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La merce
Roberto Fineschi
Il concetto di merce
è la chiave della teoria marxiana del
“capitale”. La sua complessa definizione implica
una serie di nozioni di carattere filosofico ed economico che trovano
poi pieno sviluppo nello svolgimento della teoria nella sua interezza.
Essa è, infatti, detta “forma economica
cellulare”.
La merce è unità immediata di valore
d’uso e valore. Essa è, dunque, da una parte un
oggetto utile, caratteristica che non la distingue dal più
generico “prodotto”, in quanto
l’utilità è presupposto comune a
qualunque forma del risultato del processo lavorativo – il
prodotto – in qualsiasi forma di organizzazione della
riproduzione umana. Questo è il suo “contenuto
materiale”, condizione necessaria ma non sufficiente alla
definizione di merce.
L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in
genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei
limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché
uno degli assiomi più controversi, ma più o meno
indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.
Torniamo alla merce. Oltre che valore d’uso, essa deve essere
anche valore, ovvero avere “forma sociale”
storicamente specifica. Se pare meno controversa la definizione del
valore d’uso, da sempre si discute su quella di valore. Marx
la articola in tre passaggi: sostanza, grandezza e forma di valore. I
primi due punti sono affrontati nel § 1 del I capitolo del I
libro del Capitale, il terzo nel § 3. Una lunga traduzione
interpretativa, che risale, in parte, allo stesso Engels, ha conferito
maggiore importanza al § 1, dove Marx afferma essere il lavoro
astrattamente umano la sostanza del valore ed il tempo di lavoro
socialmente necessario alla produzione di una merce la sua grandezza di
valore. Lavoro astrattamente umano implica che non si tratti di un
genere determinato di lavoro concreto a creare il valore, vale a dire
che non sono la sartoria in quanto sartoria, o la tessitura in quanto
tessitura a farlo; sartoria e tessitura pongono il valore in quanto
figure particolari di lavoro astrattamente umano, di lavoro umano in
genere. Sulla base di queste pagine parrebbe poter emergere una
definizione puramente tecnica del valore, che si ridurrebbe a una certa
quantità di “lavoro contenuto” nel
prodotto, da misurarsi attraverso il dispendio di forza-lavoro ovvero
il tempo di lavoro. Questo tipo di lettura era in qualche modo
suggerito dal modo in cui Marx imposta la questione della
“trasformazione dei valori in prezzi” nel IX
capitolo (ma non nel X) del III volume. È più o
meno questo che si intende comunemente con “teoria del
valore-lavoro”.
In contrapposizione a questa tendenza è emersa
un’articolata scuola detta della
“forma-valore” che poneva l’accento sul
terzo elemento della teoria della merce sostanzialmente ignorato dal
precedente approccio. Si mostrava innanzitutto come secondo lo stesso
Marx il problema teorico vero e proprio fosse la forma di valore, come
dimostra la continua riscrittura di questa parte che è del
resto la più ampia del capitolo. Il concetto centrale di
questo approccio è che il valore come tale non compare
fenomenicamente e quindi non è misurabile come tempo. Esso
è un concetto sociale e si può quindi mostrare
solo nel rapporto sociale di merci, ovvero lo scambio, e non sulla base
della tecnologia necessaria alla produzione della merce prima di esso.
La produzione privata dei produttori privati deve essere socializzata e
questa socializzazione avviene, appunto, mediante lo scambio. Senza
questa mediazione il lavoro privato è come non-speso ed il
prodotto non ha valore (e privatamente speso, ma non socialmente
convalidato). Si tratta di un approccio variegato, le cui posizioni
più estreme arrivano ad assolutizzare la forma a discapito
della sostanza, dubitando addirittura che essa possa essere il lavoro
astrattamente umano.
