ora, le continue revisioni dei
sistemi scolastici degli ultimi venti anni sia a livello europeo che in
altre nazioni, pur prospettando a parole di perseguire finalità di
ampio respiro, sembrano inspiegabilmente produrre effetti contrari
sulla popolazione scolastica, sia in termini di decadimento degli
apprendimenti sia in termini di risorse sociali che i ragazzi
acquisiscono durante il loro percorso scolastico. Dando qui assodato il
fatto che, nella nostra economia, l’accumulazione del profitto sia in
prevalenza dovuta a dispositivi immateriali, una delle cause principali
di questa crisi dei sistemi educativi, a nostro avviso, è proprio
quella di aver pensato alla conoscenza nell’ottica della propria
utilizzazione all’interno del mercato del lavoro, facendo quindi
coincidere il bagaglio cognitivo in nostro possesso con l’utilità che
esso produce3. Tale concezione ha di fatto non solo prodotto
gravi
storture nell’organismo della Pubblica Istruzione, ma ha determinato,
al suo interno, anche la dequalificazione stessa della conoscenza tout
court. Se, infatti, il sapere degli individui diventa un prodotto che
gli stessi possono acquisire (o meglio acquistare), va da sé che esso,
per essere capitalizzato, debba essere contabilizzato. Le conoscenze
richieste, quindi, devono essere ridotte a pacchetti di cosiddette
“competenze” più o meno complesse di cui va “certificata” appunto
l’acquisizione, considerata così detenuta in via definitiva dall’alunno
(al pari di un utensile), salvo poi doversi aggiornare continuamente a
causa della loro obsolescenza. In questo modo, il compito di educazione
passa dalla formazione (dare una forma) del cittadino a quello
dell’informazione (trasmettere pacchetti di conoscenze e
competenze
prestabilite) trasmesse all’utente, con tutto ciò che questo comporta4.
In questa sede, non vogliamo entrare nel merito dell’analisi delle
forme economiche in atto, ma sottolineare come queste ultime
rappresentino un modello paradigmatico dei sistemi educativi che si
vanno realizzando a livello internazionale e, in particolare, nel
nostro paese. La nostra tesi è che questo modello sia gravemente
distorsivo delle relazioni educative e produttore di nuovi meccanismi
di controllo sociale, finalizzati alla riproduzione dell’attuale
sistema di accumulazione diseguale del profitto.
Per prima cosa, quindi, occorre riflettere sulla definizione di ciò che
in questo contesto si intenda debba fornire la scuola ai cittadini che
la frequentano. Da questo punto di vista, la sintesi operata in questi
anni dai lavori del Parlamento e della Commissione Europea sono
esaustivi della visione che si va promuovendo nell’UE. Nelle
raccomandazioni 962 del 2006 Le competenze chiave per l’educazione
e
la formazione per tutta la vita” del Parlamento e Consiglio europeo,
si
legge:
a
Le competenze chiave sono essenziali in una società fondata sulla conoscenza e garantiscono vantaggi nel rinnovo della mano d’opera. La flessibilità di chi le acquisisce gli permette di adattarsi più rapidamente all’evoluzione costante di un mondo caratterizzato da una grande interconnessione. Esse costituiscono anche un fattore essenziale di innovazione, produttività e competitività, e contribuiscono alla motivazione e soddisfazione dei lavoratori, oltre che alla qualità del lavoro5.
a
Successivamente,
senza chiarire che cosa si intenda in questo contesto con il termine
competenze, si passa alla definizione di queste «competenze di base»
richieste ai futuri cittadini europei, che prevedono capacità e
conoscenze di basso profilo (giustificate dall’esigenza di essere
accessibili a chiunque) e che riguardano: la capacità di esprimersi
nella propria lingua madre e nelle lingue straniere; la capacità di
risolvere diversi problemi della vita quotidiana di carattere
scientifico-matematico; la capacità di utilizzare le tecnologie
informatiche; la capacità di «apprendere ad apprendere» intesa nel
senso banalizzato di sapersi adattare ai cambiamenti; «competenze
sociali e civiche» che corrisponderebbero al benessere personale e
collettivo e alla capacità dell’individuo di inserirsi all’interno dei
contesti sociali e politici; «lo spirito d’iniziativa e d’impresa»
ovvero la capacità di passare dall’idea all’attuazione in modo che
l’individuo sia in grado di cogliere le occasioni che gli si
presentano; e infine, una certa sensibilità estetica che implichi la
consapevolezza dell’importanza dell’ «espressione creatrice di idee».
Si tratta in sostanza di un ritratto dell’uomo medio europeo, il
quale
deve possedere un livello di istruzione base al limite
dell’analfabetismo, deve aver introiettato il modello individualista e
neoliberista della società e aver accettato la continua mobilità
lavorativa, sviluppando capacità individuali di adattamento alle
esigenze di un contesto per definizione precario, le cui oscillazioni
sono tanto incomprensibili quanto inevitabili, proprio come il destino
nell’antica Grecia. D’altra parte non si fa alcun cenno a capacità che
prevedano la costruzione di saperi critici e che si basino
sull’acquisizione dei fondamenti delle discipline insegnate, né viene
sentita l’esigenza di valorizzare l’autorganizzazione collettiva, o la
promozione di valori cooperativi, ecologici, antiautoritari
(fondamentali per la coesistenza democratica), ma ci si accontenta di
citare tra parentesi generiche affermazioni di democrazia, giustizia e
uguaglianza.
In questo quadro, è evidente che all’Istruzione è assegnato il
raggiungimento di nuovi obiettivi nell’ottica della riproduzione di un
certo profilo di lavoratore adatto alle mutate esigenze economiche. Nel
fordismo postbellico, infatti, la funzione della scuola era quella di
produrre e trasmettere i saperi di base per poi specificarli,
all’interno di percorsi diversificati (liceali/professionali), coerenti
con la polarizzazione sociale dei saperi stessi, anticamera della
separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Nell’era del
capitalismo cognitivo, invece,
a
la messa in discussione della tendenza alla polarizzazione dei saperi va di pari passo, a livello macro economico, con la crescita di quella parte del capitale detta immateriale (sanità, educazione, ricerca, ecc.) che oltrepassa oramai quella del capitale materiale. Insomma, la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte della sfera del lavoro salariato e dell’universo mercantile, principalmente nel sistema di formazione e di ricerca. [In tale contesto] […] i tempi lunghi della formazione e dell’apprendimento, necessari a una capacità competitiva fondata sull’innovazione e sul coinvolgimento reale dei lavoratori, sono spesso sacrificati al profitto di breve periodo della flessibilità reattiva alle mutazioni della domanda e di una visione che fa dell’impiego la sola variabile di aggiustamento che permette di far apparire dei risultati finanziari immediatamente visibili. Il controllo attraverso l’obbligo di risultati si sostituisce al controllo attraverso la prescrizione dei mezzi e delle procedure6.
a
In
quest’ottica, e come d’altronde emerge dal basso profilo delle
competenze chiave individuate dal Parlamento europeo, per coloro che
occuperanno i posti dirigenziali (20-25%) in questa società, il livello
di preparazione conseguito negli attuali sistemi scolastici è già
obsoleto, mentre per quel 40-50% che sarà impiegato in posti a livello
di qualificazione molto bassa, quello stesso sapere, risulterà
superfluo7. Ecco allora che l’esigenza di tagliare risorse
all’attuale
sistema d’istruzione pubblica e la volontà di trasformare il docente in
un facilitatore (altrimenti detto tutor) risulta coerente con
il
proposito di mantenere tale forbice sociale, così da predisporre i
primi a un sapere specialistico acquistabile altrove e da privare i
secondi di quelle conoscenze utili all’uomo, ma non al lavoratore
flessibile/precario della nuova economia8.
Il cambiamento in questa direzione è stato avviato in Italia a partire
dalla legge sull’autonomia del 19979, anche se in realtà era
già dalla
fine degli anni Ottanta che la classe politica pensava a come
raggiungere i traguardi suggeriti dalla Tavola Rotonda Europea degli
industriali. Quest’ultima, infatti, sin dal 1989 faceva presente, in
particolar modo alla Comunità Europea, che era necessario moltiplicare
i partenariati tra le scuole e le imprese invitando gli industriali a
prendere parte attiva allo sforzo educativo e gli Stati a muoversi
verso un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro
programmi10. Il passaggio dalla teoria alla pratica è stato
breve: nel
1992, con il trattato di Maastricht, l’Unione europea inizia a
occuparsi di scuola e il rapporto tra ciò che ERT dice e ciò che
l’Europa fa è piuttosto stretto.
a
La
responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta
dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si
percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui
l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un
servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero
vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla
tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento
[ERT, 1995]11.
