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Movimento antimafia e lotta di classe / borghesia mafiosa
Umberto Santino
Mafia e antimafia sono temi su cui abbondano i luoghi comuni e scarseggiano gli studi di carattere scientifico, per cui se vogliamo affrontarli adeguatamente la prima operazione da compiere è il vaglio delle idee correnti e la puntualizzazione sullo “stato dell’arte”.
Stereotipi e paradigmi
Possiamo distinguere
le idee correnti in
stereotipi (idee prescientifiche ma molto diffuse,
soprattutto attraverso i media) e paradigmi (idee
che hanno un certa dose di scientificità, nel senso che sono
elaborate sulla base di un criterio e della raccolta ed interpretazione
di una certa massa di dati).
Sono da considerare stereotipi idee di mafia come
emergenza (la mafia esiste quando spara,
è un fenomeno di cui preoccuparsi quando produce un notevole
numero di morti o colpisce uomini delle istituzioni), antistato
(i delitti che colpiscono uomini politici e rappresentanti delle
istituzioni vengono visti come episodi di una guerra allo Stato), un residuo
feudale persistente in un contesto di arretratezza e di
sottosviluppo, o una piovra universale.
I paradigmi sono essenzialmente due: la mafia come associazione
a delinquere tipica, e la mafia come impresa.
Il primo è contenuto nella formulazione della legge
antimafia dei 13 settembre 1982, approvata dieci giorni dopo il delitto
Dalla Chiesa. Il secondo è frutto delle elaborazioni di
economisti e sociologi. La legge antimafia definisce la mafia sulla
base dei seguenti elementi: l’associazione criminale, la
forza d’intimidazione, derivante dal vincolo associativo e
dalle condizioni di assoggettamento e di omertà, utilizzata
per commettere delitti e per acquisire la gestione o il controllo di
attività economiche, di concessioni, di appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti. La legge arriva
con almeno 150 anni di ritardo rispetto alla realtà.
Il paradigma imprenditoriale, che ha alle spalle le riflessioni di
studiosi statunitensi, ha due specificazioni: la
mafia-impresa e l’impresa mafiosa.
La prima indica che l’agire mafioso ha finalità di
arricchimento e si riferisce in particolare alle attività
illegali; la seconda si riferisce alle attività
imprenditoriali legali che presentano alcune caratteristiche: il
soggetto è direttamente o indirettamente mafioso, il
capitale impiegato ha provenienza illecita, la lotta concorrenziale
è svolta usando l’intimidazione e la violenza.
Il mio lavoro, svolto in gran parte all’interno del Centro
siciliano di documentazione, nato nel 1977 e successivamente dedicato a
Giuseppe Impastato, ucciso dalla mafia nel 1978, ha mirato
preliminarmente a una critica volta a demistificare gli stereotipi e a
integrare i paradigmi, ritenendo che essi colgano solo una parte del
fenomeno mafioso. Per quanto riguarda gli stereotipi
l’operazione di demistificazione è abbastanza agevole
sul piano dei contenuti ma non riesce a reggere il confronto con
l’enorme massa di disinformazione quotidianamente prodotta
dall’industria mediatica. Non ci vuol molto a dimostrare che
essi danno un’immagine distorta, spesso apologetica, della
mafia ma sostituirli con idee adeguate è alquanto difficile,
tanto sono radicati e puntualmente riproposti e riverniciati. Lo stesso
legislatore agisce in base allo stereotipo dell’emergenza:
tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è una
risposta all’escalation della violenza mafiosa.
Il paradigma della complessità
Il vaglio delle idee
correnti costituisce la base su cui elaborare un’ipotesi
definitoria da sottoporre a verifica attraverso la ricerca.
L’ipotesi definitoria adottata per i nostri studi
è la seguente:
Mafia è un insieme di gruppi criminali che agiscono
all’interno di un sistema di rapporti, svolgono
attività illegali e legali finalizzate
all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e
gestione di posizioni di potere, si avvalgono di un codice culturale e
godono di un certo consenso sociale.
