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Per una nuova analisi di classe. Il significato dell’inchiesta
Proponiamo qui la sbobinatura di un seminario tenuto presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Siena il 23.3.2007, dal titolo Per
una nuova analisi di classe: il significato dell’inchiesta.
L’incontro era inserito in un ciclo annuale intitolato Rileggere
Marx. Seminari e incontri. Nei prossimi mesi pubblicheremo su
questo sito le trascrizioni degli altri appuntamenti; il programma
completo è ancora scaricabile alla pagina www.unisi.it/seminari_marx.pdf.
Dall’esperienza di Rileggere Marx,
organizzato dal “Gruppo Universitario Intrecci”,
dalla Rete dei Precari dell’Università di Siena e
dal Centro Interuniversitario Franco Fortini, sono venuti diversi
spunti e temi di questa rivista. Ci sembra dunque importante non
disperdere quel patrimonio e farne una base condivisa per ulteriori
discussioni.
La Redazione
* * * *
ALESSANDRA RECCIA
Il ciclo di seminari
di Rileggere Marx prevede oggi un incontro
sull’«inchiesta». I nostri ospiti sono
Edoarda Masi - studiosa di storia, letteratura e politica cinese, per
molti anni docente di letteratura cinese presso
l’Università Orientale di Napoli, traduttrice di
alcuni capolavori come
Il sogno della camera rossa e di alcune opere di Lu
Hsun - e Luciano Vasapollo, docente di Statistica aziendale
all’università La Sapienza di Roma, direttore del
Cestes (Centro studi trasformazioni economico-sociali) e di
«Proteo», rivista che si occupa di analisi delle
dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro. Tra i suoi
numerosi libri ricordiamo L’uomo precario,
Eppure il vento soffia ancora, che tra
l’altro presenteremo domani (cfr. trascrizione incontro) e L’acqua
scarseggia ma la papera galleggia, sull’economia
cubana.
Dagli incontri precedenti del nostro ciclo possiamo dire di aver capito
due cose almeno: la prima è il carattere temporale del modo
di produzione capitalistico e la seconda è lo sfruttamento
del lavoro salariato che è insito in questo modo di
produzione e il suo occultamento. Queste due affermazioni sono,
possiamo dire, verificabili teoricamente ed empiricamente. Nel modo di
produzione capitalistico il livello di certificazione dello
sfruttamento però si complica, non è semplice. Il
nostro compito, allora, in questo momento, come lavoratori
all’interno di una struttura come
l’università, è capire, se, come e in
che modo noi facciamo parte del processo di produzione capitalistico e
come garantiamo con il lavoro di ricerca e didattica la produzione.
Anche quando studiamo Dante, e quindi non entriamo direttamente nel
circuito produttivo, e non solo quando facciamo l’analisi
delle acque minerali, garantendo così alle multinazionali la
manodopera e le strutture. Quando ce la raccontiamo tra di noi la
nostra situazione, per quanto grave, ci sembra comunque
“naturale”. Volendo parlare degli universitari, dei
dottorandi per esempio, questi si considerano fortunati
perché almeno per tre anni hanno uno stipendio assicurato; i
ricercatori, gli assegnisti sono speranzosi perché pensano
«chissà dopo cosa accadrà?»;
i docenti a contratto cominciano a rassegnarsi solo dopo qualche anno.
Eppure ogni volta, e per ognuno di questi, ciascuna di queste fasi
è vissuta come una fase normale, una fase naturale, e
più regrediamo al semplice stato di lavoratori, alla
condizione di operai della conoscenza più perdiamo il senso
del nostro ruolo nell’ambito della divisione internazionale
del lavoro. Ora, quando uso la definizione “operai della
conoscenza” non la uso in senso mitico, ma per operai della
conoscenza intendo quei lavoratori subordinati, senza capitale di base
e che posseggono solo la loro forza-lavoro, con una serie di competenze
più o meno scientifiche che possono essere usate tanto per
la costruzione di macchinari di ogni sorta, tanto per il loro uso e che
svolgono un’attività che, nonostante le apparenze,
è direttamente legata ai processi produttivi. Il mercato
dell’editoria è soltanto uno dei possibili esempi.
Tutti i prodotti della conoscenza non vengono considerati merci, ma in
realtà lo sono, se è vero che tutto
ciò che si produce all’interno del processo
capitalistico assume questa forma.
In queste condizioni, i cosiddetti intellettuali sono ridotti a
semplici lavoratori, cioè perdono la loro caratteristica
principale che è l’intellettualità, e
cioè la capacità di ragionare sui processi e si
ritrovano completamente immersi nei processi di produzione del
capitale.
A questo punto tutte le nostre rivendicazioni specifiche, anche quelle
che portiamo avanti come Rete dei Ricercatori Precari (RRP) rischiano
di diventare rivendicazioni parziali e di essere facilmente assorbite
se non si organizzano verso una rivendicazione più generale
e cioè capace di mettere in luce il conflitto
capitale-lavoro, recuperando il senso specifico del lavoro
intellettuale. Questa rivendicazione però non è
esclusiva dei lavoratori della conoscenza, in quanto tutti i lavoratori
presentano uguali esigenze. Non diciamo che le condizioni sono le
stesse, ma diciamo che tutti questi lavoratori, siano essi della
conoscenza o telefonisti dei call-center, stanno
sullo stesso piano in quanto svolgono lo stesso ruolo nei confronti del
processo di produzione. Ecco perché bisogna recuperare il
ruolo dell’intellettualità intesa come
comprensione della realtà lavorativa in cui ci si trova a
operare. L’inchiesta può diventare a questo
proposito un utilissimo strumento di comprensione, di analisi del
processo di produzione e di autoanalisi della nostra condizione
lavorativa ed è strumento, insieme alla teoria
politico-economica di Marx, insito nel metodo di Marx stesso. Si tratta
per noi di recuperare una tradizione attiva. Ecco perché
abbiamo invitato questi due ospiti a cui lasciamo la parola.
EDOARDA MASI
L’inchiesta
di cui qui intendiamo parlare non è la pratica di routine
per i sociologi, anche se di quella pratica può utilizzare
ove occorra alcune tecniche. Si tratta di uno fra i metodi con i quali
un determinato soggetto prende contatto diretto con la
realtà conducendo una ricerca sulle condizioni oggettive e
soggettive di individui e gruppi sociali – dove tutti,
indagatore e indagati, siano a un tempo soggetto e oggetto della
ricerca.
Si può condurre questo tipo di inchiesta principalmente per
verificare delle ipotesi; oppure principalmente per iniziare la
conoscenza di una realtà ignota o poco chiara; in ogni caso,
per iniziare con i soggetti indagati un rapporto di reciproca
pedagogia. Mi limiterò qui a portare due esempi:
l’inchiesta concepita da Marx nello schema di questionario
per la «Revue socialiste» di Benoît
Malon, 20 aprile 1880; l’inchiesta concepita e praticata da
Mao Zedong sui contadini nella provincia del Hunan nel febbraio 1927.
L’uso che il gruppo dei «Quaderni rossi»
fece della prima esplicitamente, e implicitamente della seconda, ci
conduce più vicino ai problemi del presente. Deve esser
chiaro però che anche nel caso in cui con
l’inchiesta si intenda iniziare la conoscenza di una
realtà non pregiudizialmente definita non si parte da zero.
È inevitabile un insieme di presupposti iniziali, diciamo di
postulati – relativi quanto meno al metodo. Quanto
più i postulati saranno espliciti, tanto più il
percorso sarà chiaro e non viziato da falsa coscienza. Il
postulato molto generale da cui partiamo in questo nostro discorso
è il fine politico-sociale della trasformazione dello
“stato di cose presente” (a monte del quale stanno
i giudizi, non necessariamente “oggettivi”
– secondo i cultori della scientificità neutra e
non di parte – su tale “stato di cose”).