Non abbiamo tempo da perdere. [...] Ci appelliamo ai governi perché
diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al
tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i
metodi d’insegnamento con la tecnologia» [ERT, 1997]12.
a
Nello
stesso anno la Commissione europea pubblica il Libro bianco
sull’Istruzione nel quale tra le altre cose si può leggere:
a
IV
Le vie del futuro. Il problema cruciale dell’impiego, in una
società in
continua trasformazione, spinge inevitabilmente i sistemi di educazione
e di formazione a modificarsi. È importante mettere al centro delle
nostre preoccupazioni la pianificazione di una formazione adatta alle
prospettive di lavoro e impiego. La necessità di un tale sviluppo è
condivisa ormai da tutti e la migliore prova di ciò è la fine delle
grandi dispute ideologiche sulle finalità dell’educazione. La questione
centrale è di andare verso una maggiore flessibilità dell’educazione e
della formazione, permettendo di tenere conto delle diversità delle
richieste delle persone. […] Questo sforzo di adattamento si è
concentrato in particolare in tre principali direzioni: l’autonomia
degli attori della formazione, la valutazione dell’efficacia
dell’educazione e la priorità riconosciuta alle persone in difficoltà13.
a
Il
documento continua sostenendo l’esigenza che i sistemi di educazione
tradizionali si rendano più flessibili per adattasi alle mutazioni del
mercato del lavoro e alle richieste di una società dell’ «apprendimento
continuo» (traduzione letterale di «learning society» rispetto alla più
diffusa «società della conoscenza»). Invita inoltre le istituzioni
educative ad adeguarsi alla certificazione dei propri risultati, in
modo da rendere paragonabili gli esiti della formazione e abbandonare
le pretese di strutturare i propri percorsi d’istruzione secondo una
logica, quella degli esami e dei diplomi, ritenuta troppo rigida
rispetto alle esigenze attuali. In sostanza il dibattito sulle finalità
dell’educazione sarebbe venuto meno in quanto le imprese avrebbero
riconosciuto l’esigenza di un’istruzione diffusa, ma adeguata alle
competenze minime richieste per adattarsi alle sue esigenze. Ciò
implicherebbe, quindi, di conseguenza, un adattamento acritico dei
sistemi di istruzione europei a queste nuove
esigenze.
A ben vedere, dunque, non possiamo considerare le riforme della scuola
attuate da metà degli anni Novanta ad oggi come tentativi di uscire da
una supposta crisi educativa, bensì esse vanno interpretate come mezzi
per realizzare un nuovo modello di società, basato su un nuovo rapporto
tra educazione, lavoro e cittadinanza. Alla luce di tutto ciò, si può
legittimamente ritenere che si tratti di azioni legislative che
producono, piuttosto che correggere, la crisi educativa, accentuando il
decadimento dei livelli di istruzione e la frammentarietà dei processi
educativi.
In sostanza, quello che viene proposto all’interno della scuola è il
dispiegarsi di un modello sociale non lontano da quello che Deleuze,
già nel 1990, definiva società del controllo, ovvero una società
in cui (a differenza dei sistemi disciplinari del XIX secolo dove si
era inseriti, in modo quasi ininterrotto, all’interno di istituzioni
totalizzanti quali scuola, ospedale, esercito, fabbrica, carcere, ecc.)
non si termina mai nulla, non si possiede mai un’identità definita (non
più firma, ma password), non si è mai pienamente dentro o fuori
l’istituzione. Il controllo, infatti, è una modulazione che si modifica
continuamente.
Ciò appare evidente, per quanto riguarda l’Italia, se consideriamo non
solo l’effetto dei tagli all’istruzione pubblica nell’equilibrio con la
scuola privata, ma anche, per esempio, l’introduzione strumentale di
sistemi per la valutazione del merito all’interno del sistema
scolastico. Come si vedrà nel paragrafo 3, questi strumenti si
configurano come veri e propri dispositivi panoptici14, che
insieme a
controllare i saperi, producono un disciplinamento degli studenti e dei
docenti funzionale agli obiettivi esplicitati nei succitati documenti
dell’ERT.
Senza dubbio già la fabbrica conosceva il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza più profondamente di imporre una modulazione di ogni salario, in stati di meta-stabilità che passano attraverso sfide, concorsi e colloqui […]. Il principio modulatore del “salario al merito” non manca di tentare anche la stessa Educazione nazionale: in effetti come l’impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola e il controllo continuo a prendere il posto dell’esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all’impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l’impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale15.
a
2. La riforma epocale dell’Istruzione in
Italia
di Vescovi Matteo
Il
modello di scuola che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi non è
quindi il frutto di interessi contingenti (la crisi economica, la lobby
di Comunione e Liberazione, o altro), ma è stata a lungo preparata e
richiesta da diversi soggetti politico-imprenditoriali, non solo
italiani. Come abbiamo già detto è a partire dalla legge sulla
autonomia scolastica che si risponde all’appello che viene dall’ERT e
dall’Europa. Da quella legge, nonostante il progetto del Ministro
Berlinguer non sia arrivato a conclusione, la scuola cambia la sua
funzione e il suo linguaggio: il preside diventa dirigente, gli
studenti diventano utenti e i docenti, pur mantenendo integro il
proprio statuto giuridico, divengono lo strumento per far sviluppare
una cultura del lavoro intesa «come disponibilità, nel corso della
propria vita, a cambiare sovente attività lavorativa»16.
A sottolineare la portata simbolica di suddetto cambiamento,
contribuisce un progetto di legge (3414/97) presentato da un gruppo di
parlamentari, tra cui Berlusconi, due giorni prima dell’approvazione
della legge 59/97; in esso, oltre ad affermare che per migliorare la
qualità dell’insegnamento è necessaria «la competizione fra una
pluralità di offerte» e «la mobilitazione del privato affinché investa
nel sistema di istruzione e di formazione nazionale», si propone
l’istituzione di un Sistema nazionale di valutazione (costituito
dal Ministro Berlinguer nel 1999), perché rilevi «la produttività del
servizio pubblico» al fine di «conciliare il principio delle
opportunità educative con le strutture del mercato ridefinendo tutto il
servizio pubblico»17. Intenzioni di questo genere vengono
sempre
promosse argomentando che tale cambiamento di direzione sia necessario
al fine di integrare con più facilità gli individui nel mondo del
lavoro (funzione manifesta) e che questo non sia, per l’istruzione, un
aspetto negativo. Se, però, pensiamo anche solo ai documenti succitati
prodotti dall’ERT, dal Parlamento europeo e dai nostri governi in
merito all’educazione, allora ci rendiamo conto che la funzione latente
attribuita alla scuola è in realtà un’altra ben più complessa: imporre
cambiamenti sociali strutturali attraverso il cambiamento del sistema
educativo.
Tale ambiguità di funzione è resa possibile anche attraverso l’uso di
un lessico generico alla cui definizione, chi lo utilizza nelle sedi
ufficiali, non procede mai. Infatti, la stessa indeterminatezza che
abbiamo visto nell’uso del concetto di competenza, compare parimenti
nell’utilizzo di quello del sapere. Nei regolamenti della riforma
Gelmini, ad esempio, colpisce come tale lemma, sempre declinato al
plurale, sia affiancato, per quanto riguarda gli istituti professionali
e tecnici, a quello di competenze e finalizzato al «rapido inserimento
nel mondo del lavoro», mentre, assai gentilianamente, solo per il liceo
classico esso venga affiancato da derivati dell’aggettivo «critico» e
disgiunto da qualsiasi utilità contingente.
a
L’identità
degli istituti tecnici si caratterizza per una solida base culturale di
carattere scientifico e tecnologico in linea con le indicazioni
dell’Unione europea […] con l’obiettivo di far acquisire agli studenti,
in relazione all’esercizio di professioni tecniche, i saperi e le
competenze necessari per un rapido inserimento nel mondo del lavoro,
per l’accesso all’università e all’istruzione e formazione tecnica
superiore. […]
Il percorso del liceo classico [...]favorisce l’acquisizione dei metodi
propri degli studi classici e umanistici, all’interno di un quadro
culturale che, riservando attenzione anche alle scienze matematiche,
fisiche e naturali, consente di cogliere le intersezioni fra i saperi e
di elaborare una visione critica della realtà. […] Gli studenti, a
conclusione del percorso di studio, oltre a raggiungere i risultati di
apprendimento comuni, dovranno: [...] saper riflettere criticamente
sulle forme del sapere e sulle reciproche relazioni e saper collocare
il pensiero scientifico anche all’interno di una dimensione
umanistica18.