È quello che ho chiamato “paradigma
della complessità”, che analizza la mafia come
fenomeno composito, risultante dall’interazione tra crimine,
accumulazione, potere, cultura e consenso e che dal punto di vista
strutturale coniuga l’organizzazione con il sistema
relazionale. I rapporti sono transclassisti, attraversano il contesto
sociale dagli strati più bassi a quelli più alti,
ma non implicano una criminalizzazione generalizzata. Il blocco
sociale, cementato da cointeressenze e dalla condivisione di modelli
culturali, può riguardare in Sicilia alcune centinaia di
migliaia di persone e va ricostruito in concreto attraverso materiali
diversi, non solo gli atti giudiziari. Al suo interno la funzione
dominante è svolta da soggetti illegali (i capimafia) e
legali (professionisti, imprenditori, amministratori pubblici,
politici, rappresentanti delle istituzioni) definibili come
“borghesia mafiosa” (alcune decine di migliaia).
Un’ipotesi analitica che utilizza le intuizioni di
Franchetti, autore di un’inchiesta sociologica condotta nel
1875-76, e alcune riflessioni e proposte della Nuova Sinistra nei primi
anni ’70 del secolo scorso.
La sottolineatura del polimorfismo e della complessità vuole
essere una correzione di tiro rispetto ad approcci che hanno dominato
per anni negli ambienti accademici e professionali, affetti da un vizio
di fondo: la polarizzazione e l’unilateralismo. Fino agli
anni ’80 l’idea più consolidata tra gli
studiosi era che non esistesse una struttura organizzativa e che la
mafia fosse essenzialmente o esclusivamente una mentalità, un
modello antropologico, una subcultura.
Solo in seguito alle dichiarazioni di alcuni mafiosi collaboratori di
giustizia c’è stato un mutamento di approccio e si
è cominciato a parlare dell’organizzazione, in
particolare sull’associazione segreta Cosa nostra,
tralasciando o emarginando altri aspetti del fenomeno mafioso.
L’approccio fondato sul paradigma della
complessità pone problemi teorici poco o inadeguatamente
esplorati, riguardanti l’accumulazione, il rapporto tra
crimine e istituzioni, la cosiddetta subcultura criminale.
John Stuart Mill scriveva che il crimine non produce ma distrugge
ricchezza, cioè esso ha soltanto una funzione
parassitario-predatoria. E se si guarda, per esempio, al ruolo che ha
l’estorsione, una sorta di marchio di fabbrica di tutte o
quasi le realtà di crimine organizzato, la funzione
predatoria è evidente. Ma le estorsioni non hanno soltanto
la funzione economica di prelievo forzoso: sono una delle forme
più manifeste dell’esercizio della signoria
territoriale mafiosa, una sorta di fiscalità parallela. Marx
nel primo libro del Capitale, studiando
l’accumulazione originaria, analizza la violenza come
“potenza economica”. La violenza mafiosa, con il
ricorso alla violenza privata, ha certo i caratteri
dell’accumulazione primitiva, ma lo specifico della mafia
consiste nell’aver mantenuto l’uso sistematico
della violenza privata nelle società moderne, una volta
affermatosi il monopolio statale della forza. Ho parlato di
“modo di produzione mafioso”, considerando la
violenza come “sostanza valorificante” intrecciata
con il capitale e la forza lavoro, tenendo conto che oltre al ruolo
predatorio l’agire mafioso, collegato ai traffici
internazionali, dalle droghe alle armi, ai rifiuti,
all’immigrazione clandestina, è protagonista di
un’accumulazione illegale le cui stime ammonterebbero a
miliardi di dollari e la sua funzione di controllo sulla forza lavoro
non si è esaurita con la dissoluzione del movimento
contadino siciliano nel secondo dopoguerra.
Un altro terreno da dissodare è il rapporto tra mafia, Stato
e istituzioni. Lo stereotipo della mafia come antistato poggia in
particolare sui delitti che colpiscono uomini delle istituzioni e
più in generale sulla considerazione del crimine come
trasgressione dell’ordine costituito, ma la mafia ha un
rapporto complesso con l’assetto istituzionale. Ho parlato di
duplicità, nel senso che la mafia è
contemporaneamente fuori e contro e dentro
e con lo Stato. Per un verso non riconosce il monopolio della
forza, ha un suo codice e un suo apparato sanzionatorio e considera
l’omicidio una sorta di pena di morte. Per un altro verso la
mafia interloquisce con le istituzioni, molte sue attività
sono legate all’uso del denaro pubblico, e partecipa
attivamente alla vita politica. Ho parlato di
“soggettività politica” della mafia in
duplice senso: in quanto associazione criminale è gruppo
di potere e gruppo politico
nell’accezione weberiana e la signoria territoriale
è una forma di dominio tendenzialmente totalitario sulle
attività che si svolgono su un determinato territorio; con
il blocco sociale costituisce un sistema di potere più ampio
ed è fonte di produzione della politica in senso
complessivo, in quanto determina o contribuisce a determinare le
decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la
distribuzione delle risorse.