L’inchiesta
di Marx ha per oggetto gli operai nella fabbrica. Infatti
nell’elaborazione teorica di Marx la classe operaia
è, del capitale, la componente produttrice fondamentale e la
fondamentale contraddizione antagonistica. “Nessun governo,
sia esso monarchico o repubblicano borghese, ha osato mai intraprendere
una inchiesta seria sulla situazione della classe operaia
francese”, scrive nell’introduzione
(“francese”, perché scriveva su una
rivista francese). Lo schema si divide in quattro capitoli.
Nel primo, le domande vertono sul tipo di impresa, numero,
età e sesso dei lavoratori, condizioni ambientali, misure di
sicurezza, eventuale lavoro a domicilio. Nel secondo capitolo, ci si
occupa della giornata lavorativa (orario di lavoro, impiego di donne e
fanciulli). Il terzo capitolo riguarda i contratti di lavoro e le
paghe, anche in rapporto con le spese necessarie del lavoratore
(incluse le tasse). Seguono domande sui salari in generale, sugli
effetti dell’introduzione di nuova tecnologia
sull’occupazione e sui salari, sulle pensioni. Il quarto
capitolo è dedicato alla resistenza e alle organizzazioni
degli operai, alle reazioni padronali conseguenti, alle mutue, alla
eventuale compartecipazione dei lavoratori ai profitti.
Questo breve riassunto non vale a dare l’idea di quel che sia
realmente il questionario. Le domande si susseguono numerose e precise,
si concatenano in una logica implacabile, sottintendono
un’analisi in profondità fatta in precedenza. A
verifica è posta una teoria già ampiamente
costruita, anche nei dettagli. Ma sul fine stesso della verifica sembra
prevalere quello pedagogico. Il susseguirsi di domande sembra voler
indurre l’operaio a una riflessione e a una presa di
coscienza critica su fatti ai quali probabilmente non ha dato peso, che
gli sono stati presentati come naturali e ora potrebbero apparirgli
sotto altra luce. Insomma, è palese il proposito primario di
indurre l’intervistato a pensare e giudicare. Il fine
pedagogico discende dall’assunto di Marx che la liberazione
dei lavoratori può avvenire solo ad opera di loro stessi.
Nello stesso tempo, egli parte dalla convinzione di possedere, quale
intervistatore, conoscenze teoriche che l’intervistato non
possiede e che gli vanno trasmesse, sia pure in forma dialogica. La
verifica di quelle conoscenze teoriche, pur presente, è
relativamente secondaria.
Se pensiamo ai fiumi d’inchiostro versati per discutere
sull’origine della coscienza di classe, alimentata
dall’interno o indotta dal di fuori, la lettura di questo
schema d’inchiesta appare come l’uovo di Colombo.
L’intervistatore (attivista colto) parte chiaramente da sue
ben maturate convinzioni; ha certo l’arma del questionario
nelle mani, a condizionare in parte l’intervistato; ma questi
è sollecitato a riflettere in termini tali, da poter
smentire gli stessi pre-giudizi dell’intervistatore: insomma,
il quadro è quello di una libertà reciproca,
illuministicamente intesa. Non esiste in nessun caso una garanzia
contro le trappole ideologiche dell’illuminismo e la
formazione di falsa coscienza; ma un metodo simile a questo
è comunque assai più rispettoso della
personalità degli individui di quanto non lo siano i culti
populistici delle cosiddette
“soggettività” in auge nei nostri anni
settanta, che hanno finito per creare, da un lato, la mitologia della
classe operaia e per condurre, dall’altro, al culto della
asocialità solipsistica così funzionale agli
interessi del nemico di classe.
Il Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nel Hunan è il testo più famoso di Mao Zedong, e uno dei capolavori della saggistica politica del Novecento. Della prima parte, La rivoluzione nelle campagne, vi leggo il capitolo iniziale, Importanza della questione contadina:
“Durante la
mia recente inchiesta sul campo nei cinque distretti di Xiangtan,
Xiangxiang, Hengshan, Liling e Changsha, nei trentadue giorni dal 4
gennaio al 5 febbraio ho convocato nei villaggi e nelle
città di distretto contadini ricchi di esperienza e compagni
del movimento contadino in riunioni d’indagine sui fatti; ho
ascoltato con attenzione quanto riferivano e ho raccolto non poco
materiale. Molti argomenti del movimento contadino erano esattamente
l’opposto di quelli della classe terriera a Hankou e
Changsha. Ho visto e udito molte cose straordinarie, che fino allora
non avevo visto né udito: cose che credo siano le stesse in
ogni provincia cinese. Perciò gli argomenti di ogni sorta
contro il movimento contadino devono essere immediatamente corretti,
tutte le misure errate prese dalle autorità rivoluzionarie
contro il movimento contadino devono essere immediatamente cambiate.
Solo così il futuro della rivoluzione ne trarrà
beneficio. Perché l’insorgere oggi del movimento
contadino è un evento grandioso. In brevissimo tempo
centinaia di milioni di contadini si leveranno in tutte le province
della Cina centrale, del sud e del nord come un vento impetuoso e una
tempesta, rapida e violenta, che nessun potere, per quanto grande,
riuscirà a domare. Essi faranno a pezzi tutte le pastoie che
li legano, per precipitarsi sulla via della liberazione. E infine da
loro tutti gli imperialisti, signori della guerra, burocrati corrotti,
prepotenti locali, proprietari terrieri verranno sepolti nella tomba.
Tutti i partiti rivoluzionari e i compagni rivoluzionari dovranno
comparire davanti a loro per essere esaminati e giudicati. Mettersi
alla loro testa e guidarli? O star loro dietro gesticolando e
criticando? O mettersi di fronte a loro per opporsi? Ogni cinese
è libero di scegliere fra le tre, però siete
destinati a scegliere alla svelta.
Seguono la mia inchiesta e le mie opinioni, scritte in diversi
capitoli, per essere esaminate dai compagni rivoluzionari.”
Le tre parti del
testo – La rivoluzione nelle campagne, L’avanguardia
rivoluzionaria, Contadini e associazioni contadine
– si suddividono in brevi capitoli, dove una descrizione a
volte minuziosa degli eventi si accompagna ai commenti e ai giudizi
politici dell’autore, come traspare già dai
titoletti: Si organizzano; Davvero
terribile e davvero eccellente;
La questione di “andare troppo oltre”;
Il movimento della canaglia;
Avanguardia della rivoluzione o fondamento della rivoluzione;
e così via. Non mancano rilevazioni propriamente
sociologiche, c’è anche una tabella comparativa
distretto per distretto, dove fra i membri delle associazioni contadine
è indicato il numero di braccianti, contadini affittuari,
semi-proprietari, proprietari; artigiani, maestri di scuola, piccoli
commercianti, donne, altri. Nella terza parte sono esaminate le diverse
iniziative di governo delle associazioni contadine, dopo che hanno
preso il potere nei villaggi.
Per comprendere il significato e le intenzioni di questo rapporto
è indispensabile un brevissimo accenno al contesto in cui si
svolge. Nei primi anni venti, su direttiva della III Internazionale, il
partito comunista cinese costituisce un blocco col partito nazionalista
– Guomindang (viene detto “blocco
interno”, perché i membri del partito comunista
diventano membri anche del Guomindang, che
rappresenta gli interessi della cosiddetta “borghesia
nazionale” – tuttavia fortemente legata alle
vecchie classi possidenti agrarie, che in teoria dovrebbe combattere).