a
Visto che non «può esistere insegnamento e apprendimento senza che ci si riferisca a un sapere, inteso come oggetti di conoscenza previsti e controllati a livello istituzionale (materie di studio, esami, voti…)»19, diventa dunque necessario soffermarci sulle caratteristiche di questo sapere e su quali funzioni si debba attribuire all’istituzione che ha il compito di trasmetterlo/costruirlo. Come ricordava anche Marcello Cini20, Robert K. Merton individuava, a fondamento dell’etica della scienza, quattro imperativi: l’universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e il dubbio sistematico. Premesso che per universalismo non si deve intendere l’oggettività21 del sapere in senso astratto e positivista ma, al contrario, la ricerca di quei significati e quei valori socialmente riconosciuti (e perciò, in questo senso, universali) che permettano la riformulazione dall’oggettività di cui sopra all’intersoggettività, possiamo parimenti estendere tali caratteristiche al sapere come complesso delle conoscenze e attitudini acquisite dall’individuo nel suo percorso educativo. Infatti,
a
il dubbio sistematico e l’indipendenza intellettuale sono necessari per evitare l’accettazione di rivendicazioni di conoscenza basate sulla fede o sull’autorità. Infine, anche il comunitarismo (cioè l’obbligo morale, per ogni scienziato, di render pubblica ogni sua scoperta per farla conoscere ai suoi colleghi) e il disinteresse (cioè la spinta morale ad anteporre gli interessi del progresso della scienza ai propri interessi individuali) sono indispensabili per garantire che ogni nuova rivendicazione di conoscenza venga esaminata criticamente […]22.
a
Alla
luce di quanto appena detto, appare allora evidente che i principi di
Merton, spogliati della loro specificità, sono alla base di ciò che,
più comunemente, viene chiamato sapere critico e sottendono a quella
concezione ampia di educazione che la nostra Costituzione specifica nel
già citato art. 3. La scuola, cioè, dovrebbe educare alla
collaborazione tra pari, al bene comune e, infine, al dubbio
sistematico e all’indipendenza individuale.
Per realizzare questi alti obiettivi di cittadinanza i costituenti
hanno assegnato al corpo docenti una grande responsabilità quando gli
hanno riconosciuto con l’art. 33 la massima libertà d’insegnamento. Il
principio guida conservato nella nostra carta costituzionale, infatti,
riconosce che solo attraverso la libertà di chi insegna si può
apprendere la libertà e l’autonomia di giudizio. Questo principio
costituzionale ha trovato la sua realizzazione solo nel 1974 con la
legge che istituiva gli organi collegiali (Collegi docenti, consigli di
classe, eccetera) dove agli insegnanti è stata riconosciuta una
autonomia di governo simile a quella accordata alla magistratura. Allo
stesso tempo la Repubblica con l’art. 34 si è impegnata a rendere
effettivo il diritto allo studio di tutti i suoi futuri cittadini,
obbligandosi a costruire scuole di ogni ordine e grado, e non
limitandosi ad una semplice funzione sussidiaria. Solo una scuola che
garantisca a tutti le condizioni necessarie per raggiungere gli
obiettivi di cittadinanza che ci si è posti come fondamento del proprio
sistema educativo, può sperare che i principi affermati abbiano una
qualche speranza di essere realizzati23. Già oggi, dunque,
la scuola
italiana, nata dalla costituzione democratica e antifascista, si può
ritenere pensata all’interno del concetto di bene comune24.
Essa,
infatti, è una istituzione protetta da forme di governo esterno e
improntata ad una logica della massima condivisione delle decisioni e
della massima fruibilità dei soggetti appartenenti alla comunità
nazionale. Una riforma scolastica degna del compito affidato alla
scuola dalla Costituzione avrebbe, pertanto, il dovere di migliorare
gli spazi di autogoverno e le pratiche di condivisione del processo
educativo, mantenendo come compito principale del Ministero l’obiettivo
dell’allargamento e del miglioramento del diritto allo studio.
Obiettivi per altri versi continuamente affermati sulla carta dai
governi degli ultimi venti anni, ma disattesi nei fatti.
Precisamente se, come le ultime riforme sottendono, si introduce
nell’istituzione scolastica la logica del mercato e i principi
organizzatori delle aziende, le prerogative costituzionali tenderanno
giocoforza ad essere sostituite dall’individualismo, dalla
competitività e della logica dell’efficacia produttiva, ovvero dai
valori dell’impresa. D’altronde sono proprio questi i valori condivisi
dai due progetti di riforma di centrodestra e centrosinistra negli
ultimi 4 anni.
a
Gli
interventi per accrescere la flessibilità dell’organizzazione del
servizio di istruzione e per migliorare la progressione professionale
degli insegnanti considerati in questo Quaderno sono quelli per i quali
esistono priorità e condizioni per un’azione tempestiva e per
conseguire primi risultati, veri e visibili, in tempi non lunghi. […]
Al fine di costruire prospettive di progressione retributiva legate
all’impegno e al merito, è in primo luogo possibile, per le scuole che
scelgano o siano oggetto di supporto valutativo nazionale secondo le
modalità indicate, prevedere incentivi per il complesso degli
insegnanti (e del personale) in relazione al conseguimento di obiettivi
di progresso identificati sulla base della diagnosi valutativa.
Il superamento della vecchia concezione del collegio docenti […]
con
l’assegnazione all’autoregolazione interna di tipo professionale delle
competenze e dell’articolazione del lavoro, valorizza e rispetta la
libertà di insegnamento, perché libera la scuola e il lavoro
dell’insegnante da vincoli esterni e di tipo burocratico. […]
Le valutazioni periodiche costituiscono credito professionale
documentato utilizzabile ai fini della progressione di carriera e sono
riportate nel portfolio personale del docente25.
È
evidente, perciò, che ci troviamo di fronte ad una svolta epocale
all’interno del sistema scolastico italiano, il quale si inserisce,
come abbiamo visto, nella più ampia modificazione della funzione della
scuola nell’intero sistema europeo e in ambito nazionale si affianca ad
altrettanto importanti e diffuse modificazioni di senso e di funzione
di molte istituzioni pubbliche e in generale di un riequilibrio del
sistema economico del paese verso sempre più marcate divisioni sociali.
Basta ricordare due dati: da un lato l’aumento dello squilibrio tra
ricchi e poveri, dall’altro il processo, all’apparenza inesorabile, di
deindustrializzazione del paese26. Certo non possiamo
dipingere il
paese come se fosse diventato l’Argentina o la Bolivia, ma non dobbiamo
nasconderci che dopo venti anni di neoliberismo e di politiche europee
la tendenza in atto vada in quella direzione. Ritorniamo, quindi, al
tema centrale dell’articolo.
Su di una cosa il Ministero dell’Istruzione va preso sul serio, quando
dice che si tratta di una riforma epocale. Da molte parti le si è
risposto che di epocale c’erano solo i tagli sottovalutando, invece, la
funzione tattica che questi tagli avevano. La riduzione di spesa è
stata invece, in tutto e per tutto, uno strumento per realizzare una
riforma già preparata da tempo. Come abbiamo detto, nel 1997 i due
schieramenti politici producono i primi due progetti di legge organici
che di fatto contengono le linee guida dei provvedimenti attuati in
questi anni. Per quanto riguarda la strategia di attuazione portata
avanti dal Ministro Gelmini, è da pensare che non sia frutto del caso,
ma che comporti una progettazione ben precisa ed una intenzione più o
meno consapevole, perché analoga ad altri ambiti di governo, di
destrutturare il sistema legale del paese.
Infatti, la modalità con cui hanno lavorato i responsabili dei due
ministeri dell’Economia e dell’Istruzione (per attenerci solo
all’ambito della scuola) è di fatto del tutto illegittima. Oltre alle
numerose sentenze avverse, il TAR del Lazio ha confermato che le due
circolari del 2009 e 2010 con cui sono stati attuati i tagli erano
appunto prive di alcun valore giuridico (come già era stato denunciato
da tanti genitori, studenti e insegnati nei due anni di mobilitazioni).
Ciononostante il MIUR ha fatto di questa noncuranza delle procedure
legali il proprio stile di governo. Già la stessa modalità con la quale
è stata attuata la riforma è invalida a livello costituzionale, poiché
ribalta l’ordine giuridico dei provvedimenti mettendo i tagli del
Ministero delle Finanze come punto imprescindibile di leggi del
Parlamento e del Ministero dell’Istruzione. Ciò, anche se fosse solo il
frutto della debolezza dell’attuale dicastero dell’Istruzione, risponde
in ogni caso all’esperienza quindicennale di tentativi di attuazione
del modello “ERT- Unione europea” che sono stati costantemente
ostacolati e in buona parte fermati dalle mobilitazioni dei cittadini.
Gli anni che stiamo passando, invece, sono a tutti gli effetti
comprensibili come una incisiva e per il momento riuscita «shock
terapy»27 dopo la quale l’intero sistema scolastico si
strutturerà
all’interno del nuovo paradigma.