Una linea teorica che parte da Hobbes, continua con Marx ed Engels e
attraverso Weber giunge fino ai nostri giorni, considera il monopolio
statale della forza come attributo irrinunciabile dello Stato moderno.
L’esperienza storica italiana ci dice che se il monopolio
formale della forza non è mai venuto meno,
c’è stata di fatto una demonopolizzazione, nel
senso che la violenza mafiosa è stata legittimata attraverso
l’impunità, poiché essa era funzionale
al mantenimento e alla perpetuazione dell’assetto di potere
ed è stata considerata una risorsa tutte le volte che
l’intervento dello Stato sarebbe stato impossibile, per la
palese illegalità, o non avrebbe avuto la
tempestività e la brutalità
dell’intervento mafioso. La repressione delle lotte contadine
è stata in gran parte appaltata alla violenza mafiosa e
l’impunità delle stragi che hanno insanguinato
l’Italia in anni più recenti è la
riprova che la violenza extraistituzionale è stata la carta
vincente quando si è avvertito il pericolo di un mutamento
del sistema di potere. Per leggere questi eventi si è fatto
uso del concetto di “doppio Stato”, con una
“costituzione formale” apertamente democratica e
una “costituzione materiale” rigidamente sbarrata a
ogni possibilità di cambiamento: una chiave di lettura
elaborata per il regime nazista che va usata con accortezza.
Un altro terreno di analisi è dato dall’uso di
concetti come cultura e subcultura. Mentre nell’uso comune i
termini cultura e subcultura contengono giudizi di valore, positivo il
primo e negativo il secondo, nel linguaggio antropologico essi si
limitano a connotare modelli comportamentali diffusi o particolari. I
criminologi hanno parlato di
subcultura criminale, ponendo l’accento sul crimine
come devianza e frutto di una collocazione sociale marginale. Gli
studiosi più avvertiti (da Sutherland, con il suo studio sul
crimine dei colletti bianchi, a Wolfgang e Ferracuti, con la loro
“teoria integrata”) escludono che fenomeni come la
mafia possano studiarsi come fenomeni subculturali. Sulla base di
queste considerazioni ho proposto l’introduzione del concetto
di transcultura come “percorso traversale
che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed
alimentarsi funzionalmente aspetti arcaici come la signoria
territoriale e aspetti modernissimi come le attività
finanziarie, aspetti subculturali derivanti dai codici
associazionistici e altri aspetti
‘postindustriali’.”
Lo sviluppo storico: continuità e trasformazione
Abitualmente si
parla di mafia vecchia e mafia nuova, come se il dato generazionale
valesse solo per la mafia e fosse il più significativo.
All’interno del nostro modello analitico abbiamo considerato
la mafia come un fenomeno di durata, persistente nel tempo, che si
sviluppa intrecciando continuità e
trasformazione-innovazione, rigidità formali ed
elasticità di fatto.
La storia della mafia è la prova della sua
capacità di adattamento ai mutamenti del contesto, per cui
la periodizzazione che abbiamo proposto non indica tanto una mutazione
del fenomeno mafioso quanto la sua capacità di adeguarsi ai
cambiamenti dello scenario. Abbiamo individuato quattro fasi: 1) una
fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in
cui più che di mafia come fenomeno compiuto si
può parlare di “fenomeni premafiosi”:
sono documentati i “pizzi” come pure
l’impunità di delinquenti in connessione con
ambienti di potere e pratiche delittuose che costituivano esercizio di
signoria territoriale e avevano funzioni accumulative; 2) una fase
agraria, dagli anni ’30 dell’800 agli anni
’50 del XX secolo, in cui l’economia è
prevalentemente legata alla proprietà e coltivazione della
terra e i mafiosi sono presenti come affittuari dei latifondi e
controllori della forza lavoro; 3) una fase urbano-imprenditoriale,
negli anni ’60 e ’70, in cui il baricentro
economico-sociale si sposta sulle attività terziarie
(commercio e pubblico impiego) e si avviano i grandi traffici
internazionali. Nei primi anni ’60 la lotta per il potere
interno e per il controllo delle attività porta a uno
scontro sanguinoso che innesca la reazione delle istituzioni:
costituzione della Commissione parlamentare antimafia, confino per boss
e gregari; 4) una fase finanziaria, dagli anni ’70 a oggi, in
cui i traffici internazionali si sviluppano sempre di più e
la mafia vive un acuto conflitto interno (la guerra di mafia dei primi
anni ’80), ricorre all’uso massiccio della violenza
anche all’esterno, chiedendo maggiori spazi di potere e
occasioni di investimento e andando incontro alla repressione.