Il fine comune è la liberazione della Cina dai signori della
guerra che si sono impadroniti delle diverse province e del governo
centrale a Pechino, e la fondazione di uno stato indipendente. Questa
alleanza, fallimentare, si concluderà proprio
nell’aprile 1927 col voltafaccia di Jiang Jieshi e il
massacro di migliaia di operai, sindacalisti e comunisti a Shanghai
– episodio che, insieme con la tragedia della Comune di
Guangzhou alla fine di dicembre, distruggerà
l’ipotesi di una rivoluzione operaia in Cina.
I comunisti come Mao Zedong, e il suo maestro Li Dazhao, contro le
rigidità di un pensiero che, nato in Europa per interpretare
la società europea, diventava in Cina vuoto dogma se
applicato alla lettera, si erano resi conto che nell’era
della colonizzazione mondiale i soggetti principali della lotta contro
il capitale in Cina, coloro che costituivano la massa più
numerosa e possente di lavoratori e ad un tempo i più
sfruttati, coloro che “non avevano da perdere che le loro
catene”, erano i contadini. Questa convinzione, basata
sull’evidenza dei fatti, non era però stata
elaborata in una teoria organizzata, non solo per la
complessità della questione ma anche perché il
partito comunista cinese era subalterno alla III Internazionale, anche
sul piano della teoria. Durante la “spedizione al
nord” contro i signori della guerra da parte delle
“forze rivoluzionarie”, cioè esercito
del Guomindang più Partito Comunista Cinese, esplose la
rivolta dei contadini, che trovarono in quella spedizione
un’occasione per liberarsi dalla soggezione ai proprietari.
Ma la cosa non fu bene accetta dalle “forze
rivoluzionarie”, cioè dal Guomindang, che
rappresentava classi proprietarie, sia pure con pretese politiche di
modernizzazione. I dirigenti comunisti erano legati mani e piedi al
Guomindang, almeno ufficialmente. In questo contesto si svolge
l’inchiesta di Mao, che rivela nel modo più chiaro
la reale lotta di classe: e anche come nei giudizi opposti sul
comportamento dei contadini in rivolta siano evidenti le posizioni
delle classi in conflitto. Il valore dell’inchiesta sta nel
fatto che questa verità scaturisce dai fatti, non da una
dottrina prefabbricata né da qualsiasi preconcetto.
Nei primi anni sessanta, quando Raniero Panzieri riunì a
Torino il gruppo di giovani dei «Quaderni rossi»,
mentre il boom economico cambiava in gran parte la faccia della
società italiana, nei partiti dei lavoratori, socialisti e
comunisti, e se pure in misura minore nei sindacati, si rilevava un
distacco crescente fra la base da un lato, e le dirigenze e gli
apparati dall’altro. La crisi aveva origine non solo nei
fenomeni di burocratizzazione e del poco ascolto dato alle voci dei
lavoratori ma anche nelle scelte di compromesso con gli esponenti
politici ed economici dell’avversario di classe fatte a
partire dal dopoguerra dai partiti della sinistra. Era anche collegata
al lungo percorso involutivo dell’Unione Sovietica, segnalato
ormai da decenni dai marxisti critici (fino allora minoranza
intellettuale) e negli anni seguiti alla morte di Stalin divenuto di
pubblico dominio (in seguito al XX congresso, ai fatti di Ungheria e di
Polonia, e anche per la critica condotta dai comunisti cinesi); ma, da
noi, senza chiarezza né chiarificazioni. La gestione
autoritaria da parte dei dirigenti dei partiti dei lavoratori
si accompagnava sempre più alla svendita dei
contenuti socialisti nella loro politica (revisionista, come dicevano
alcuni). Nei primi anni sessanta era grave, ma latente,
quell’insofferenza di larghe sfere giovanili, studentesche e
operaie, che si coagulò poi nella rivolta del ’68
e dei primi anni settanta.
Il programma di Raniero Panzieri, dirigente socialista di orientamento
comunista, a quel tempo emarginato dalla direzione del suo partito
sempre più orientato al compromesso politico col centro, e
intorno a lui del gruppo dei «Quaderni rossi»,
partiva da una fedeltà alla elaborazione di Marx e da una
presa d’atto che la politica dei partiti della sinistra
italiana non corrispondeva né a quella elaborazione,
né alla realtà della coscienza dei lavoratori e
della lotta di classe nel presente. Di qui, l’organizzazione
di una ripresa dello studio diretto dei testi marxiani, onde liberarsi
da quanto più o meno arbitrariamente vi era stato costruito
sopra, deformando la teoria in dottrina e dogma – specie ad
opera del cosiddetto “marxismo sovietico”; e il
metodo dell’inchiesta sulle reali condizioni –
oggettive e soggettive – della classe operaia, quale premessa
indispensabile per l’elaborazione di una nuova strategia
politica orientata dal pensiero di Marx. Si tenga conto del luogo
privilegiato in cui operavano i «Quaderni rossi»:
la città di Torino, dominata dalla presenza della maggiore
fabbrica italiana; i cui lavoratori fin dal dopoguerra avevano
manifestato un forte spirito propriamente “di
classe”, e di indipendenza dagli indirizzi del movimento
operaio ufficiale1. Il lavoro dei
«Quaderni rossi» anticipò e
indirizzò gli aspetti più sani e creativi nei
movimenti di massa che ebbero poi inizio nel
’68-’69, là dove si indirizzarono a
uscire dai ceppi della politica ufficiale sclerotizzata di una sinistra
che con i suoi giochi di potere imponeva un ulteriore fardello sulle
spalle dei lavoratori, dei giovani, delle donne.
Dell’inchiesta si tratta nel numero 5 della rivista
«Quaderni rossi», preparato in parte mentre
Panzieri era ancora in vita e pubblicato dopo la sua morte. La parte
centrale del fascicolo riferisce di un seminario tenutosi a Torino nel
settembre 1964 sull’ “Uso socialista
dell’inchiesta operaia”. Precedono tre articoli
sulla stessa tematica, di Dario Lanzardo (“Intervento
socialista nella lotta operaia: l’inchiesta operaia di
Marx”, con in appendice il testo del questionario marxiano2),
di Pino Ferraris (“Giornali politici nelle fabbriche del
Biellese”), di Giovanni Mottura (“Note per un
lavoro politico socialista”). Segue una
documentazione-discussione su indagini recenti sulla classe operaia, e
su inchieste fatte alla FIAT e all’Olivetti nel 1961. Il
titolo riassume chiaramente l’intento della pubblicazione:
“Intervento socialista nella lotta operaia”. Lotta
operaia: protagonismo degli operai autori della propria liberazione,
così come era inteso da Marx. Intervento socialista:
posizione non neutra né neutrale di chi conduce
l’inchiesta, ed è orientato secondo una ipotesi
teorico-politica. I due aspetti vanno coniugati. Si comprende quindi
perché, nel preparare l’inchiesta, sia stata
studiato anche lo schema proposto da Marx nel 1880.
Nella trattazione dei primi tentativi di inchiesta sono rilevanti e le
discussioni sul metodo: se adottare o meno i criteri sociologici
correnti. Credo che la lettura di questo numero di rivista possa essere
utile a chi intendesse accingersi a un’impresa analoga nelle
condizioni di oggi. Non per riprodurre o comunque imitare i metodi di
allora, ma per essere richiamati sull’importanza delle
questioni di metodo, di come si debba costruire un sistema organico di
ricerca anche tecnicamente valido, evitare domande casuali o errate; e
avere sempre ben presente il fine: l’acquisizione di una
coscienza comune a intervistatori e intervistati quale vero cammino
verso la conoscenza.