È merito della scrittrice Canadese Naomi Klein aver portato in luce la
strategia che a partire dal colpo di stato in Cile 1973 è stata
ripetutamente utilizzata dai governi e dalle lobby interessate per
l’applicazione del modello economico neoliberista (per quanto riguarda
l’Italia essa fu applicata su larga scala dai governi cosiddetti
tecnici dei primi anni Novanta). Fu lo stesso Friedman a teorizzare la
necessità di sfruttare quei momenti di incertezza collettiva per
imporre cambiamenti irreversibili. Secondo l’economista fondatore della
scuola di Chicago «Solo una crisi reale o percepita, produce vero
cambiamento»28. Da un lato, quindi, è necessario possedere
modelli già
elaborati del cambiamento che si vuole produrre, per poter essere
pronti quando si presenterà l’occasione di una crisi, dall’altro è
necessario agire velocemente per sfruttare la finestra di possibilità
che si è aperta ed imporre queste trasformazioni in modo irreversibile.
A questa linea di condotta sembra essersi ispirato il governo
Berlusconi appena insediato nel maggio del 2008. Da un lato, con la
minaccia della crisi economica alle porte ha realizzato una
«finanziaria rivoluzionaria»29 perché imponeva tagli a
tutti i settori pubblici (e nello
specifico 8 miliardi di euro in meno al settore dell’istruzione) per i
successivi tre anni, senza che fosse possibile emendarla; dall’altra
aveva presentato già il 12 maggio 2008 un progetto di legge coerente
con i tentativi del 1997 e del 2003: il progetto di legge Aprea. Nei
mesi successivi, in particolare dopo la riapertura dell’anno
scolastico, le proteste e il diffondersi dell’informazione
nell’opinione pubblica dei principali provvedimenti contenuti del PDL
Aprea (ingresso dei privati nella gestione delle scuole, costruzione di
un modello scolastico di tipo aziendale) hanno spinto a bloccare la
discussione di questo testo in parlamento e a proseguire l’attuazione
del progetto di riforma utilizzando strumenti legislativi non idonei,
ma più efficaci perché non gravati dai tempi della discussione
parlamentare. Così la Riforma contenuta nel PDL Aprea si sta di fatto
realizzando attraverso provvedimenti del Ministero dell’Istruzione che
passano attraverso decreti legislativi, circolari o addirittura note
ministeriali. Tutte fonti amministrative che di per sé non potrebbero
contraddire le leggi attualmente vigenti, ma che passano grazie
all’inerzia collettiva, sia per la lentezza e l’inefficacia con cui i
tribunali si pronunciano, sia per una abitudine diffusa nelle
amministrazioni locali e anche tra i colleghi insegnanti a gestire
questi processi come semplici adempimenti burocratici.
Sono talmente tante le disposizioni del Ministero dell’Istruzione che
violano il senso o la lettera delle attuali norme che regolano la vita
all’interno degli istituti scolastici che sarebbe assai difficile
e noioso citarle una per una, si va dal mancato rispetto del numero di
alunni per classe (in media le classi italiane sono costruite per
accogliere 25 alunni, ma le circolari del Ministero obbligano le scuole
a costituire le nuove classi a partire da 27 alunni), agli inviti alle
scuole a modificare i bilanci per l’anno 2009/2010, fino alle circolari
che (come già detto) hanno imposto di applicare i tagli di orario sulla
base di decreti che non avevano ancora passato i necessari vagli
imposti dalla normativa, né erano stati pubblicati in Gazzetta
ufficiale e che quindi non erano ancora a tutti gli effetti validi.
3. Nuovi dispositivi di controllo: il caso
Invalsi
di Vescovi Matteo
Questo stato emergenziale permanente è coerente con un metodo di
governo che fa dell’emergenza una condizione stabile (dalla gestione
dei Rom, al terremoto del L’Aquila, alla questione rifiuti in Campania
e via di questo passo).
Ultimo in ordine di tempo nella scuola è l’applicazione su larga scala
dei test Invalsi che il Ministero ha cercato di far passare come
attività obbligatoria per tutte le classi: seconda e quinta della
scuola primaria, prima della scuola media e seconda delle scuole
superiori. Si tratta del primo passo verso la reale applicazione di un
Sistema Nazionale di Valutazione degli studenti e delle scuole, sulla
base di quanto avviene nei sistemi scolastici anglosassoni. In realtà
l’Istituto Invalsi esiste già dal 1999, è creatura del Ministro
Berlinguer e ha vissuto con il ministero Fioroni una rivalutazione del
suo ruolo grazie alla obbligatorietà di somministrare le prove prodotte
da questo ente durante l’esame di terza media. Da questo punto di vista
come in molte altre scelte effettuate dai Ministeri di centro sinistra
si ritrova, infatti, una sostanziale continuità, che testimonia
l’adesione ad un paradigma scolastico coerente con la trasformazione di
cui si è discusso sopra.
Il sistema di valutazione messo in piedi dall’INVALSI si presenta come
un prodotto complesso, che si avvale del confronto con analoghe
esperienze di altri paesi europei ed extra-europei e si fa forza di un
apparato metodologico e linguistico di carattere scientifico. Ciò che
ci proponiamo di mostrare, anche se in modo sintetico, è invece il
carattere arbitrario e insondabile dei fondamenti di questa istituzione
e di conseguenza i rischi che comporta la sua applicazione a livello
nazionale (nelle due versione di “destra” e di “sinistra”). Queste le
finalità dichiarate dell’ente:
a
La valutazione di sistema risponde alle finalità di rendere trasparenti e accessibili all’opinione pubblica informazioni sintetiche sugli aspetti più rilevanti del sistema educativo e di offrire ai decisori politici ed istituzionali elementi oggettivi per valutare lo stato di salute del sistema di istruzione e formazione30.
a
Come
si può notare, dunque, le parole chiave che identificano le finalità
dell’Istituzione sono “trasparenza” e “oggettività”. Nel corso
dell’esposizione della metodologia proposta si mettono in evidenza le
due funzioni principali che un sistema di valutazione può avere sui
comportamenti di chi viene valutato, ovvero funzione di «sviluppo» e
«controllo». Ma si ammette fin da ora che la difficoltà maggiore sta
proprio nell’individuare gli indicatori adeguati per descrivere le aree
specifiche di comportamento che devono essere valutate. Non sorprende,
quindi, che la lezione principale che l’INVALSI ricava dal confronto
con altri sistemi di valutazione stia nella continua riformulazione di
questi indicatori e quindi in sostanza nell’ammissione del carattere
instabile e soggettivo del sistema, nonostante tutti gli sforzi per
renderlo il più possibile aderente alla realtà. D’altro canto, non si
prende atto della parzialità del sistema, ma se ne ribadiscono le
finalità.
L’apparato ideologico dell’Invalsi ruota, dunque, attorno a queste
quattro parole-concetto « Trasparenza », «Oggettività», «Sviluppo»,
«Controllo», che si articolano all’interno di un modello statistico di
indagine multivariata (modello CIPP) intorno a queste quattro
dimensioni «Contesto», «Input», «Processi», «Risultati». La
strumentazione e le metodologie di rilevazione degli indicatori
necessari a produrre la descrizione di queste quattro aree è assai
complessa e tende a coprire ogni aspetto della vita scolastica (dalla
somministrazione di questionari che chiedono ai ragazzi se i genitori
possiedono una libreria o hanno l’antifurto, alla rilevazione della
soddisfazione dell’utente per il servizio scolastico, dalla
somministrazione delle prove di apprendimento, alla indagine sul campo
da parte dell’Istituto in alcune scuole campione). Non è possibile in
questo ambito seguire punto per punto tutte le proposte elencate (molte
delle quali hanno già cominciato ad essere messe in atto in questo anno
scolastico senza che ci fosse consapevolezza da parte del personale del
significato di certe rilevazioni statistiche). Ci soffermiamo, invece,
sull’apparato ideologico su cui si regge il modello di «valutazione
oggettiva» sbandierato dall’INVALSI.
Cardine di questa impostazione è lo slittamento operato in ambito
europeo del ruolo dei sistemi educativi. Una delle tre direzioni
intraprese dal Quaderno bianco sull’istruzione prodotto
dall’Europa nel
1995 era appunto quella dello sviluppo dei sistemi di valutazione,
nell’ottica di una istruzione che deve fornire le competenze chiave per
una formazione che duri lungo tutto l’arco della vita. Il concetto di
«competenza» è ricorrente anche nei documenti dell’INVALSI e risulta
essere un elemento centrale nell’elaborazione dei modelli di
valutazione, sia per quanto riguarda l’adeguamento dell’offerta
formativa delle scuole alle «competenze richieste dal mondo del
lavoro», sia per la valutazione dei livelli di apprendimento raggiunti
dagli studenti. È necessario, quindi, chiarire quale sia l’aggregato di
significati che ruota intorno a questa parola.
