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Riccardo

Luca Lenzini

Il 21 settembre del 2005 Riccardo Bonavita ha posto fine alla sua esistenza. Aveva trentasei anni ed era un critico tra i migliori della sua generazione, ed un militante politico tanto acuto quanto generoso ed appassionato.
Pochi giorni dopo la morte, gli amici che si sono riuniti per un ultimo saluto nel Pantheon della Certosa di Bologna erano così numerosi che la grande sala non poteva contenerli tutti. Essi han reso testimonianza di quanto a fondo l’intelligenza e l’umanità di Riccardo avesse lasciato in ognuno un’impronta. Ed anche al Centro Fortini Riccardo ha fatto dono, nel corso degli anni, delle sue doti.
Il primo incontro avvenne un altro fine settembre, nel 1996. Il Centro si era costituito da poco, ed una delle primissime iniziative, promossa con la Libera Università di Milano e dell’Hinterland, fu un seminario alla Libreria Claudiana di Milano su Fortini traduttore di Brecht. Tra gli intervenuti vi era Riccardo ed una sua domanda rivolta a Giovanni Raboni sulla traduzione di Proust rivelava il lettore attento non solo di Fortini, ma anche di Benjamin. L’ultima occasione d’incontro nel 2004, per il convegno senese nel decennale della scomparsa di Fortini. Nel mezzo, tra rapide visite e lunghe telefonate, qualche riunione, tantissimi messaggi di posta elettronica e altrettanti scambi di files: saggi, articoli, poesie, appelli, denunce, parti di tesi. Un dialogo intenso anche se non regolare, nel quale alle puntate polemiche nei confronti di ogni atteggiamento corporativo, della coltivata e ottusa separatezza del ceto intellettuale o delle mode di un mattino si succedevano, quasi senza soluzione di continuità, suggerimenti di lettura e commenti agli avvenimenti del giorno. E quel che preoccupava, appunto, Riccardo – con un richiamo tanto più efficace in quanto implicito nelle sollecitazioni e nelle critiche, sempre pertinenti - era che dell’eredità di Fortini andasse perduto (o si facesse generico, che è lo stesso) il legame fra critica e militanza, insomma che il nostro lavoro andasse nella direzione del passato e non del presente, senza più fondarsi nei conflitti, visibili e invisibili, della società (sempre più divisa, sempre più in guerra) in cui viviamo. Tra le sue proposte più feconde ricorderò qui le aperture a Bourdieu e la segnalazione dei lavori di Zizek quando quest’ultimo in Italia era sconosciuto. Vicino-lontano, Riccardo ha svolto all’interno del Centro Fortini un ruolo assai più importante di quanto non dicano le sue collaborazioni firmate.
Alcuni tra i suoi amici più cari han rammentato, al momento dell’ultimo saluto, quanto profondamente Riccardo amasse la poesia di Fortini. Ad essa ha dedicato la sua tesi di dottorato, originale nell’impostazione e ricca di spunti, sia sul piano dell’interpretazione testuale sia a livello storico-sintetico. Un lavoro che, per la sua natura insieme militante e saggistica, era in qualche modo eccedente e dislocato rispetto all’ambiente che doveva riceverla: non solo e non tanto, cioè, rispetto all’ambito istituzionale della ricerca, l’università - chi conosce la storia della ricezione di Fortini, sa bene che certe aule sono sempre sorde o disattente quando si tratta dei suoi versi – quanto in rapporto al clima storico-epocale in cui anche l’ambito universitario (e con sempre maggiore egoismo e conformismo) si colloca. In un clima ciecamente ostile ad ogni ipotesi di mutamento, e che predilige le intelligenze servili, chi non si adegua alle parole d’ordine conosce presto le innumerevoli maschere del vuoto. In un passaggio dell’intervento al convegno del 2004 Riccardo ha evocato una frase di Fortini sulla “penombra violetta delle tesi di dottorato”, e pensava forse anche alla propria; ma le ombre di questi anni hanno colori ben più cupi ed aspri. Come mettere tra parentesi cos’è stato questo decennio, il sublime e indaffarato cinismo con cui si è voluto dissipare un’intera generazione?