L’inchiesta
dei «Quaderni rossi», che parte
dall’inchiesta di Marx, per alcuni aspetti si avvicina a
quella di Mao Zedong. Nel caso di Mao, per interpretare la
realtà viene assunta una teoria che per qualche motivo non
pare sufficiente o adeguata a interpretarla: si tratta di verificare se
e come i contadini possano essere la classe antagonista fondamentale
del capitale, nelle condizioni cinesi. Nel caso dei «Quaderni
rossi», l’inchiesta dovrebbe chiarire se e come
nell’Italia negli anni sessanta gli operai possiedano i
caratteri di classe antagonista disegnati da Marx, quando
l’evoluzione delle organizzazioni che dovrebbero
rappresentarli e le teorie sociologiche correnti tenderebbero ad
escluderlo; e in ogni caso, a esplorare che cosa siano divenuti gli
operai. Insomma, si tratta di esplorare una realtà che si
presenta in qualche modo nuova e di metterla a confronto con una teoria
di cui misurare la validità.
Nella quarantina d’anni trascorsi da allora, i cambiamenti
nella società sembrano enormi; d’altro lato, i
caratteri strutturali profondi del sistema del capitale non solo non
paiono mutati, ma si sono esplicitati e rivelati con estrema chiarezza.
Al potere del capitale nella sua forma più astratta
(finanziaria) estesa sull’intero pianeta corrisponde un
processo di colonizzazione e di generale espropriazione, non solo di
beni materiali ma anche degli elementari diritti civili e umani; oltre
alla distruzione in corso della possibilità stessa della
vita sulla terra. L’espropriazione non avviene più
(quanto meno, non solo) dentro la fabbrica. Soggetti direttamente
al dominio e allo sfruttamento propriamente capitalistico sono gli
abitanti delle zone rurali – la maggioranza della popolazione
mondiale; ma anche, tanto nei paesi cosiddetti sviluppati o
occidentali quanto in quelli detti sottosviluppati o del Sud,
l’insieme di individui privi di capitale e in possesso
unicamente della propria forza-lavoro: non necessariamente operai, non
necessariamente lavoratori dipendenti.
Sergio Bologna anni fa fece uno studio sui lavoratori dei trasporti:
spesso sono dei padroncini, nelle statistiche compaiono come piccoli
imprenditori ma in realtà hanno tutti i caratteri dei
lavoratori salariati salvo il salario.
Gli abitanti delle zone rurali sono soggetti attraverso il sistema
dell’agribusiness e del sistema dei
brevetti, che utilizzando poi le tecniche della biotecnologia fanno
della penetrazione delle grandi multinazionali nella sfera agricola un
intervento diretto e non più indiretto come accadeva in
precedenza tanto nei paesi cosiddetti sviluppati o occidentali quanto
in quelli detti sottosviluppati o del sud.
Alla condizione universale di spossessati corrisponde la frammentazione
che impedisce di riconoscersi e la costruzione di gerarchie di ogni
tipo che impedisce di unirsi. Mentre è facile, insomma,
relativamente, individuare l’azione del capitale, e molte
validissime ricerche e studi ci aiutano, gli antagonisti sembrano in
quanto tali divenuti invisibili. Cioè sono un concetto
astratto. Credo che un lavoro di inchiesta oggi sia estremamente
necessario per ricercare, al di là di ogni apparenza e di
ogni mistificazione e falsa coscienza, dove siano gli spossessati e gli
oppressi, non solo fra i più miserabili, perché
proprio oggi è in grande voga a causa del pensiero unico di
rivolgersi sempre ai più disgraziati, rientrando
però in un concetto che non ha più niente a che
vedere con lo sfruttamento o con il concetto dello sviluppo del
capitale. È un concetto perenne: “i
poveri” (come se esistessero i poveri, così come
se fosse una fatto di natura) e quindi bisogna essere
“umani” verso di loro. E anche il concetto di
solidarietà, che un tempo era il concetto di
solidarietà tra i lavoratori che vuol dire mettersi insieme
perché si hanno interessi comuni, viene deformato in un
senso che vuol dire pietà, compassione, elemosina. Ma tutto
questo non fa che portare acqua agli interessi del potere. Non si
tratta quindi di beneficiare i poveri, di fare del volontariato, di
creare ong. Credo che si tratti di un lavoro estremamente complesso, di
verifica delle condizioni reali in tutte le zone della
società, analizzando ogni particolare con metodo analitico,
ma per ristabilire i collegamenti, rivelare le analogie, riconoscere le
identità e portare a unire quanto è stato diviso.
Perché questo concetto che oggi soltanto alcuni di noi
vedono in forma astratta, perché lo vediamo solo come forma
antagonista del capitale, deve ritornare ad essere, attraverso
un’opera che può partire dall’inchiesta,
una vera e propria ricostruzione di coscienza comune, deve ricostituire
i rapporti fra i lavoratori. Insomma la famosa frase
“lavoratori di tutto il mondo unitevi!”
è la sola che può funzionare perché si
possa costituire una forma di opposizione valida alla forma che si
chiama neoliberista che poi è l’ultima forma in
cui si organizza il capitale mondiale. Quindi l’inchiesta
deve andare oltre voi stessi, così come proponete, proprio
perché siete lavoratori della conoscenza e quindi siete in
grado di farlo, deve essere anche inchiesta su qualche altro soggetto
della società, per stabilire quali sono le differenze e le
analogie e anche la comunanza di interessi, anche laddove
apparentemente non c’è. Con le privatizzazioni
sono state create delle forme di concorrenza proprio
all’interno delle stesse categorie di lavoratori.
Ciò avviene in tutti i campi. I lavoratori sono messi
l’uno contro l’altro, in tutti i campi. Pensiamo ai
subappalti Fiat, ad esempio, studiati da Vittorio Rieser3.
Non è sufficiente sul piano teorico dire che gli interessi
sono comuni, è necessaria una coscienza comune.
L’inchiesta può diventare uno degli strumenti con
cui si riesce a far acquisire una coscienza di classe.
LUCIANO VASAPOLLO
Innanzitutto vi
ringrazio dell’invito. Per la seconda volta partecipo ai
seminari del gruppo
Intrecci, per parlare delle modificazioni del mondo del
lavoro. L’anno scorso abbiamo parlato più nello
specifico delle questioni del precariato4.
Ringrazio Edoarda Masi per questo bellissimo intervento che peraltro mi
facilita il compito perché, con molta modestia, sia io che i
compagni del Cestes ci rifacciamo al contesto qui rappresentato, di
analisi e di impostazione dell’inchiesta. Mi è
stato chiesto di presentare appunto questo lavoro che stiamo facendo
ormai da quindici anni con il Cestes e con la
rivista «Proteo»: studi, inchieste di natura
economico-sociale, rapporti diretti di inchiesta con i lavoratori e sul
modo di produzione capitalistico nella nuova dimensione che va
assumendo, realizzazione di libri e quaderni. L’ultimo
è uscito proprio da una settimana, si tratta di
un’inchiesta metropolitana che si muove intorno alla logica
della nuova produzione sociale, la cosiddetta “fabbrica
sociale”, della nuova produzione metropolitana: L’inchiesta
metropolitana: mappe, metodi, fonti, riferimenti, Quaderno n.
2 dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo, Edizioni
Print, Roma 2007.
Già agli inizi degli anni Settanta, in particolare Negri e i
“negriani”, hanno avuto grandi intuizioni con la
questione non solo dell’operaio sociale, ma anche con la
fabbrica diffusa, la fabbrica sociale, e tutto ciò che
anticipava un po’ la precarizzazione del mercato del lavoro.
Oggi parlare di produzione metropolitana, di lavoratore unico, di
lavoratore metropolitano significa riprendere appunto quelle tematiche,
in una prospettiva ormai lontana da quella portata oggi avanti da
Negri.
Ma a parte questo discorso contenuto in questo opuscoletto che abbiamo
presentato, abbiamo realizzato un’inchiesta che è
durata cinque anni, dal 1998 al 2003, che è stata presentata
in vari numeri di «Proteo» e poi raccolta in questa
antologia che abbiamo chiamato La coscienza di Cipputi.