L’origine del termine deriva dalla Linguistica generativa di
Chomsky31
dove per competenza si intende la conoscenza inconscia da parte
del
parlante delle regole (formali e pragmatiche) che governano la lingua.
Essa non può di fatto essere mai esperita direttamente, ma si può
inferire solo grazie ai singoli atti linguistici che il soggetto
produce e che Chomsky definisce con il termine di «performance».
Inoltre, nell’ottica del linguista non si tratta tanto di indagare
l’effettiva competenza del singolo parlante quanto, partendo
dall’analisi di un ampio campione di performance linguistiche,
risalire
alla competenza che il «parlante ideale» di quella lingua
deve avere, coerentemente agli ambiti di ricerca di una disciplina
teorica come la grammatica generativa. Se la consideriamo, invece, dal
punto di vista del singolo «parlante-ascoltatore», la competenza rimane
di per sé una qualità che appartiene alle sfere profonde della mente e
che quindi non può mai essere apprezzata direttamente.
Questa formulazione, dal campo della linguistica, è stata poi
rielaborata in ambito pedagogico per comprendervi altri aspetti della
crescita dell’alunno nelle diverse forme della sua espressione. La
duttilità di questo concetto ha consentito di collegarlo alle teorie
dell’apprendimento costruttivista secondo cui esso è il prodotto di una
continua interazione tra il soggetto e il contesto in cui è inserito.
Ciò ha permesso di arrivare a comprendere sotto l’etichetta di
competenza praticamente ogni aspetto del comportamento umano.
a
La
competenza riguarda pertanto oltre alla sfera linguistica, quella
motoria, affettiva, sociale e cognitiva e si esprime in atteggiamenti,
comportamenti, azioni, parole, che i bambini manifestano autonomamente
dopo averli costruiti insieme agli adulti32.
a
In
questo modo, facendo riferimento ad ambiti comportamentali così vasti
si può arrivare ad affermare che le competenze siano nello stesso tempo
caratteristiche «innate» dei soggetti e l’esito di performance
strettamente correlate alle sollecitazioni dei contesti in cui l’alunno
si trova immerso. Per questo la competenza può essere definita
come:
a
in un contesto dato, potenzialità o messa in atto di una prestazione che comporti l’impiego congiunto di atteggiamenti e di motivazioni, conoscenze, abilità e capacità e che sia finalizzata al raggiungimento di uno scopo33.
a
Come
si vede la definizione è alquanto sfuggente e ciò è dovuto al fatto che
si sta cercando di individuare qualcosa che si è dato per definizione
come inconoscibile. Essa può emergere negli atti perfomativi
dello
studente, ma anche rimanere solo potenziale, se non viene sollecitata
adeguatamente attraverso la messa in contesto del compito, la
motivazione e soprattutto l’accettazione da parte dello studente dello
scopo della prova.
Se consideriamo la riflessione sulle competenze dal punto di vista
della didattica e della autovalutazione dei docenti essa può avere dei
risvolti positivi come elemento di stimolo per l’evoluzione delle
pratiche didattiche, ma non può certamente rappresentare un punto di
partenza solido per valutare dall’esterno l’efficacia dei percorsi di
studio. Né, tantomeno, queste competenze possono essere ridotte alle
richieste che provengono dal mondo del lavoro.
Le competenze, infatti, sono per definizione un amalgama di essere
(qualità innate), sapere e saper fare e sono strettamente legate al
contesto in cui emergono. In sostanza possiamo dire che la parola
“competenza” non esprime altro che un’ipotesi di lavoro (una premessa
metafisica) del linguista, dello psicologo o del pedagogo, nella misura
in cui essa sta ad indicare il campo di sviluppo di una serie di
ricerche che devono portare a migliorare la nostra conoscenza dei
processi mentali e di apprendimento, ma rimane in ogni caso un sostrato
profondo dell’io al di là di qualunque conoscenza diretta. L’INVALSI,
però, pretende di produrre «valutazioni oggettive» stabilendo
attraverso i propri test le competenze acquisite dagli studenti.
L’istituto, dunque, opera un ribaltamento logico quando pretende di
avvicinarsi alla conoscenza di queste competenze attraverso quesiti che
producano risultati analoghi alle performance che ci si attende
dagli
studenti al di fuori del mondo scolastico. Inoltre, pretenderebbe di
valutare questi risultati prescindendo sia dalla considerazione del
lavoro effettivamente svolto dai docenti, sia dalla
decontestualizzazione che in ogni caso questi test producono, in quanto
ci si pone l’obiettivo di valutare capacità di adattamento al mondo
esterno, quando è evidente che il contesto e la motivazione con cui i
ragazzi svolgeranno le prove non possono che essere di tipo scolastico.
La valutazione della didattica è un’attività complessa e delicata di
cui bisognerebbe avere maggiore rispetto; è diverso, infatti, chiedere
ad uno studente di interpretare un articolo di giornale o discutere con
lui al bar, come sono diverse le finalità per cui un ufficio del
personale valuta le capacità/competenze di un possibile dipendente,
rispetto a quelle che si prefigge la scuola che lo ha formato. Anche il
rapporto con i risultati ottenuti è strettamente legato alla relazione
che si è instaurata tra studente, classe e docente (due sufficienze
ottenute da due ragazzi della stessa classe non avranno mai lo stesso
significato).
In altre parole, è legittimo all’interno del dibattito pedagogico porsi
il problema, per esempio, dell’evidenza per cui spesso studenti, che
hanno esiti mediocri a scuola, riescono nella vita a raggiungere buoni
risultati mobilitando risorse che nell’ambito scolastico non avevano
mostrato. Ma si può pretendere di valutare l’operato della scuola sulla
base di questionari che dovrebbero stabilire le presunte competenze che
gli alunni dovranno manifestare al di fuori del sistema scolastico? E
se le competenze sono esperibili solo sulla base delle performance,
le
quali a loro volta sono indissolubilmente legate ad aspetti
motivazionali e ai contesti in cui si producono, è legittimo pretendere
di poter valutare qualcosa che si manifesterà, nel caso, al di fuori
del sistema scolastico? O non è forse inevitabile che qualunque
strumento di valutazione, se si pone come obiettivo quello di valutare
le competenze, apprezzerà piuttosto il rapporto competenze/contesto che
gli studenti hanno con questi test? Inoltre, anche ammesso che
sviluppare le capacità di adattamento al mondo esterno debba
rappresentare un obiettivo strategico dell’educazione, può pretendere
uno strumento di valutazione di predire il futuro? Appare evidente,
quindi, che valutare le competenze in questo modo significa pretendere
di valutare la persona e di predire il suo futuro e, per quanto
riguarda i docenti, obbligarli a modificare i propri programmi e
metodologie per preparare gli studenti al superamento di tali prove.
In conclusione, potremmo dire che non si può dare né «Trasparenza», né
«Oggettività» attraverso queste forme di rilevazione, al contrario e
molto più semplicemente, questi strumenti rispondono ad una nuova
esigenza di rendere trasparenti i comportamenti, schedandoli e
classificandoli sulla base di criteri soggettivi (ovvero del soggetto
“INVALSI“ e della sua ideologia) e funzionali alla veridizione dei
presupposti dell’Ente stesso. Mentre, dalla necessità di salvaguardare
la fiducia nei confronti delle Istituzioni di controllo, deriva la
costante riformulazione dei criteri e degli indicatori. La
«valutazione oggettiva» delle competenze dell’alunno si configura,
quindi, come l’espressione di una nuova volontà di verità da
parte
dell’istituzione, sulla quale si incardina il sistema di controllo.
Sviluppo e controllo sono, infatti, le due
parole-concetto che
disegnano la dinamica educativa attesa dall’applicazione del sistema di
valutazione34. Esse portano iscritte una visione della
relazione di
apprendimento di carattere comportamentista (quella del cane di Pavlov,
per intenderci), per cui l’apprendimento è basato sul condizionamento
dei comportamenti attraverso una stretta relazione di
stimolo-risposta-rinforzo. L’intento di tutti questi sistemi di
valutazione è, infatti, quello di modificare il comportamento dei
valutati attraverso diversi strumenti di coercizione che vanno da
sistemi di premi e punizioni dirette, ad elaborazione di classifiche e
graduatorie che possono per via indiretta ripercuotersi sulla vita
della scuola o del singolo docente (in sostanza questi enti si
rapportano agli studenti e ai docenti come se avessero a che fare con
l’addestramento di un cane). Tra gli errori sostanziali di tale
impostazione vi è l’idea che esista un rapporto lineare tra
l’istituzione di controllo, i comportamenti dei controllati, e i
risultati di tale interazione. Si tratta, inoltre, di modelli che
provengono dal mondo dell’impresa e mostrano una visione totalizzante
della società, come suggeriscono alcuni degli sviluppi di queste
ricerche che tendono a realizzare la «qualità totale» della scuola35.