Come abbiamo già osservato, le reazioni delle istituzioni
sono state finora sempre nell’ottica
dell’emergenza, come risposta alla violenza mafiosa.
Così la legge antimafia è venuta dieci giorni
dopo l’assassinio di Dalla Chiesa e le altre leggi dopo le
stragi di Capaci e di via d’Amelio. Gli arresti, i processi e
le condanne seguono ai grandi delitti e alle stragi.
Per gli ultimi anni si parla di “mafia sommersa”
per la rinuncia alla violenza eclatante. I mafiosi hanno capito che per
sopravvivere e per rilanciare il loro ruolo nel contesto sociale
bisogna controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso
l’alto.
Se vogliamo riassumere la situazione attuale possiamo dire che
l’organizzazione criminale-militare ha ricevuto durissimi
colpi, mentre il sistema dei rapporti, soprattutto quelli con i
politici, è stato soltanto sfiorato, sia per la carenza di
strumenti legislativi (il concorso esterno in associazione mafiosa
è elaborazione giurisprudenziale) sia perché
più che la magistratura e le forze dell’ordine su
questo terreno dovrebbe attivarsi l’intero corpo sociale.
Per un’analisi di classe
Il problema teorico
di fondo riguarda la possibilità di fondare una lettura del
fenomeno mafioso su un’analisi di classe. Ma oggi
è possibile un’analisi di classe?
Nel paradigma marxista le classi sociali sono ancorate ai rapporti di
produzione ma lo stesso Marx non ha sviluppato un’analisi
compiuta delle classi sociali. Il terzo libro del Capitale
contiene un frammento sulle classi, inizio di un cinquantaduesimo
capitolo che non è stato scritto. Nel frammento si parla di
“tre grandi classi della società
moderna”: gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari
fondiari. Marx avverte: a prima vista può sembrare che gli
individui che formano le tre classi vivano di salario, di profitto e di
rendita fondiaria, ma in realtà c’è un
“infinito frazionamento di interessi e di
posizioni”.
Per studiare questo “infinito frazionamento”
più del Marx teorico è utile il Marx storiografo.
In opere come Il 18 brumaio e Lotte di
classe in Francia l’analisi della
società reale individuava varie classi e frazioni di classe:
l’aristocrazia finanziaria, la proprietà
fondiaria, la borghesia industriale, la piccola borghesia, i contadini,
il proletariato industriale, il sottoproletariato. Il modello astratto
è dicotomico ma l’analisi concreta è
pluralistica.
L’“infinito frazionamento” nel corso del
tempo si è ulteriormente intensificato e per analizzare la
complessità attuale ci può dare una mano lo
stesso Marx con il concetto di “formazione
economico-sociale”: una totalità comprensiva di
rapporti sociali, mezzi di produzione, modelli culturali, che distingue
una società determinata. Il paradigma marxiano non
è quindi limitato ai rapporti di produzione e può
essere utilmente integrato con aspetti psicosociologici, culturali
ecc., accogliendo le indicazioni di Weber e di altri più
vicini a noi.
Le critiche mosse al mio concetto di “borghesia
mafiosa” esprimono la preoccupazione di una eccessiva
dilatazione dell’“aggregato mafioso” e di
una criminalizzazione generalizzata che richiederebbe una sorta di
palingenesi sociale, ma la mia analisi non opera generalizzazioni e,
come vedremo, è andata di pari passo con la ricostruzione di
lotte sociali di massa che sono la dimostrazione più
efficace dell’improponibilità di una
criminalizzazione in blocco. Ma le critiche sottendono un convincimento
di fondo: l’obsolescenza di modelli fondati
sull’analisi di classe e del vocabolario marxista,
considerati come peccati di gioventù da archiviare in gran
fretta per mettersi in linea con la deideologizzazione imperante,
ignorando o facendo finta di ignorare che l’onnipotenza del
mercato, la sacralità del neoliberismo, il monopolio del
pensiero unico sono anch’essi modelli ideologici, anzi
superideologizzati.