Al governo c’era il centro-sinistra, negli anni
’90, con un’impostazione ampiamente neoliberista
che apriva la strada a quello che poi ha fatto, in maniera forse meno
violenta, lo stesso Berlusconi. Ricordo - perché
è facile parlare della legge Moratti, della Bossi-Fini -
però forse non tutti ricordano, non la porta ma il portone
aperto dai governi di centro-sinistra negli anni ’90, per
esempio con la riforma Berlinguer, oppure con la riforma delle pensioni
che poi porta il nome di riforma Dini, le privatizzazioni. Guardate che
il governo Berlusconi ha realizzato neppure un decimo delle
privatizzazioni fatte dal governo di centro-sinistra. Pensate alla
riforma Turco-Napolitano sull’immigrazione, pensate, per
esempio, alla legge 30. Pochi ricordano che Rifondazione Comunista
votò il pacchetto Treu del 1997 che precarizzava
definitivamente il mercato del lavoro; pochi ricordano, quando si sono
opposti giustamente all’ipotesi guerrafondaia di Berlusconi,
la guerra “umanitaria” o “contingente
necessità” di cui si parlava mentre si
bombardavano popolazioni civili in Jugoslavia. Perché dico
questo? Perché in quel periodo pochi si opponevano a questa
deriva neoliberista, a questa deriva privatizzatrice: soltanto alcuni
movimenti di base, alcune associazioni di base e spesso in forma molto
isolata il sindacalismo di base. Rdb, Cub e Cobas scendevano in piazza
negli anni ’90 contro la costruzione dell’Europa di
Maastricht, un nuovo polo liberista e imperialista contro gli interessi
dei lavoratori.
Il centro-sinistra, in tutta Europa, ha sposato più di tutti
questo attacco alle posizioni del lavoro, all’Europa dei
lavoratori, al salario sociale, al salario diretto, indiretto e
differito. Contro la guerra e contro questa linea privatizzatrice
scendevano in piazza i sindacati di base perché purtroppo la
scelta dei sindacati confederali aveva già preso la piega
pienamente concertativa e i partiti della sinistra avevano scelto ormai
il consociativismo. E’ facile trovare dei parallelismi
economici con questo nuovo governo Prodi di cui è chiara la
natura già a partire dalla finanziaria, fino alla questione
della precarietà, fino al problema del finanziamento delle
missioni di guerra ed espansioniste: altro che missioni di pace in
Afghanistan! Pensiamo al Medio Oriente, e non dimentichiamoci che i
soldati italiani sono presenti ancora in Kossovo, nella ex Jugoslavia,
in Libano, etc.
In quegli anni dicevamo che bisognava dare un substrato di natura anche
culturale, ma di quella cultura operaia, di quella pratica che
è l’inchiesta di classe, al sindacalismo di base.
Nasce nel 1995 il centro studi Cestes, che ho l’onore di
dirigere, e la rivista «Proteo»
(www.proteo.rdbcub.it). Non ripeto le cose che diceva in maniera
veramente chiara Edoarda Masi: il punto di partenza è stato
l’inchiesta operaia di Marx, il lavoro e
l’impostazione di Mao, l’esperienza dei
«Quaderni Rossi», fino ad
arrivare anche alle stesse esperienze di alcuni gruppi della sinistra
extraparlamentare all’inizio degli anni Settanta come Potere
Operaio in particolare, che riprendeva questa tradizione operaista.
Perché l’inchiesta? La coscienza di
Cipputi si basa su un questionario distribuito in tutta
Italia; si tratta di più di 2500 questionari distribuiti ai
lavoratori stabili, ai disoccupati, ai lavoratori precari con oltre 90
domande che ripercorrevano lo stesso percorso del questionario di Marx.
Si trattava di cogliere, per riprendere la battuta-titolo, La
coscienza di Cipputi e di capire il grado di coscienza dei
lavoratori sulle trasformazioni economico-sociali e produttive e anche,
allo stesso tempo, per recepire dalla classe, dai lavoratori
informazioni utili al nostro gruppo di ricercatori: studiosi come
Alessandro Mazzone, Giorgio Gattei, Guglielmo Carchedi, ma anche a
livello internazionale Remy Herrera, Ricardo Antunes, James
Petras, Joaquin Arriola, Hosea Jaffe, alcuni compagni cubani, messicani
etc. La caratteristica che ci siamo dati quando è nato
questo gruppo di indagine, di inchiesta e di lavoro era che poteva
lavorare un personale di un certo tipo: ricercatori, professori
universitari, ricercatori sociali, militanti sindacali, militanti delle
organizzazioni socio-politiche che però avessero la
caratteristica di essere ricercatori organici al movimento di classe
internazionale, che lavorassero per il movimento dei lavoratori ma che
recepissero dal movimento dei lavoratori lo stimolo necessario per
impostare l’inchiesta, per cercare di restituire al movimento
dei lavoratori un tipo di analisi che potesse essere utile per la
lotta, per la trasformazione, che potesse essere strumento per capire
le trasformazioni sociali, economiche e produttive in atto. Per questo
riteniamo fondamentale il contatto con movimenti sindacali e di base,
come il movimento Sem-Terra, quello dei Piqueteros, la Confederazione
Generale del Lavoro di Cuba, etc.; sul fronte italiano vale lo stesso
principio, perché il Cestes è il centro studi
dell’Rdb-cub e ha dunque un contatto con gli oltre 650 mila
iscritti a questo sindacato che ha rappresentanti al CNEL (Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro), con militanti che
fanno della lotta la loro funzione principale, l’unico grande
sindacato a non firmare l’accordo concertativo del 1993, cosa
di cui ci vantiamo. Vi dico queste cose per dirvi che tutto quello che
diceva la compagna prima lo condivido in pieno e il metodo di lavoro
è proprio quello di partire dai bisogni e dalle esigenze dei
lavoratori.
Dobbiamo capire cosa è avvenuto negli ultimi
trent’anni. Un mondo produttivo ed economico non cambia
casualmente, cambia per una crisi di accumulazione strutturale che il
capitalismo ha ormai da oltre 30 anni. Ciò che voglio dire
è che le privatizzazioni, le finanziarizzazioni, non si
fanno perché non c’è niente da fare;
come giustamente la compagna diceva prima non si parla più
di classi, si parla di poveri, non si parla più di
lavoratori giovani e lavoratori anziani ma si parla di conflitto
generazionale. Cioè si usano una serie di nomi che
l’ideologia e
l’“immaterialità” del dominio
capitalista usa per imbrogliarci. Di fronte a questo, noi che siamo
materialisti fino all’osso, osserviamo che le prime crisi
petrolifere hanno dimostrato che questo processo di accumulazione
internazionale del capitale era in crisi e il capitale aveva bisogno di
nuove forme per rilanciare l’accumulazione: le nuove forme
sono state, al centro, le privatizzazioni, le finanziarizzazioni,
l’attacco al costo del lavoro, le delocalizzazioni, le
esternalizzazioni, dalle altre parti le guerre. Guerra significa
economia di guerra, keynesismo di guerra: strumenti per il rilancio
dell’accumulazione. L’economia statunitense cresce
al 4%; se poi vado a disaggregare il dato, come faccio da economista,
mi accorgo che cresce dello 0,6-0,7%, cioè sta quasi in
stagnazione se non in recessione, mentre oltre i ¾ della
crescita sono sostenuti dalla domanda bellica che consiste in pratica
in armi, bombe, tecnologia indotta. È la distruzione per poi
ricostruire, è chiaro. Prima uccidono la gente e poi
ricostruiscono, così in questo modo sostengono il processo
di accumulazione.