La militanza di Riccardo, il suo modo di cortocircuitare costantemente, non senza una certa verve ambrosiana, la contemporaneità con le istanze più vigili della cultura, ne fissava l’eccentricità rispetto al costume intellettuale corrente. Ed il suo modo era quello di chi ha metabolizzato il pensiero critico novecentesco in vista non di una “sistemazione”, ma del rinnovamento, di un ampliamento necessario per tener testa all’evoluzione della società, con le orecchie ben attente alle formazioni sociali emergenti, alle nuove sensibilità del variegato mondo dei movimenti; il che ce ne rendeva particolarmente caro il dialogo. A chi, per esorcizzarne il valore esemplare, volesse far credere che quel suo appello era il segno dell’appartenenza ad una tradizione esaurita, sconfitta e non riproducibile, rispondiamo che si tratta invece di una figura di futuro, di una necessaria scommessa. È un’altra tradizione, quella di cui è stato portatore.
In Riccardo una maturità di fondo, che traspariva fin nella scrittura, si accompagnava con il tratto giovanile dell’entusiasmo e della passione; la coscienza del molteplice e del contraddittorio non incrinava lo slancio, né si traduceva in concilianti compromessi o complice disincanto, bensì in mobilità intellettuale, inquieta ricerca. Ed una prova della sua maturità si palesava anche nell’atteggiamento nei confronti di Fortini, alla cui opera egli non aderiva acriticamente: il suo non era né l’attaccamento fideistico del discepolo a vita, che irrigidisce il lascito del maestro in un formulario, né il distacco rancoroso dei sessantottini riconvertitisi, le cui velleitarie emancipazioni tendono a loro volta a fissarsi in caricatura. A Fortini Riccardo si avvicinava munito di una sua solida formazione, autonoma e ad ampio raggio (il commento ai Paralipomeni, curato con Marco Bazzocchi, è un eloquente testimonio). È significativo che nella tesi di dottorato egli si servisse di Bourdieu, con mossa distanziante, per meglio circoscrivere e dialettizzare il rapporto di Fortini con l’intellettualità italiana d’anteguerra, così relativizzando le improduttive contrapposizioni tra poetiche e le usurate categorie dello storicismo letterario novecentesco. In questa come in altre proposte affiora una prassi, o più precisamente il lavoro dell’interprete-traduttore che sottrae il proprio oggetto alle incrostazioni del tempo (e magari alle sue stesse premesse storiche) alla luce di domande ed attese che prendono forma a partire dal rifiuto dell’esistente. Un traduttore o traghettatore dal quale, proprio per questo, era lecito e vorrei dire scontato attendersi molto; e la cui assenza non è risarcibile.
Nel suo intervento al convegno senese, intitolato Del buon uso della distanza, raccogliendo al volo alcuni spunti sulla “inattualità” di Fortini e richiamandosi a Bourdieu, Riccardo osservava: “L’attualità o inattualità di un autore […] è l’effetto della vittoria (e quanto all’oggi aggiungerei: della resistibile vittoria) ottenuta da gruppi specifici, individuabili, di operatori culturali, intellettuali, giornalisti, editori, che hanno lavorato per imporre all’ordine del giorno quella cultura, quel filosofo, quello scrittore, quell’idea, ricavandone una serie di profitti materiali e soprattutto simbolici […]. Tra gli anni Ottanta e i Novanta hanno vinto coloro che vedono la storia come ‘uno scialo di triti fatti’, mentre ora si affacciano con decisione quelli che la leggono in chiave di teodicea integralista.” Ed aggiungeva: “Ma perché dovremmo assumere passivamente la situazione culturale che ci è stata imposta, e che, sottolineo, non è un dato di natura?” Se dunque, nella sua prospettiva, era necessaria una distanza per meglio leggere Fortini, e per questo la sociologia di Bourdieu poteva offrirgli strumenti preziosi, nondimeno quella strumentazione andava usata per demolire le continue riscritture della storia da parte dei vincitori; e qui era di nuovo Benjamin a fargli strada. Al di là di Fortini, c’è in questa lezione di metodo un programma di lavoro, di radice materialista e di ragionato antagonismo, in cui possiamo riconoscerci. Cercare di attuarlo sarà il modo migliore per sentire ancora Riccardo, vicino-lontano, insieme a noi.

 

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