I sistemi di valutazione anglosassoni che si fondano sul concetto di
accountability (cioè su di un sistema di valutazione che basa
tutta la
sua efficacia nella valutazione dei risultati ottenuti dagli studenti)
sono quelli che hanno creduto maggiormente nelle potenzialità di questo
tipo di relazione di sviluppo/controllo accettando implicitamente il
modello di apprendimento pavloviano. Non deve stupire, quindi, se sono
proprio essi che ci confessano quali tipi di distorsioni si vengono a
creare.
Riportiamo la parte conclusiva di un saggio pubblicato all’interno di
un volume pensato per il personale scolastico dalla collana “Voci della
scuola” e dedicato al tema della valutazione, a cui hanno collaborato
insegnanti, dirigenti scolastici e direttori degli uffici scolastici
provinciali. L’autrice del saggio sviluppa il suo ragionamento a
partire da questa semplice domanda: i sistemi di accountability
migliorano o no i risultati scolastici? Dopo aver lasciato in sospeso
la risposta, elenca i possibili «effetti indesiderati»
dell’applicazione di questo sistema:
a
Poiché
il loro effetto [dei risultati dei test] immediato è la modifica degli
incentivi cui le scuole sono esposte, essi agiscono su di esse in due
modi principali: da una parte focalizzano l’attenzione su alcune aree
curricolari, quelle delle materie oggetto di rilevazione, e all’interno
di esse su determinati contenuti, e possono così spingere gli
insegnanti a ridurre lo spazio dedicato ad altre materie e contenuti
(curriculum narrowing), o ad insegnare direttamente agli alunni
gli
argomenti oggetto dei test (teaching to test), il che finisce in
ultima
analisi con l’alterare la relazione tra indicatore (punteggio dei test)
e costrutto (la competenza che il test mira a valutare) [...]. da
un’altra parte, le politiche di accountability, implicando
premi e
punizioni, diretti o indiretti, che esercitano una forte pressione
sulle scuole nell’intento di stimolarle a progredire, possono indurle a
barare al gioco (cheating) o comunque a cercare di mettere in
scacco il
sistema di controllo con espedienti di varia natura. […] Le scuole
possono rispondere in due modi, uno corretto e uno scorretto: il modo
corretto è ovviamente quello di impegnarsi al massimo per migliorare
l’efficacia del proprio insegnamento; il modo scorretto consiste nel
cercare di attrarre gli alunni migliori e più desiderabili, di
selezionare gli studenti all’ingresso o in corso d’anno, oppure
nell’escludere l’incidenza del peso degli alunni “deboli” sui
risultati, per esempio assegnandoli a programmi di educazione speciale
o consigliando loro di rimanere assenti il giorno delle prove36.
a
L’elenco
di questi rischi, basato su studi americani che analizzano i risultati
dei propri programmi di accountability, è ciò che
ragionevolmente
possiamo aspettarci accadrà nelle scuole italiane nei prossimi
anni, tanto più che il MIUR a guida Gelmini sembra andare proprio verso
l’applicazione del modello dell’accountability e della «qualità
totale» con la cosiddetta sperimentazione sul “merito”
dell’inverno 2010/2011, che prevede l’utilizzo dei test INVALSI insieme
ad altri indicatori quali il gradimento delle famiglie, allo scopo di
costruire una gerarchia interna al corpo docenti delle scuole.
In tutto ciò, sarà ancora possibile garantire da un lato la libertà
d’insegnamento e dall’altro la piena realizzazione del diritto allo
studio (dato che le stesse scuole saranno incoraggiate a selezionare i
propri alunni)?
Bisogna precisare che l’intervento del governo rappresenta una
forzatura in senso restrittivo delle impostazioni originarie
dell’Istituto INVALSI, che, come abbiamo già detto, aveva impostato il
suo lavoro su di un’analisi che tenesse conto del contesto educativo e
che potesse quindi rendere evidente il cosiddetto «valore aggiunto»
della scuola, quale indicatore di sviluppo. In ogni caso, per quanto
già esposto, ci appare evidente che anche la consistenza di questo
valore aggiunto sarà altrettanto arbitraria, poiché la sua rilevazione
è basata sempre sull’accertamento delle competenze e sull’analisi dei
«risultati attesi» dal ragazzo rispetto a quelli ottenuti37.
Ancora una
volta, questi dispositivi di controllo hanno l’obiettivo di individuare
processi che per definizione mantengono una natura sfuggente e sono di
fatto insondabili (potremo mai sapere fino a che punto i miglioramenti
dei nostri studenti dipendono dai nostri sforzi e non da innumerevoli
altri fattori, come del resto i loro peggioramenti?, non è offensivo
calcolare il risultato atteso da un ragazzo sulla base dei suoi
risultati precedenti? ma soprattutto è davvero così importante
stabilirlo?). E tanto più, si preannunciano aleatori gli effetti che
gli incentivi basati sull’apprezzamento di questo valore aggiunto
saranno riconosciuti alle scuole o agli insegnanti.
Inoltre, anche nei paesi europei in cui si è ritenuto di modificare i
sistemi educativi nella direzione della valorizzazione delle
competenze, pur senza optare per un sistema di accountability,
cominciano ad emergere voci critiche (significativo il caso della
Finlandia che da alcuni anni si vanta di raggiungere i primi posti nei
Test OCSE-PISA)38 che segnalano la dequalificazione
dell’educazione se
essa, attraverso la sopravvalutazione di test che si basano sulla
rilevazione delle competenze attraverso la metodologia del problem
solving, viene spinta dai governi ad adeguare l’insegnamento alla
risoluzione di problemi concreti (ovvero alla produzione di performance
che permettano di valutare le competenze degli alunni), a
discapito
invece dello sviluppo del pensiero astratto.
Infine, è da chiedersi quale possa essere il ruolo di un ente terzo
quale l’INVALSI nella valutazione di una relazione complessa come
quella educativa. Se si considera la scuola come “bene comune”, si deve
anche ammettere che essa per potersi governare deve salvaguardare la
propria indipendenza rispetto ad istituzioni che solo apparentemente
hanno finalità simili. L’idea stessa di inserire all’interno del
sistema scolastico un ente che lo valuti dall’esterno, sulla base di
criteri cosiddetti oggettivi, ne scardina i presupposti costituzionali,
introducendo una funzione di controllo tanto più efficace quanto più si
dichiara neutrale.
4.Conclusione: Decostituzionalizzazione/Non collaborazione
«La
tradizione degli oppressi ci insegna che
“lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola.
Dobbiamo giungere a un concetto di storia
che corrisponda a questo fatto.
Avremo allora di fronte, come nostro compito,
la creazione del vero stato di emergenza.»
W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia
Per
concludere, non vorremmo che questa riflessione rimanesse solo una
elaborazione teorica, ma che indicasse a partire dall’analisi, il campo
di azioni che possono mettere in discussione la realizzazione di un
processo che trova alleati in tanti luoghi e tra molti colleghi. Se,
come abbiamo già evidenziato, la trasformazione passa attraverso la
costruzione di uno stato di emergenza che si permette di scavalcare gli
strumenti legislativi a cui si dovrebbe attenere l’azione di governo
(si tratta di un processo che è stato definito di
decostituzionalizzazione39, e che si realizza attraverso
quella che la
Klein ha definito shock terapy). Se, in ogni caso, questi provvedimenti
trovano applicazione grazie al fatto che si presentano a chi deve
applicarli con la forza della legge, anche se leggi non sono, ciò che
li fa apparire inarrestabili non è altro che l’effetto della
superficiale accettazione con cui vengono vissuti. D’altro canto,
questo modo di governare mostra la sua debolezza proprio
nell’impossibilità di applicarsi secondo gli iter legislativi corretti
ed ogni provvedimento porta dentro di sé numerose falle. Quella a cui
stiamo assistendo è, dunque, un’ascesa arrestabilissima, a patto però
di assumersi la responsabilità di non dare atto ad alcuna delle
disposizioni che vanno in questa direzione e che non si è obbligati a
svolgere. Una mobilitazione che può rivendicare con forza la propria
indisponibilità a collaborare con questo progetto di dequalificazione e
controllo dell’educazione e che può vantare illustri maestri al suo
fianco, non ultimo il Gandhi della «non collaborazione».
note
1. Sergio Bologna, I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, in «L’ospite ingrato», società/conoscenza/educazione, anno ottavo/I, Quodlibet Macerata 2005, pp. 15-32.
2. Martha Nussbaum, Il
potere del sapere, in «Internazionale», n. 870, 2010, p 41.
3. Si tratta sicuramente del
peccato originale della Strategia di Lisbona 2000 che, ammantando i
propri obiettivi di una falsa democraticità, ha imposto ai paesi
dell’Unione sia una gestione dell’Istruzione nei termini della sua
funzionalità ai valori della crescita economica sia la crescita
culturale dell’individuo nei termini della sua adattabilità alle
richiesta del contesto economico e lavorativo in cui si trova.