Dobbiamo allora chiederci che cosa è avvenuto. Sono avvenute
delle trasformazioni economico-produttive importanti. Faccio un
esempio. Il triangolo industriale italiano aveva una
particolarità fondamentale. In un sistema di produzione
fordista, inglobava all’interno dello stesso luogo di lavoro
80-100 mila persone. Ciò significava la
possibilità da parte dell’avanguardia di classe di
organizzare il conflitto. Il capitale comincia dagli anni Settanta a
rispondere alla crisi di accumulazione, i sindacati optano per una
scelta concertativa. Ricordatevi che la svolta dell’EUR
è del 1978. Lama è stato cacciato
dall’università 30 anni fa, e io rivendico di
essere stato uno di quelli che lo ha cacciato. È stato
cacciato dall’università nel 1977 proprio
perché il sindacato e il Partito Comunista, nella migliore
delle ipotesi, non avevano interpretato i bisogni di quello che veniva
chiamato il proletariato giovanile. Il proletariato giovanile nel
’77 identificava un nuovo soggetto sociale che esplose in
questi anni: c’era il nuovo precario, lo studente-lavoratore
che stava all’università e poi in qualche modo nel
quartiere per lavori e lavoretti che gli consentissero di sopravvivere
per potere finanziare la sua presenza
all’università. Questo nuovo soggetto di classe,
questo nuovo soggetto proletario sfuggiva alla logica e alle dimensioni
della Cgil. La mancata interpretazione di questo soggetto associata
alla scelta concertativa della Cgil e alla scelta consociativa del
Partito Comunista Italiano porta a una crisi. Ne parleremo anche
domattina con la presentazione di Eppure il vento soffia
ancora, in cui si cerca di indagare il movimento
sindacale e il movimento dei lavoratori dal dopoguerra ad oggi
attraverso il concetto dell’autonomia di classe.
L’autonomia di classe con la “a”
minuscola non l’“Autonomia operaia” degli
anni Settanta. La classe ha vinto quando ha espresso momenti di
indipendenza e di autonomia dallo sviluppismo capitalistico, non dalla
politica ma dal partitismo e dal consociativismo.
Quanto detto finora trova poi tutta la sua esplosione nella
metà degli anni ’70, quando la crisi strutturale
del capitalismo porta ovviamente ad una ristrutturazione che passa
attraverso le delocalizzazioni, le esternalizzazioni etc, ma che non
significa scomparsa del fordismo. Il fordismo si è spostato
soltanto di luogo, cioè al centro abbiamo la
società cosiddetta dei servizi - terziario avanzato, servizi
già a disposizione del processo di accumulazione del
capitale, etc, per cui andrebbe rivisto e ripensato il rapporto tra
lavoro produttivo e lavoro improduttivo -, nei paesi delle periferie,
in questa nuova divisione internazionale del lavoro, il fordismo trova
la sua massima espressione, anzi non solo il fordismo, addirittura la
schiavitù: in America Latina, in Asia, nell’Europa
dell’est. Non è un caso che la produzione made
in Italy è tutto tranne che made in Italy,
cioè voglio dire, la scarpa che esce con la parte del ciclo
ad alto valore aggiunto, il brevetto, il marchio di fabbrica, oppure
l’assemblaggio nel Veneto, viene prodotta una parte in
Albania, una parte in Romania, una in Bulgaria etc. e poi viene
assemblata. Allora perché si procede alla delocalizzazione?
Per due motivi essenzialmente: uno perché si rincorre il
costo del lavoro più basso ma anche specializzato
- il costo bassissimo sarebbe in Africa, ma non si va nello
Zambia a produrre – l’altra perché si
cerca il lavoro non normato, non sindacalizzato. Il problema
è abbattere il costo del lavoro, ma anche la resistenza
operaia e la resistenza di classe al dominio capitalista. E allora di
qui viene anche l’impresa individuale, l’impresa
che viene chiamata con strane parole, lavoratore autonomo di ultima, di
seconda generazione, il falso lavoratore autonomo, che tutto
è meno che lavoratore autonomo, perché
è un poveraccio che è stato espulso a
cinquant’anni dalla fabbrica e che cerca di trovare una forma
di reddito.
Quindi attacco al lavoro, alle condizioni stesse del lavoro. Ebbene,
che cosa allora deve fare un’inchiesta di classe? Che cosa
deve fare oggi un intellettuale militante, un intellettuale organico?
Deve evidenziare queste cose per renderle non solo digeribili, ma anche
immediatamente percepibili dai lavoratori, perché il
lavoratore non percepisce immediatamente la sua condizione di
subalternità, a volte pensa davvero di essere un lavoratore
autonomo, a volte pensa davvero di essere un lavoratore della
conoscenza, quasi una forma di aristocrazia salariata rispetto al
lavoratore manuale, quando invece con tutte le sue condizioni di
precarietà e di sfruttamento sta forse peggio del lavoratore
manuale, allora l’inchiesta di classe per noi a questo serve.
È all’interno della classe, colloquia con la
classe, dà gli strumenti alla classe e recepisce dalla
classe le contraddizioni. Vi faccio degli esempi: l’inchiesta
che abbiamo fatto per cinque anni su Cipputi, sulle nuove condizioni
del lavoro, fa apparire dei risultati strani, ma che sono proprio
quelli della realtà. Noi abbiamo fatto il questionario sulla
base di alcuni parametri: produzione, situazione lavorativa, politica e
sindacato, ruolo dello stato, condizione economica e sociale, etc., una
serie di domande sulla situazione oggettiva del mondo del lavoro, sulla
percezione della politica e dei partiti, sulla percezione della propria
condizione di classe etc. Escono cose estremamente interessanti, per
esempio esce fuori che al livello di coscienza non
c’è assolutamente una relazione tra pessime
condizioni di vita e coscienza del proprio ruolo. Voglio dire che se si
fa un’inchiesta come l’abbiamo fatta noi, con i
parametri scientifici del campionamento, non succede ciò che
è successo alla Cgil: qualche anno fa anche la Cgil ha fatto
un’inchiesta, con sociologi anche bravi, però era
falsata da un fatto, dal non avere una parametrizzazione a campioni,
perchè svolta all’interno delle feste
dell’Unità e di Liberazione, dove hai un
lavoratore che è selezionato, che ha un certo tipo di idea,
e non poteva uscire il risultato che era uscito a noi, cioè
che l’operaio, il proletario del Veneto vota la Lega e vota
Forza Italia in cui vede la possibilità di trasformazione,
perché si è rotto le scatole dei partiti.
Perché per loro la Lega rappresenta una
possibilità di superamento della condizione di
subalternità, e non ti esce fuori che proprio questi
lavoratori fino a dieci anni fa votavano i partiti della sinistra.
Questa è la classe operaia, questi sono i lavoratori della
Cgil e del Pci che in modo sbagliato protestano contro il
consociativismo e si affidano al populismo della Lega. Sulle
privatizzazioni c’è un altro risultato
fondamentale che smentisce la percezione diffusa.
Finché parli di privatizzazioni delle imprese, capendo e non
capendo, il lavoratore risponde che le privatizzazioni vanno bene
perché renderebbero i servizi più efficienti, lo
stato è inefficace, etc. ma quando tu gli chiedi:
“Che ne pensi della privatizzazione
dell’istruzione, della salute, della sanità
etc.?”, allora ti dicono: “no, queste sono
questioni intoccabili, il welfare, lo stato sociale deve essere gestito
dallo stato”. Vengono quindi fuori degli elementi
contradditori che apparentemente tu non recepisci. Inoltre viene fuori
quello che abbiamo chiamato “riformismo
strutturale” e cioè: anche la parte più
arrabbiata non va oltre la lamentela.
C’è paura della trasformazione radicale.
La coscienza di classe è di conservazione.
L’intervistato ha paura. Ecco perché la
oggettività, pessima, se non ha la soggettività
di classe, non permetterà mai di fuoriuscire da un contesto
capitalistico. Con questo non voglio sostenere il “tutto e
subito”. Col sindacato si procede per piccoli passi, il
terreno è quello. Il sindacato metropolitano si deve
occupare di territorio e di quartiere. Bisogna avere presente un quadro
di riforme strutturali avendo presente un orizzonte di superamento del
capitalismo. Come dice il mio amico Alessandro Mazzone, noi dobbiamo
lavorare come se la rottura di classe arriverà tra 500 anni,
ma chi dice che non avvenga tra 5. Si deve lavorare nella prospettiva
di lunga, lunghissima durata. Noi siamo chiamati al lavoro comunque.
Siamo chiamati al lavoro per far crescere la coscienza di classe, siamo
chiamati al lavoro d’inchiesta per dare informazioni etc.
proprio perché abbiamo bisogno che cresca la coscienza dei
lavoratori. Oltre a questa inchiesta sulle trasformazioni
economico-produttive, abbiamo fatto altre inchieste
sull’Europa:
Eurobang, per es. sul ruolo dell’Italia
nei processi di delocalizzazione, altre sulle aree metropolitane, altre
sul pubblico impiego. Stiamo facendo adesso questo lavoro sulle aree
metropolitane e sulla produzione metropolitana. Ci siamo occupati della
condizione dei lavoratori. Io penso, andando a concludere, che prima di
tutto la condizione è stare in mezzo ai lavoratori,
perché se non si sta in mezzo ai lavoratori si fanno le
fughe in avanti, i salti in avanti senza fare i conti con la
realtà. Quindi partire dalle condizioni dei lavoratori, ma
sapere anche innalzare questo livello di coscienza attraverso metodi
scientifici, culturali, di rapporto, corsi di formazione, non solo su
Marx, ma quando fai un lavoro di formazione con i lavoratori del
pubblico impiego non puoi porla direttamente sulla teoria, ma devi
partire dalle condizioni reali. Il piano tattico è di
riforme strutturali, la strategia è di superamento del
capitalismo. Dall’altra parte, non solo riprendere il metodo
dell’inchiesta diffusa, ma soprattutto riscoprire il
significato vero della solidarietà internazionalista,
perché se noi pensiamo che il mondo finisce
all’Italia o finisce all’Europa, secondo questa
mentalità eurocentrica tipica anche della sinistra
cosiddetta radicale, ci perdiamo il fatto che per es. in America Latina
esiste il conflitto, la trasformazione. C’è un
polo rivoluzionario (Cuba e Venezuela) e uno riformista (Brasile,
Argentina, etc.), c’è il Messico: pensiamo al
movimento di Oaxaca o al movimento contro le privatizzazioni
dell’università. Hanno avuto 22 morti, 400 feriti,
trecento arresti. Tra questi centocinquanta compagni dei quali non si
sa in che carcere sono detenuti, e sono passati quattro mesi. Stiamo
parlando del Messico democratico che vorrebbe dare lezioni di
democrazia a Cuba e al Venezuela. I cari compagni della sinistra
radicale comincino a pensare che esiste un mondo fuori
dall’Europa dal quale imparare! Il movimento dei
lavoratori è uno, la contraddizione fondamentale
conflitto-lavoro si risolve sul piano internazionale. Se loro
rilanciano la globalizzazione neoliberista a livello planetario, o si
risponde su questo piano o non se ne esce. Questo è il
compito che ci dobbiamo dare e su questo bisogna strutturare
l’inchiesta operaia.
ALESSANDRA RECCIA
Due cose mi sembrano
importanti da sottolineare: il metodo dell’inchiesta diffusa
e di organizzazione di più soggetti e la prospettiva
internazionalista che diventa necessaria per capire, per
relativizzarci. Per quanto riguarda le strutture sindacali finora i
loro tentativi di soluzione sono fallimentari, e non hanno nessuna
possibilità di andare avanti. La famosa FLC (Federazione
Lavoratori della Conoscenza) è un’organizzazione a
priori, che non ha rappresentanti, che non ha uno studio di partenza e
che spesso ostacola i movimenti di base.
Su fordismo e postfordismo: la convivenza avviene anche negli stessi
luoghi. Il sindacato tradizionale ancora non ce l’ha chiaro.
Il nostro problema principale è la forma di organizzazione
che ci dobbiamo dare. È un problema grave perché
ci impedisce il movimento, perché non possiamo fare
riferimento ad un partito, non sappiamo come parlare tra di noi.
Un altro problema è il rapporto tra le rivendicazioni
quotidiane, diciamo così, le rivendicazioni minime, e le
prospettive politiche. Noi non sappiamo realmente se abbiamo delle
prospettive politiche. La Rete nazionale dei ricercatori precari
è un luogo che esprime pienamente questa
difficoltà. Si tende appunto al riformismo, piuttosto che al
cambiamento, però ci rendiamo anche conto che è
più utopistico pensare che possa esistere un piano di
riforme capaci di cambiare la nostra condizione, o le condizioni
generali.
La gente che lavora all’università non sa neanche
cosa si fa all’università, non capisce che
l’università fa attività produttiva: ci
dicono che non si “sentono” precari. Il che rimanda
a un problema di autocoscienza politica.
MARIA VITTORIA TIRINATO
Mi pare importante ciò che è stato detto sul tentativo del gruppo dei «Quaderni Rossi» di darsi degli strumenti teorici, di recuperare la teoria di Marx, oltre gli ortodossismi. E si è parlato di un luogo privilegiato, in quel momento la Torino della Fiat. La classe ha in quella fase un momento di autonomia importante. Il discorso si lega al problema dell’autonomia di classe. E della coscienza di classe, del non percepirsi come soggetti di classe, come diceva prima Alessandra. C’è oggi un luogo, o più luoghi in cui questa autonomia si può sviluppare? E l’inchiesta può contribuire a innescare questo meccanismo? Possiamo intenderla come uno strumento per acquisire coscienza ma anche di stimolo negli intervistati. Inoltre, come è possibile per me, che sono una precaria della ricerca, trovare degli elementi di unità, di collegamento, per fare un esempio, con una badante dell’est Europa? Come si organizza un discorso del genere? Forse noi ancora non siamo pronti a farlo e abbiamo bisogno di strumenti teorici e di modelli.