Entrambi questi approcci colgono il vero, ma solo per una parte,
perché pongono l’accento su un momento dello
sviluppo della teoria della merce nel suo complesso facendo forza sugli
elementi che effettivamente in quell’ambito devono essere
esattamente in quel modo, senza però avvedersi
dell’intero e degli altri momenti. Paiono del resto ignorare
una chiara indicazione del tardo Marx che afferma che il suo punto di
partenza non è né il valore, né il
lavoro, tanto meno la forma di valore (ovvero il valore di scambio), ma
la merce. Se, insomma, entrambe possono far valere una certa
plausibilità, essa si ridimensiona non appena si proceda a
una ricostruzione filologicamente più attenta della teoria
come intero. Solo a titolo di esempio si consideri addirittura la
definizione “teoria del valore-lavoro” (la prima
posizione, dominante soprattutto fra gli economisti amici e nemici di
Marx): non solo Marx non ha mai usato queste parole, ma essa
è stata inventata dal suo “nemico
giurato”: Böhm-Bawerk! Forse una più
seria riconsiderazione delle sue premesse sarebbe, prima o poi,
auspicabile (anche per impostare su fondamenta più solide la
“trasformazione”).
Per una sintesi, si potrebbe ricordare che il valore come tale non
compare mai, ma che si manifesta nelle forme fenomeniche da cui
inizialmente si astraeva per fissarlo. Voler misurare il valore di per
sé, attraverso il tempo di lavoro o in qualsiasi altro modo
è impossibile, perché il valore di per
sé non esiste fenomenicamente. La forma di valore
è la modalità nella quale il valore si manifesta
e solo in essa si può cercare il criterio della sua
misurazione. Quanto tempo di lavoro sta sotto il rapporto fra X merce
contro Y denaro non è dato saperlo immediatamente. Una cosa
è il fatto che la grandezza di valore abbia una misura
immanente, una consistenza (per quanto puramente sociale);
un’altra è il modo in cui questa grandezza viene
socialmente misurata. Se tre ore di lavoro rappresentano il tempo
socialmente necessario a produrre una merce x, ciò
rappresenta la consistenza della grandezza di valore; per come
è strutturato il modello tuttavia è possibile
misurare queste tre ore solo al momento dello scambio (di merce contro
denaro), perché è lì che le ore
erogate privatamente diventano (o meno) socialmente necessarie. Si
devono allora intendere e distinguere tre concetti: 1) con misura di
valore la dimensione obiettiva della grandezza di valore; 2) con
misurazione l’azione attraverso la quale questa grandezza
obiettiva si fissa e viene socialmente percepita a livello fenomenico;
3) con misuratore quell’elemento che nella misurazione
permette la conoscenza della grandezza obiettiva alla superficie della
società (in una forma che non coincide con la misura).
Ricapitolando: la grandezza di valore ha una misura immanente, una
quantità obiettiva: il tempo di lavoro socialmente
necessario. La misurazione di esso, tuttavia, non può
avvenire ex ante, ma solo ex post attraverso la misurazione, ovvero lo
scambio di merce contro denaro (il misuratore), perché
lì effettivamente si stabilisce quanto del lavoro erogato
privatamente è socialmente necessario (si noti che a questo
scopo è necessario che la cosa sia ritenuta
“utile” da chi la compra, se questo non avviene non
c’è valore. Valore d’uso + valore =
merce). Nel dibattito tradizionale si è appiattita la
misurazione, e pure il misuratore, sulla misura di valore.
Con questo non si è detto nulla della “dialettica
della merce”, ovvero della struttura logica che Marx ritiene
sia immanente a questa categoria e che, una volta data
l’unità di valore d’uso e valore, fa
sì che si articoli nelle varie categorie.
Riferimenti bibliografici essenziali
Sulla forma di valore
H. G. Backhaus, Dialektik der Werform, Freiburg,
ça ira, 1997 (presto disponibile in traduzione italiana
parziale)
Si vedano le varie pubblicazioni dell’International Symposium
on Marxian Theory. Disponibile in italiano Marx in discussione,
Napoli, La città del sole, 2008
Sulla teoria del valore-lavoro
M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Torino,
1972
P. Garegnani, Marx e gli economisti classici,
Torino, Einaudi, 1981
Per un’analisi alla luce della nuova edizione critica delle
opere di Marx ed Engels (Marx-Engels-Gesamtausgabe, MEGA)
R. Fineschi, Ripartire da Marx, Napoli, La
città del sole, 2001
M. Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert, 2a ed.,
Münster, 1999
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