In realtà l’analisi di classe è stata
più predicata che praticata e nel nostro Paese gli studi di
Sylos Labini sulle classi sociali sono tra i pochi esempi che possono
ricordarsi. A mio avviso l’analisi di classe si
può fare anche oggi, con gli occhi rivolti al presente,
lasciandoci alle spalle schematismi scolastici, come
l’economicismo, ed elaborando modelli teorici complessi e
aperti. La mia analisi della mafia vuole essere un esempio in questo
senso, essendo il frutto di un’ibridazione di
concettualizzazioni di vario orientamento, sposando più
l’et-et che l’aut-aut,
correndo consapevolmente il rischio dell’eclettismo per
sfuggire a quello di polarizzazioni sterili e fuorvianti.
Lotta di classe e impegno civile
Anche sulla lotta
contro la mafia imperano stereotipi e smemoratezza. Per la vulgata
corrente tutto sarebbe cominciato negli ultimi anni, dopo le stragi in
cui sono morti Falcone e Borsellino o dopo il delitto Dalla Chiesa,
poiché da quegli eventi datano iniziative di vario genere e
spessore: manifestazioni, costituzione di comitati, associazioni ecc.
In realtà la lotta contro la mafia si può dire
che sia coeva alla mafia e nella fase agraria ha avuto nel movimento
contadino il soggetto fino a oggi più significativo per
continuità, partecipazione di massa, qualità
strategica. In questa fase la lotta contro la mafia si presenta come lo
specifico siciliano della lotta di classe e del conflitto sociale, con
tutti i problemi che furono discussi all’interno della
“questione agraria” già alla fine
dell’800. Si confrontarono due tesi con le corrispondenti
linee d’azione: la prima, con un’ottica che
comprendeva oltre al proletariato delle campagne le componenti
piccolo-borghesi: i contadini piccoli e medi proprietari, con obiettivi
riformisti; i congressi di Zurigo e di Reggio Emilia del 1893 che
tracciarono confini più stretti, limitando
l’azione ai braccianti e ponendo l’obiettivo della
collettivizzazione delle terre.
Nella mia Storia del movimento antimafia,
ricostruendo tali lotte sono partito dai Fasci siciliani
(1891-94), organizzazioni a metà strada tra sindacato e
partito, in gran parte ispirate al nascente Partito socialista,
impegnate su una serie di obiettivi: miglioramenti salariali, contratti
di lavoro, diritto al voto. La nascita di un nuovo soggetto
sindacale-politico, che invertiva la rotta rispetto alla tradizionale
frammentazione contadina, destò vivissime preoccupazione tra
gli agrari e le forze conservatrici che riuscirono ad ottenere la
repressione violenta del movimento. In un anno, dal gennaio del 1893 al
gennaio del 1894, ci furono 108 morti: sparavano sui manifestanti i
soldati inviati dal capo del governo Crispi e i campieri mafiosi.
Seguì la prima grande ondata migratoria, con circa un
milione di emigrati.
Il movimento riprende negli anni precedenti il fascismo, si pone con le
affittanze collettive il problema di eliminare il ruolo sociale dei
mafiosi, subisce ancora una volta la repressione violenta e tra i
caduti ci sono Nicolò Alongi e Giovanni Orcel che
sperimentavamo forme di unità tra contadini e operai.
Nel secondo dopoguerra il movimento contadino è un grande
movimento di liberazione con centinaia di migliaia di persone che si
battono per l’assegnazione delle terre incolte, per la
divisione del prodotto a favore dei coltivatori e per la riforma
agraria. Nel triennio 1944-47 il movimento contadino ha
impulso e sostegno dal governo di coalizione antifascista, e il 20
aprile del ’47, alle prime elezioni regionali siciliane,
porta alla vittoria, per la prima e ultima volta, le forze di sinistra
unite nel Blocco del Popolo. Dieci giorni dopo, il primo maggio,
c’è la strage di Portella della Ginestra e nel
corso del mese di maggio sia a Roma che a Palermo si formano i governi
centristi, con l’esclusione delle sinistre. La rottura del
’47 non si comporrà più e la strage di
Portella si inserisce in un contesto in cui interessi locali, nazionali
e internazionali si saldano insieme. La riforma agraria del 1950
sarà una beffa e un milione e mezzo di siciliani lasceranno
l’isola. Da allora sindacati e forze politiche di sinistra in
Sicilia saranno minoritari.