4. «Questa visione va
di pari passo con l’incapacità di operare una netta distinzione tra il
concetto di informazione e quello di conoscenza, dove quest’ultimo si
fonda sulla capacità cognitiva di interpretare e mobilitare
l’informazione, che di per se stessa sarebbe altrimenti una risorsa
sterile», Didier Lebert e Carlo Vercellone, Il ruolo della
conoscenza nella dinamica di lungo periodo del capitalismo: l’ipotesi
del capitalismo cognitivo in: Carlo Vercellone (a cura di), Capitalismo
cognitivo: conoscenza e finanza nell’epoca postfordista,
Manifestolibri, Roma 2006, p. 21.
5. Raccomandazioni 2006/962
del Parlamento e Consiglio europeo da
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2006:394:0010:0018:IT:PDF
6. Didier Lebert e Carlo
Vercellone, cit. p. 31 e 33.
7. Si veda a tal proposito Nico Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto, http://www.fisicamente.net/SCUOLA/index-999.htm
8. Ibid.
9. Legge Bassanini 59/97, art 21.
10. http://www.ert.be/working_group.aspx?wg=15&km=113#label_113; Cfr. Nico Hirtt, La scuola l’Europa e il profitto, cit.
11. http://www.ert.be/doc/0061.pdf.
12. http://www.ert.be/doc/0114.pdf.
13. White paper on education and training, teaching and learning towards the learning society, 1995 da http://europa.eu/documents/comm/white_papers/pdf/com95_590_en.pdf. Con la traduzione “sistemi di formazione” dall’originale inglese “traning system” si può intendere tutti gli enti pubblici o privati in grado di certificare percorsi formativi e di aggiornamento settoriale nell’ottica di una formazione che duri l’intero arco della vita.
14. Il concetto è stato formulato dal M. Foucault nel saggio Sorvegliare e punire (a partire dai progetti delle prigioni moderne dell’architetto J. Bentham) per definire il meccanismo sociale su cui si basavano le istituzioni disciplinari del XIX e XX secolo: «L’effetto principale del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione […]. Perciò Bentham pose il principio che il potere doveva essere visibile e inverificabile. Visibile: di continuo il detenuto avrà davanti agli occhi l’alta sagoma della torre centrale da dove è spiato. Inverificabile: il detenuto non deve mai sapere se è guardato, nel momento attuale; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente.[…] Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto senza mai essere visti. Dispositivo importante perché automatizza e de-individualizza il potere.[…] Un assoggettamento reale nasce meccanicamente da una relazione fittizia. In modo che non è necessario far ricorso a mezzi di forza per costringere il condannato alla buona condotta, il pazzo alla calma, l’operaio al lavoro, lo scolaro alla applicazione, l’ammalato all’osservanza delle prescrizioni. […] Colui che è sottoposto ad un campo di visibilità e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere; le fa giocare spontaneamente su se stesso; inscrive in se stesso il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli, diviene il principio del proprio assoggettamento» M. Foucault, Sorvegliare e punire, la nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, pag. 219-221.
15. Gilles Deleuze, La società del controllo, in «l’autre journal», n. 1, maggio 1990; disponibile anche in http://www.carmillaonline.com/archives/2004/07/000871.html
16. Luigi Berlinguer, Documento di lavoro ministeriale per il riordino dei cicli scolastici, 1997 in «Ricerche didattiche», quaderno 403, a.c. del Movimento Circoli della Didattica, aprile 1997.
17. Progetto di Legge 3414/97. Firmatari: Berlusconi, Pisanu, Aprea, Michelini, Frattini, Urbani, Bonaiuti, Melograni, Vito, Aracu, Cavanna Scirea, Rivolta, Gazzara, Palumbo, Romani, Rossetto, Crimi, Serra, Acierno, Aleffi, Amato, Armosino, Baiamonte, Becchetti, Bergamo, Berruti, Bertucci, Vincenzo Bianchi, Biondi, Donato Bruno, Burani Procaccini, Calderisi, Cascio, Cicu, Colletti, Colombini, Conte, Cosentino, Cuccu, Danese, De Ghislanzoni Cardoli, Del Barone, Dell’elce, Dell’utri, De Luca, Deodato, Di Comite, Di Luca, D’ippolito, Errigo, Filocamo, Floresta, Fratta Pasini, Frau, Gagliardi, Garra, Gastaldi, Gazzilli, Giannattasio, Giovine, Giudice, Giuliano, Guidi, Lavagnini, Leone, Lo Jucco, Lorusso, Maiolo, Mammola, Mancuso, Marotta, Marras, Martino, Martusciello, Marzano, Masiero, Massidda, Matacena, Matranga, Micciche’, Misuraca, Nan, Niccolini, Pagliuca, Palmizio, Paroli, Pilo, Possa, Prestigiacomo, Previti, Radice, Rebuffa, Rivelli, Rosso, Alessandro Rubino, Russo, Santori, Saponara, Saraca, Savarese, Savelli, Scajola, Scaltritti, Scarpa Bonazza Buora, Stagno D’alcontres, Stradella, Taborelli, Taradash, Tarditi, Tortoli, Valducci, Vitali
18. Rispettivamente: Regolamento di riordino degli Istituti professionali; Regolamento di riordino degli istituti tecnici; Regolamento di riordino dei licei 15/03/2010. disponibili on-line sul sito www.edscuola.it.
19. Vanna Gherardi, Conoscere a scuola. Il problema della motivazione degli allievi, in: Milena Manini, Didattica generale, Clueb, Bologna, 2001, p. 95.
20. Marcello Cini, La scienza nell’era dell’economia della conoscenza, in «L’ospite ingrato», società/conoscenza/educazione, anno ottavo/I, Quodlibet Macerata 2005 p. 51.
21. «È sintatticamente e semanticamente corretto dire che le asserzioni soggettive sono fatte da soggetti. Allora, in modo corrispondente, potremmo dire che le asserzioni oggettive sono fatte da oggetti. Disgraziatamente queste dannate cose non fanno asserzioni». (Heinz von Foerster).
22. Marcello Cini, La scienza nell’era dell’economia della conoscenza, cit. p.51.
23. Calamandrei, Difendiamo la scuola democratica, in Per la scuola, Sellerio editore, Palermo 2008, pag. 81 e seguenti.
24. È comunque necessario evitare di utilizzare questo concetto in un senso vago e metaforico che si può prestare a strumentalizzazioni localistiche o a favore della cosiddetta “libertà di scelta” delle famiglie. Se il bene comune che viene prodotto e fruito è qualcosa di immateriale come l’educazione e allo stesso tempo essenziale per la vita di società complesse e ad aspirazione democratica come la nostra, è importante chiarire che la comunità che ha il diritto di usufruirne deve essere considerata l’intera comunità nazionale e i soggetti che interagiscono (genitori, studenti e insegnanti) devono avere garantita la possibilità di autogoverno del bene. Il bene, per essere comune, deve essere escluso dalla commerciabilità (a favore del massimo accesso ad essa). Seguendo le analisi di Nervi a proposito dei beni comuni essi hanno una funzione ecologica, una funzione economica e una funzione socio-culturale in equilibrio tra loro. Nella fattispecie la funzione ecologica è quella che potremmo rivendicare come funzione di “ammortizzatore sociale”, cioè di ricomposizione dei conflitti sociali connessi alla crescita degli alunni e alle condizioni economico-culturali in cui essa avviene, la funzione economica ovvero il ruolo di costruzione di conoscenze necessarie all’ingresso nel mondo del lavoro, la funzione socio-culturale ovvero quella connessa alla costruzione del cittadino. Cfr Nervi P. (1993), La destinazione economica dei beni di uso civico, in Carletti F. (a cura di), Demani civici e risorse ambientali, Jovene, Napoli, pp. 173-205. Questa è la definizione che ne dà Vandana Shiva: «I beni comuni sono risorse condivise, amministrate e utilizzate dalla comunità. I beni comuni incarnano un sistema di relazioni sociali fondate sulla cooperazione e sulla dipendenza reciproca. Le decisioni vengono prese in base ad un insieme di principi e di regole precise. I membri della comunità si riuniscono, discutono democraticamente e infine deliberano, per esempio, in merito ai raccolti da seminare, alla quantità di bestiame da destinare a un pascolo, agli alberi da potare, a quali campi irrigare, in che periodo e attraverso quali canali. I beni comuni presuppongono dunque una gestione democratica del potere». in Vandana Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli 2006, pag. 29.