EDOARDA MASI
Credo che sia impossibile rispondere in questo senso perché se ci fosse una risposta sarebbe la risposta di qualcuno che sta creando una nuova organizzazione politica, cioè che si trova molto avanti già in un progetto. Mentre noi siamo estremamente indietro, lo siamo oggettivamente. Perché è stato distrutto tutto un terreno, con tutte le sue contraddizioni, anche con tutti i difetti che avevano i partiti politici e tutto quanto, però ad oggi, tutta una costruzione politica che è il risultato di lotte di due secoli è stata praticamente annientata. Si tratta di cominciare di nuovo a studiare nella nostra società e ci troviamo in una situazione di cui noi non abbiamo tanti elementi, possiamo recuperare tante cose, però, il punto è che noi siamo in Europa, quindi si pone la condizione che Vasapollo aveva prima posto, di ragionare sul piano mondiale. Ora, io sono convinta che oggi l’Europa in questo senso non è il centro del mondo, mentre forse nell’Ottocento lo era, come paese colonizzatore. E quindi di questo, se uno vuole avere una specie di visione della costruzione politica generale, ne deve tener conto, ma anche qui non c’è una coscienza di base, non c’è una direzione da prendere. Non c’è niente in questo momento. Tra l’altro né Vasapollo né io abbiamo accennato ad un fatto, che uno degli strumenti con cui vengono confuse le coscienze è il fatto che non si contrasta la famosa, soprattutto in questi paesi (chiamiamoli più ricchi), società dei consumatori, questa ideologia dei consumi. Quindi questa ideologia del consumo che è quella che poi crea nelle coscienze un sacco di equivoci. Per cui è molto difficile far capire, anche semplicemente con un ragionamento, ad un lavoratore, un operaio italiano, che finché i lavoratori cinesi hanno i salari che hanno, tutto questo va a svantaggio non dell’Italia rispetto alla Cina, ma va a svantaggio dei lavoratori italiani rispetto al capitale, sia italiano che cinese. Ora questo qui teoricamente glielo puoi spiegare, però di fatto lui si sente il rivale del lavoratore più povero, quello cinese. Questo finché lo scopo è il consumo, il consumo oltretutto di una quantità di oggetti inutili. Ci sono un sacco di negozi in cui non riesco a capire cosa si vende. C’è la mentalità del consumatore parassitario che è diffusa tra tutti, anche tra quelli che hanno redditi molto bassi. È un’ideologia dominante spaventosa che sarebbe da combattere. Ma non si può affrontare di colpo. Per esempio, il lavoro che fa il Cestes è un lavoro eccellente, perché loro fanno un inchiesta bene appoggiandosi anche a un sindacato. Però è anche vero che oggi noi non abbiamo di fronte una classe operaia così come poteva essere ai tempi di Marx o anche dopo, cioè un luogo privilegiato. Né possiamo dire che la classe operaia è diminuita, anzi. Tutto questo uno può arrivare a vederlo e a costatarlo. Come si trasforma tutto questo in coscienza di classe? È molto difficile, perché è molto difficile abbattere la falsa coscienza. Questi lavoratori sono poi estremamente infelici, ma non ne sanno le ragioni. Probabilmente si potrebbe iniziare facendo un’inchiesta laddove c’è una lotta. Lì è il punto dove si può cominciare a scavare e vedere se c’è una coscienza. Al momento questo possiamo fare.
LUCIANO VASAPOLLO
Per aggiungere poche cose: oggi c’è una crisi fortissima della rappresentanza del movimento di classe. Né Prc, né Pdci, né Cgil oggi sono i rappresentanti del movimento di classe. Il problema è anche che oggi il movimento politico non ha rappresentanza. Oggi esiste un movimento dei lavoratori articolato e diversificato, va dai precari, agli operai, ai disoccupati, agli immigrati, ai soggetti del lavoro a tempo pieno, a tempo determinato, esiste un movimento dei lavoratori che non è concepibile, si parla di milioni di persone in Italia, come quello degli anni Sessanta e Settanta,. Esiste un movimento di classe ma la capacità di un marxista è quella di analizzare la realtà che si trasforma e di cercare di individuare quello che sta succedendo: non analizziamo oggi l’operaio-massa. Vorrei precisare un punto: un conto è il sindacato confederale, un conto è il sindacato di classe. Se la produzione si diffonde nel territorio, se il rapporto è individualizzato, se aumenta il lavoro a domicilio, etc, se ci sono interessi che sono esterni al luogo del lavoro, allora questo è il livello dello scontro di classe. L’inchiesta va fatta lì. Per percepire strumenti e restituire strutture interpretative del conflitto e della trasformazione. Là dove vedi insieme dipendenti pubblici, operai, lavoratori della conoscenza, nuove forme del movimento di classe. Inoltre dobbiamo parlare del problema dell’autonomia di classe, che non è autonomia dal politico, ma l’espressione del movimento operaio fuori dalle compatibilità sviluppiste. Pci e Cgil sono entrati a un certo punto pienamente delle compatibilità Se non poni il problema del superamento della produzione capitalistica, lì è finita l’autonomia di classe: l’autonomia di classe è l’autonomia non solo dal partitismo, ma il concetto chiave dell’autonomia, così come ne parleremo più compiutamente domani in cosa consiste secondo me? Nel fatto che la classe operaia non può necessariamente per la sua funzione stare nella logica della compatibilità dello sviluppo capitalistico. Ci possono essere momenti identificativi di riforma, ma l’orizzonte deve essere quello della trasformazione. Quindi quand’è che il movimento operaio italiano e il movimento di classe si è dato forma? Quando si è organizzato nelle fabbriche, quando si è organizzato al di fuori delle logiche produttivistiche dei premi di produzione, quando insieme al sindacato della fabbrica c’era il movimento degli studenti, i consigli di zona, la lotta sui e nei quartieri, tutta una serie di lotte. Questo è un concetto che va ricostruito. La sfida grossa è sul sindacato sociale, il sindacato del territorio.
EDOARDA MASI
Nei primi anni
Sessanta, la nuova sinistra aveva difficoltà a trovare
operai. Riuscire solo a parlare era un’impresa
difficilissima. Una volta un nostro compagno americano
partecipò a una riunione torinese. C’era un
operaio e il nostro ospite, sorpreso, disse ad alta voce: “A
real worker! A real worker!”
Quando la lotta non c’è la cosa è
difficile. Ma la storia mica la fabbrichiamo noi con le nostre idee,
mica è stato Mao a provocare la rivolta dei contadini.
ANTONIO ALLEGRA
Vorrei sapere come cominciare a immaginare un questionario un po’ slegato dai luoghi di lavoro, ma di tipo sociale nei quartieri di periferia, negli agglomerati urbani. Come si imposta? È utile? Quale strumentario è necessario? Esiste un criterio, un “ricettario” su come svolgere un’inchiesta in queste realtà?
LUCIANO VASAPOLLO
Stiamo facendo un lavoro su dieci aree metropolitane italiane. È un lavoro di inchiesta, forniamo suggerimenti per un questionario, ma non esiste un ricettario, perché ogni situazione presenta caratteristiche e problematiche proprie. Bisogna certo conoscere il territorio, la sua dimensione produttiva. Oggi, con l’impresa sociale, devi conoscere tutto del territorio. Altrimenti rischi di produrre domande sbagliate. Le indagini devono partire dalle fonti ufficiali. Sapendo ovviamente che il dato ufficiale è falso perché lo si falsifica: prima dovevi dichiarare se avevi un lavoro continuo, ora anche il lavoro precario fa risultare occupati. Sicuramente bisogna stare attenti alle falsificazioni dei dati (a volte risulti occupato anche se hai fatto soltanto due ore di lavoro la settimana prima), inoltre bisogna leggerli alla luce del conflitto di classe e cercare di fare le domande giuste. A partire dalla dimensione di conflitto. Poi certamente c’è un livello tecnico, su come costruire le domande, etc. Non ci sono regole fisse, ma deve esserci la conoscenza della dimensione di classe. Infine devi stare attento a non fare il sociologo di classe, il ricercatore, ma devi immergerti completamente in essa.
note
1. Si legga in proposito: Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla FIAT – La strategia della collaborazione: 1945-1949, Torino, Einaudi, 1971.
2. Nel 1999 la casa editrice napoletana La città del sole ha ripubblicato il questionario marxiano, con una introduzione di Gianfranco Pala, insieme a una serie di materiali di accompagnamento che meglio chiariscono la genesi e il contesto politico-culturale di riferimento: K. Marx, L’inchiesta operaia. Il significato attuale [N.d.R.].
3. Cfr. G. Cerreti, V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata, Ediesse, Roma 1991.
4. Si fa riferimento a un seminario organizzato dal Gruppo Intrecci il 22 maggio 2006, a Siena, dal titolo L’uomo precario. Nuove forme del lavoro e del vivere sociale. Anche di questo incontro pubblicheremo al più presto una trascrizione [N.d.R.].
[1 febbraio 2009]
home> conflitto/lavoro> questioni> Per una nuova analisi di classe. Il significato dell'inchiesta