Negli anni ’60 e ’70 la lotta contro la mafia
è condotta da minoranze, all’interno della
Commissione antimafia, istituita dopo la strage di Ciaculli del 1963, e
all’esterno da personaggi come Dolci e militanti della Nuova
sinistra come Impastato. A Palermo noi del Manifesto siciliano, in
totale isolamento, cercavamo di rilanciare l’analisi della
mafia, parlando di borghesia mafiosa e lanciando una campagna per
l’espropriazione della proprietà mafiosa. Su
queste basi nel 1977 nasce il Centro siciliano di documentazione di
Palermo, successivamente intitolato a Giuseppe Impastato.
Dagli anni ’80, dopo i grandi delitti e le stragi, si
svolgono grandi manifestazioni e cominciano ad operare comitati, centri
e associazioni della società civile organizzata. Sfiorite le
emozioni suscitate dalla delittuosità mafiosa, le
attività continuative si sono concretate nelle iniziative di
“educazione alla legalità” nelle scuole,
nella creazione di associazioni antiracket, nella costituzione di
cooperative per l’uso sociale dei beni confiscati. Dopo le
stragi del ’92 e del ’93 le attività,
soprattutto quelle nelle scuole, si estendono a tutto il territorio
nazionale.
Che rapporto ci può essere tra la mobilitazione antimafia
degli ultimi anni e i movimenti sociali sviluppatisi dagli anni
’60 a oggi? Le riflessioni sui movimenti sociali hanno
seguito varie piste. Negli Stati Uniti, mentre gli studiosi
dell’azione collettiva della scuola funzionalista ne hanno
rilevato il carattere irrazionale e patologico, confinandola tra le
forme di “devianza”, i teorici della
“mobilitazione delle risorse” hanno sostenuto che i
movimenti collettivi nascono dal calcolo razionale degli interessi in
una società composta da gruppi sociali in conflitto tra loro.
La sociologia europea ha individuato nei nuovi movimenti sociali gli
attori che hanno rimpiazzato la classe operaia e contestano
l’attuale assetto di potere. Essi sarebbero da ascrivere alla
lotta di classe, con nuovi soggetti, nuove modalità di
azione, nuovi obiettivi.
L’attuale movimento antimafia è interclassista o
aclassista, i soggetti sono docenti e alunni, commercianti e
imprenditori, cioè soprattutto ceto medio, giovani
disoccupati di varia estrazione, in tutto alcune migliaia di persone
continuativamente impegnate, tenendo conto che le attività
nelle scuole anche se coinvolgono gran parte degli studenti sono spesso
sporadiche ed episodiche. Sul piano teorico-programmatico opera una
contraddizione di fondo, riportabile all’idea di mafia
esplicita o implicita: la consapevolezza della complessità
del fenomeno mafioso, dei suoi legami con le istituzioni e che quindi
un’attività antimafia non può non porsi
il problema della critica e del rinnovamento istituzionale, convive con
la concezione e la pratica legalitaria della difesa dello Stato
dall’assedio criminale.
Manca un progetto di antimafia sociale in grado di creare un blocco
sociale alternativo, sottraendo alle reti clientelari gli strati
popolari, che fungono da indotto periferico e base di consenso per i
soggetti di borghesia mafiosa, e insieme concorrono a tenere in piedi
un sistema di potere (da Cuffaro a Lombardo, a Berlusconi) non solo
colluso con personaggi mafiosi ma organicamente legato a prassi
illegali. Ma questo progetto manca anche alle forze politiche che si
autodefiniscono di sinistra.
Indicazioni bibliografiche
U. Santino, Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000; Movimenti sociali e movimento antimafia in www.centroimpastato.it, pagina Saggi e articoli; Mafie e globalizzazione, Di Girolamo, Trapani 2007.
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