25. Tommaso Padoa Schioppa, Giuseppe Fioroni, Quaderno bianco sulla scuola, settembre 2007, p.23 e seguenti; Valentina Aprea, Proposta di legge n. 953, 12 maggio 2008. In quest’ottica non bisogna inoltre dimenticare il precedente documento Intellettuali, imprenditori e industriali sulla scuola (novembre 1999), in cui, seguendo le indicazioni di Milton Friedman (1955;), i firmatari (Ferdinando Adornato, Dario Antiseri, Antonio Augenti, Paolo Blasi, Carlo Bo, Dino Boffo, Pellegrino Capaldo, Innocenzo Cipolletta, Emma Marcegaglia, Antonio Martino, Letizia Moratti, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Giorgio Rumi, Paolo Savona, Lorenzo Strik Lievers, Marco Tronchetti Provera, Stefano Versari, Giorgio Vittadini, Sergio Zaninelli) si ponevano sette obiettivi: «1) lo Stato finanzi ma non gestisca l’istruzione di tutti i cittadini; 2) si affermi una pluralità di offerte e istituti formativi, statali e non, e una pluralità di opzioni possibili per il cittadino; 3) viga la pari dignità tra le diverse scuole e quindi l’assoluta irrilevanza del fattore economico nella scelta da parte dei cittadini ; 4) si giunga all’abolizione del valore legale del titolo di studio, necessaria conseguenza di tale nuovo assetto; 5) a tal fine lo Stato deve fissare quanto intende spendere annualmente per la formazione di ciascun cittadino; 6) deve disporsi poi a riconoscere quella somma, diversificata a seconda del grado di istruzione, alla famiglia di ciascun alunno, utilizzando appositi bonus o altri analoghi strumenti; 7) si può infine prevedere che gli alunni iscritti a scuole non statali gravino sulle casse dello Stato per un 10% in meno di quelli che scelgono la scuola statale. […] Questi sono gli obiettivi finali. Siamo consapevoli che occorrerà del tempo per realizzarli pienamente. Due cose sono però essenziali: tener fermo il punto di arrivo; far sì che nel frattempo ogni atto legislativo in questo campo sia coerente e non contraddittorio rispetto al traguardo. Come arrivarci […].a) ogni riforma che favorisca la differenziazione dei percorsi formativi contro la tendenza all’omogeneizzazione sin qui seguita; b) la realizzazione, in particolare, di un serio canale di formazione professionale. La sua mancanza costituisce un gap dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei. La sua realizzazione consentirebbe, tra l’altro, di riconquistare allo studio tanti giovani (la maggioranza) che oggi lo abbandonano; c) ogni intervento volto a migliorare seriamente la qualità dell’ insegnamento e la reintroduzione di criteri che valorizzino il merito nella scuola e la coerenza dei diversi percorsi scolastici; d) l’introduzione di incentivi per la emulazione tra istituti sia all’ interno del settore statale sia fra scuole statali e non statali. […] Il sapere è una risorsa. L’impresa deve quindi trovare proficuo e vantaggioso investire nella scuola» http://www.fisicamente.net/SCUOLA/index-88.htm (corsivo nostro).
26. Nel 2004 al 20% più povero della popolazione faceva capo il 7% del reddito complessivo, che per due quinti affluiva invece al 20% più abbiente dei cittadini (dati ISTAT). Per quanto riguarda la produzione, dati Istat, l’Italia è scesa del 2,4% da inizio 2008 e del 5,3% anno su anno. Per approfondimenti si veda Enrico Cisnetto, L’autunno caldo dell’economia italiana, in: «Il Messaggero, La Sicilia, Il Gazzettino», domenica 12 ottobre 2008; Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre?, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
27. Naomi Kein, Shock economy, RCS Libri, Milano 2007.
28. Ivi pag, 161.
29. Tratta da Roberto Petrini In finanziaria gli aumenti agli statali in «La Repubblica Economia» del 06/08/2008.
30. INVALSI, Il quadro di
riferimento teorico della valutazione del sistema scolastico e delle
scuole - sintesi, giugno 2010 da http://www.invalsi.it/ValSiS/docs/062010/Sintesi_QdR_10_06_03.pdf,
pag. 5 e INVALSI, Il quadro di riferimento teorico della
valutazione del sistema scolastico e delle scuole, giugno 2010
http://www.invalsi.it/valsis/docs/062010/QdR_completo_ValSiS.pdf
31. «La teoria linguistica si occupa principalmente di un parlante-ascoltatore ideale, in una comunità linguistica completamente omogenea, il quale conosce perfettamente la sua lingua e non è influenzato da condizioni grammaticalmente irrilevanti quali le limitazioni di memoria, le distrazioni, i cambiamenti di attenzione e di interesse e gli errori (casuali o caratteristici) nell’applicazione della propria conoscenza della lingua nel corso dell’esecuzione effettiva. [...] Per studiare l’esecuzione linguistica effettiva, dobbiamo considerare l’interazione di vari fattori, e la competenza sottostante del parlante-ascoltatore non è che uno di essi. Sotto questo aspetto, lo studio del linguaggio non è diverso dall’indagine empirica di altri fenomeni complessi. Facciamo quindi una distinzione tra la competenza (conoscenza che il parlante-ascoltatore ha della lingua) e l’esecuzione (l’uso effettivo della lingua in situazioni concrete). L’esecuzione è un riflesso diretto della competenza soltanto nell’idealizzazione enunciata nel capoverso precedente. Nella realtà, essa ovviamente non può rispecchiare direttamente la competenza», N. Chomsky, La grammatica generativa trasformazionale. Saggi linguistici, vol. II, , Bollati Boringhieri, 1970 Torino, pag. 45.
32. Milena Manini, Competenze in educazione, in Vanna Gherardi, Milena Mannini, cit., pag. 49.
33. Mario Ambel, Definire la competenza in ambito (non solo) linguistico, in «Progettare la scuola», I, 3 pag. 32.
34. «La logica del controllo rinvia alla funzione di accertamento della produttività del servizio scolastico e di rendicontazione sociale dei suoi risultati, in una prospettiva di convalida di rapporti di potere e di enfasi sulla responsabilità contrattuale; la logica di sviluppo enfatizza la funzione regolativa e trasformativa del processo valutativo in quanto dispositivo di retroazione sulla gestione del processo formativo, in una prospettiva di coinvolgimento e di enfasi sulla responsabilità professionale». Castoldi, M., Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee. Torino: SEI, 2008 p. 58 in INVALSI, Il quadro di riferimento teorico della valutazione del sistema scolastico e delle scuole, giugno 2010 http://www.invalsi.it/valsis/docs/062010/QdR_completo_ValSiS.pdf , pag. 11.
35. A. Ceriani, Qualità totale nei processi scolastici, Milano, Angeli 2004; C. Negro, Qualità totale a scuola, Milano, Edizioni Il Sole 24 ore 1995.
36. Angela Martini, Accountability, in «Quaderni di “Voci della scuola” - Speciale valutazione», Tecnodid editrice, Napoli, 2010, pag. 133.
37. «In Inghilterra nel 2001 è stata per la prima volta implementata in forma generalizzata la metodologia proposta nell’ambito del progetto sperimentale “The Value Added Project”43 promosso dalla Segreteria di Stato per l’istruzione L’idea che sta alla base di tale progetto è quella di valore aggiunto: a livello di singolo studente, esso è dato dalla differenza tra la performance osservata dello studente e la performance attesa basata sul suo precedente background, mentre, a livello di istituto, esso è costituito dalla media del valore aggiunto dei singoli allievi. In sostanza vi è il riconoscimento che i risultati osservati dello studente dipendono da quelli ottenuti nel livello di istruzione immediatamente precedente, per cui l’attenzione si sposta dal valore assoluto delle performance, attraverso le League tables, al valore relativo (aggiunto) che la scuola apporta al singolo studente, tenuto conto delle sue condizioni di partenza». Da Enrico Gori, Daniele Vidoni, Valutazione e sussidiarietà in Europa: una nuova via per lo stato sociale. Il caso dell’istruzione, 2002 in http://archivio.invalsi.it/contributi/pdf/gori-siena.pdf.
38. The PISA survey tells
only a partial truth of Finnish children’s mathematical skills
http://solmu.math.helsinki.fi/2005/erik/PisaEng.html; George Malaty,
PISA Results and School Mathematics in Finland: strengths, weaknesses
and future, 2011
math.unipa.it/~grim/21_project/21_charlotte_MalatyPaperEdit.pdf
39. De Michele Girolamo,
Decostituzionalizzazione della scuola, 21/03/2011 in
http://uninomade.org/la-decostituzionalizzazione-della-scuola/;
per una analisi puntuale della situazione attuale della scuola italiana
vedi anche Girolamo De Michele, La scuola è di tutti, Minimumfax, Roma,
2010.
L’arrestabile
ascesa della scuola delle competenze Alcune riflessioni sui cambiamenti
in atto nel sistema scolastico italiano by Matteo Vescovi e Silvia Di
Fresco is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia License.
[04 agosto 2011]
home> conflitto/lavoro> L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze