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Immigrazione e agricoltura
Alessandra Reccia
Negli ultimi giorni le pagine di cronaca di tutti i giornali nazionali parlano
dei fatti di Rosarno. Sono molte le cose che, attraverso la stampa,
scandalizzano l’opinione pubblica italiana: le condizioni di vita degli
immigrati che lavorano nelle campagne; il razzismo come l’unica risposta che la
popolazione della cittadina calabrese ha saputo esprimere; la forte presenza
della criminalità organizzata in questo settore e infine la strumentalizzazione
politica di questa vicenda da parte dei partiti parlamentari. L’Ospite ingrato
on line intervene sull’argomento perché crede che questa vicenda di cronaca
metta in luce un aspetto importante dell’attuale conflitto capitale lavoro.
In tutto il Meridione la presenza di immigrati, con o senza permesso di
soggiorno, è fondamentale per il mantenimento del circuito economico agricolo, e
non perché, come vorrebbe la vulgata, nessuno sarebbe più disposto a svolgere il
lavoro nei campi, ma semplicemente perché il costo delle loro braccia è talmente
basso che questo resta l’unico espediente che le aziende agricole hanno per
garantirsi un guadagno e non lasciare tutto il valore aggiunto al settore
commerciale. Il comparto Agricoltura nel Sud Italia soffre di forti carenze
strutturali e la crisi economica di questo periodo aggrava una situazione già di
per se stessa drammatica. Se non si affronta la questione del ruolo che la
produzione agricola nel Meridione ha nell’ambito dell’economia dell’Unione
Europea si rischia di attribuire non solo il caso di Rosarno, ma l’intera
situazione lavorativa degli immigrati nel sud Italia e il razzismo che
l’affianca, o ad un gruppo più o meno ristretto di persone “maleducate” alla
società multietnica, o alla presenza della fatidica criminalità organizzata,
considerata non come una forza economica perfettamente integrata nel sistema
produttivo italiano, bensì come un’entità chiusa ed estranea al “normale”
funzionamento del circuito economico e per questo riconoscibile e attaccabile.
Per le aziende agricole del Sud Italia i fronti della concorrenza sono vari. Se
prendiamo come esempio le difficoltà dell’imprenditore della piana di Gioia
Tauro si dovrebbe tener conto innanzitutto delle arance extraeuropee, di cui si
serve soprattutto l’industria alimentare, poi delle arance spagnole, che
arrivano sulle nostre tavole e la cui alternanza con le italiane è regolata dal
mercato agricolo europeo, e anche delle arance siciliane. Ma non finisce qui.
Questo imprenditore agricolo ha come concorrenti diretti anche gli altri
produttori di arance che vivono sul suo stesso territorio. Lo sfruttamento della
manodopera immigrata da parte degli agricoltori, allora, può essere letto con la
ormai nota, e non per questo meno ingiusta, legge del mercato, per la quale la
competitività delle aziende è interamente scaricata sul costo del lavoro.
Tradizionalmente, la manodopera immigrata usata in questo contesto è di origine
africana. I braccianti stagionali, sia quelli impiegati per brevi periodi, come
nel caso delle raccolte delle arance calabresi, sia quelli impiegati per tempi
medio lunghi, come invece accade nelle serre della Piana del Sele, provengono
per lo più dal Mahgreb o dall’Africa sub-sahariana. Sembra, poi, che negli
ultimi anni stia avvenendo una sostituzione su base etnica dei braccianti
agricoli occupati in Italia. Gruppi di bulgari e rumeni, i “neocomunitari”,
stanno lentamente popolando alcune delle campagne del sud Europa. In Italia come
in Spagna questi lavoratori sono favoriti dai cosiddetti decreti flusso, decreti
ministeriali che regolano e differenziano la presenza dei lavoratori stranieri
in diversi settori produttivi. Ma poiché i neocomunitari, facendo parte
dell’Unione Europea, godono di una certa libertà di movimento, bulgari e rumeni,
ma anche polacchi possono decidere di trascorrere, indipendentemente dalla quote
d’ingresso, alcuni mesi nei nostri campi. In questi casi, le loro condizioni di
lavoro non sono sempre migliori di quelle degli africani, ma sembra che i
vantaggi degli imprenditori, e anche di tutti coloro che gestiscono la macchina
del lavoro, siano tantissimi sia in termini legali e burocratici che economici.
Non siamo in grado di prevedere se anche per il lavoro in nero avverrà la
sostituzione completa di un gruppo rispetto ad un altro. I dati, almeno per il
momento, non appoggiano questa teoria. Un numero significativo di braccianti
irregolari est-europei si trova per il momento soltanto in Puglia1. Nel
frattempo, però, la divisione su base etnica sulla quale si organizza il lavoro
è funzionale alla concorrenza interna tra lavoratori e al conseguente
abbassamento del loro costo del lavoro. In queste condizioni la prestazione di
un africano potrebbe arrivare a costare ancora meno di quella di un bulgaro.
A questo punto si dovrebbe essere in grado di distinguere tra gli immigrati,
sempre nel sud Italia e al di là dei reali contratti e/o posizioni lavorative,
che lavorano più o meno stabilmente per le aziende e quelli chiamati solo in
determinati periodi dell’anno per la raccolta. Di questi ultimi parlano in
questi giorni le cronache. Sulle loro condizioni di vita e di salute, oltre che
di lavoro, non è difficile trovare documentazione. Le diverse associazioni, che
sul nostro territorio si occupano direttamente o indirettamente di immigrazione,
più volte hanno descritto e denunciato il fenomeno. A questo proposito i
giornali fanno giustamente riferimento al Rapporto 20072 di Medici Senza
Frontiere. Negli ultimi anni questa Organizzazione internazionale ha consolidato
la sua presenza anche nelle campagne del Sud Italia, dove, rispetto alle
condizioni di vita e di salute dei braccianti agricoli, non ha esitato ha
dichiarare lo stato di emergenza umanitaria. Il Rapporto denuncia, inoltre, il
forte livello di esclusione sociale e gli abusi e le violenze subite dai
lavoratori, non solo da parte dei datori di lavoro e dei caporali ma anche dai
cittadini stanziali, soprattutto giovani3. Esclusione sociale e violenza sono più
forti laddove le condizioni di lavoro e di vita sono peggiori, e cioè
soprattutto nella Piana del Sele e in quella di Giogaia Tauro. Da questo punto
di vista le previsioni di MSF sono state confermate dai fatti di cronaca degli
ultimi tempi e non solo quelli relativi a Rosarno, ma anche, per esempio, quelli
verificatesi lo scorso mese a S. Nicola Varco.
Le piccole aziende nel sud Italia sono per lo più a conduzione familiare. La
maggior parte ha investito moltissimo negli ultimi anni per rispondere alle
esigenze del mercato e dell’industria alimentare. Si pensi ad esempio per la
Calabria alla conversione alla clementina, che ha sostituito sulle nostre tavole
il tradizionale mandarino meridionale, colpevole di contenere troppi semi;
oppure, più in generale, agli investimenti di molti imprenditori lucani per
adattare i loro prodotti al mercato del biologico. Grandi e piccoli capitali
sono stati spesi senza che seri piani di gestione del territorio venissero
attuati, e senza che venissero pensate strategie economiche complessive di lunga
durata, capaci di tener conto dell’insieme delle aziende agricole impegnate sul
territorio, delle loro dimensioni e capacità produttive. Ci si trova oggi di
fronte ad aree agricole in cui le colture sono poco differenziate e le
produzioni si concentrano soprattutto in determinati periodi dell’anno con
frequenti casi di sovrapproduzioni. Sarebbe un errore, comunque, leggere questa
inadeguatezza politica ed economica come un’incapacità degli imprenditori
meridionali di rispondere alle esigenze del mercato. In questo determinato
momento della nostra storia socio-economica, il modello produttivo delle
campagne del sud, basato sulla sovrapproduzione e sullo sfruttamento intensivo
della manodopera, è assolutamente funzionale al mercato agricolo europeo. Del
resto, se il sistema di produzione vigente non viene messo in discussione, come
altrimenti potrebbero essere competitive le nostre arance o i nostri pomodori?
Pochi giorni prima dello scoppio della rivolta di Rosarno, il presidente della
Coldiretti Calabria aveva presentato all’assessore regionale all’agricoltura
Pietro Amato un piano di proposte per far fronte alla crisi del settore delle
arance nella zona di Gioia Tauro. Il piano di intervento si basa sulla
rimodulazione dei fondi FAS, ovvero di risorse economiche a disposizione della
Regione, stanziate dall’UE per le aree sottosviluppate. Per la Coldiretti, i
contributi richiesti accompagnerebbero il superamento della crisi in quanto
verrebbero utilizzati per: compensare le perdite derivanti dalla crisi e pagare
i debiti; riconvertire e diversificare le colture, al fine di rispondere in
maniera più adeguata alle esigenze del mercato e per ampliare il calendario di
raccolta e commercializzazione dei prodotti; mettere in atto una serie di misure
protezionistiche, come le certificazioni dei marchi di qualità, per incentivare
il consumo del prodotto e il suo utilizzo da parte delle industrie; aprire nuovi
impianti e ampliare la superficie aziendale, così da consentire il contenimento
e la riduzione dei costi di produzione4. Non ci si stupisce se questo documento non
fa assolutamente riferimento ai braccianti agricoli, ma sembra chiaro, data
l’esigenza costante di ridurre i costi di produzione, che quand’anche venissero
adottate tutte le misure individuate, la condizione dei lavoratori in quelle
campagne non migliorerebbe affatto. Lo sfruttamento del lavoro è strutturale a
quel circuito economico e produce plus-valore non solo per gli imprenditori
agricoli.
Già da qualche anno, infatti, le mafie hanno fiutato l’affare e oltre a gestire
i viaggi e l’arrivo dei migranti sul territorio italiano, si occupano anche del
loro inserimento lavorativo sia nelle campagne del Sud che nei cantieri edilizi
del Nord Italia. Francesco Forgione in un articolo del 2007, partendo dai
risultati di numerose inchieste della Commissione parlamentare Antimafia,
sostiene che il mercato delle braccia in Italia è controllato esclusivamente
dalle mafie. Si parla di un giro di miliardi, ripuliti poi nel circuito
economico legale nazionale o globale. In questo modo, si rafforzano e si
modernizzano le organizzazioni criminali, favorite di fatto dalle politiche
nazionali in materia di immigrazione, che di fatto non consentono ai cittadini
extracomunitari altra modalità di ingresso e di permanenza nel nostro Paese se
non attraverso la mediazione delle mafie. È vero che il sistema dei flussi
dovrebbe organizzare l’ingresso regolare dei lavoratori stranieri. Ma le quote
previste di anno in anno dallo Stato restano insufficienti a soddisfare il
bisogno di manodopera nei diversi settori lavorativi5. C’è da aggiungere poi che
le quote vengono distribuite sul territorio nazionale in base alle esigenze
specifiche delle singole aree geografiche. Poiché nel Sud Italia sono tantissime
le persone che si dichiarano braccianti disoccupati, al solo scopo di percepire
l’indennizzo, per lo Stato non esiste ragione di impiegare lavoratori stranieri
nelle campagne meridionali, ed ecco che la strada si apre al lavoro nero. Questa
è la situazione della quale si avvantaggiano le mafie, che non si occupano più
di gestire il lavoro in nero ma di organizzare e regolare il traffico di braccia
destinato all’Italia. Modernizzandosi attraverso la globalizzazione, si
inseriscono perfettamente nelle dinamiche attuali del profitto, riproducendone
la logica.
Gli immigrati che lavorano nei campi, le loro condizioni di vita e di salute non
sono dunque un retaggio del passato che l’arretrato sud d’Italia continua ad
ostentare, né una deviazione del sistema socio-economico vigente. Piuttosto di
questo modello produttivo costituiscono la forma e la forza. Come in tutti i sud
del mondo anche nel nostro Meridione forme “premoderne” dell’organizzazione del
lavoro risultano indispensabili per l’attuale produzione di profitto; non ci
troviamo, dunque, di fronte al passato dello sfruttamento, ma ad una sua
evoluzione. Né quella subita dai braccianti immigrati è l’unica forma di
sfruttamento attualmente esistente. Di sicuro però è una delle più evidenti.
note
1. I dati ufficiali quando si riferiscono ad una presenza
massiccia nelle campagne italiane di immigrati provenienti dall’est parlano di
immigrazione regolata per lo più dai flussi di ingresso. Inoltre i neocomunitari
non soffrendo il problema della clandestinità possono “facilmente” regolarizzare
la propria posizione attraverso il contratto di lavoro. Invece un lavoratore
extracomunitario che non abbia ricevuto, attraverso una sanatoria, il permesso
di soggiorno, oppure non sia stato riconosciuto come rifugiato politico, non ha
possibilità di regolarizzare né la sua presenza sul territorio italiano né la
sua posizione lavorativa, e questo al di là della volontà dei singoli
imprenditori.
Per quanto riguarda la presenza di braccianti in nero provenienti dall’est
Europa, cfr. M. Szymkuw, Pomodori marci, in «Diario», X, n. 37 del 30 settembre
2005, pp. 16-20. M. Szymkuw è la corrispondente italiana del quotidiano polacco
«Gazeta Wyborcza».
2. Medici Senza Frontiere onlus, Una stagione all’Inferno. Rapporto sulle
condizioni degli immigrati impiegati in agricoltura nelle regioni del Sud
Italia, Roma, 2008. Il testo è interamente scaricabile in
http://www.medicisenzafrontiere.it/Immagini/file/pubblicazioni/una_stagione_all_inferno.pdf
Cfr. anche il rapporto del 2005, I frutti dell’ipocrisia – Storie di chi
l’agricoltura la fa di nascosto. Di nascosto, Roma 2005
3. Le violenze subite dai braccianti immigrati a Rosarno sono state ampiamente
denunciate anche nel libro Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente,
anche l’Italia¸ a cura di A. Mangano, Catania, 2009.
4. Cfr. l’articolo
Agricoltura: Coldiretti, superare crisi area Gioia Tauro in «Giornale di
Calabria», 5 gennaio 2010.
La posizione assunta dalla Coldiretti di Reggio Calabria sui fatti di Rosarno è
espressa nell’articolo pubblicato in http://www.nuovasibaritide.it/index.php/attualita/66-territorio/5888-coldiretti-calabria-il-dramma-di-rosarno-punta-di-un-iceberg-che-puo-allargarsi
5. Francesco Forgione, La mano delle mafie e i nuovi schiavi, in «Limes», 4,
2007, pp.157-160. Si veda anche nello stesso numero della rivista l’articolo di
P. Sartori, Passando per i Balcani. Le vie della disperazione, alle pp.189-197.
[18 gennaio 2010]
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