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Dieci inverni senza Fortini: appunti per un bilancio degli incontri del 2004
Lorenzo Giustolisi
“Il Manzoni nel 1821 ha calcolato e previsto un periodo di quindici anni senza avvenimenti di rilievo (ne ha aspettati ventisette per vedere le barricate sulle quali ha mandato il figliolo) e ha deciso di fare un lavoro proiettato su un periodo lungo senza trasformazioni. Avrei forse dovuto fare lo stesso, ma il mio peccato giovanile (la guerra, la resistenza) mi hanno sempre imposto di guardare al presente. Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete.”¹
Le celebrazioni storico-culturali chiamano il passato a testimone dei problemi e dei conflitti del loro tempo. Significato e valore specifici vengono loro attribuiti dall’ambiente culturale e politico che le produce, dalla capacità di questo ambiente di tradurle ‘pubblicamente’, di farne oggetto condiviso. Gli esiti nella stampa nazionale, dei quali qui non si parla, non sono che un esempio.
I dieci anni passati dalla morte di Franco Fortini sembrerebbero troppo pochi per segnare un salto tra l’oggetto storico delle celebrazioni e la contemporaneità che si è posta questioni di senso e di valore nuovi. Eppure, senza anticipare troppo quanto dirò più avanti, proprio questo è stato uno dei problemi più scottanti emersi dagli incontri e dai dibattiti durante i vari convegni e incontri che il Centro Studi Franco Fortini ha organizzato nel 2004. Chi vorrà andare a leggere con attenzione gli atti dei convegni di Siena (14-16 Ottobre) e Catania (9-10 Dicembre)², o troverà notizia in questo resoconto degli incontri di Roma (10 Novembre), Firenze (18 Novembre) e Cagliari (quattro incontri nel mese di Novembre) – attraverso i quali si sono presentati i diversi aspetti dell’attività intellettuale e politica di Franco Fortini- , potrà costatare che una delle questioni dirimenti riguarda l’‘attualità’ o meno di Fortini. È una questione che non si pretende di risolvere qui, naturalmente, ma alla quale non si risponde neanche organizzando dieci o cento convegni su Fortini. Egli è inattuale quanto (e se) lo sono i grandi pensatori politici rivoluzionari. Quanto l’idea di rivoluzione si è allontanata dai nostri orizzonti. Non perché egli sia mai stato il poeta o il teorico di una imminente rivoluzione. Tutt’altro. Ma perché ha avuto sempre ben chiaro che non si dà modifica vera e radicale della vita, senza una modifica altrettanto radicale dei rapporti di proprietà e produzione. La sua attualità o meno sta solo nella capacità di servirsene come arricchimento di una teoria dalla quale è necessario ripartire. Sapendo che le sue parole possono suonare come lingua morta, lontane non decenni ma secoli. “Questi scritti miei perciò mi paiono molto lontani dalla discussione oggi corrente. Già un critico peraltro assai cortese ebbe a dire che Verifica ‘emergeva da un tipo di storia scaduta’. Le pagine presenti dovranno sembrare addirittura archeologiche. Non ne sono dispiaciuto”³
Ma è forse meglio procedere con ordine, riassumendo tempi e temi degli incontri, premettendo che non a tutti gli interventi si potrà fare riferimento e che per completezza si rimanda agli atti degli incontri menzionati.
Siena
Dal 14 al 16 Ottobre l’Università di Siena ha ospitato un convegno, il cui titolo, decisamente indovinato, Dieci inverni senza Fortini, continuava con un sottotitolo che chiariva l’aspetto prevalente dell’incontro: Poeti e critici a confronto. Per la verità di poeti al convegno di Siena se ne sono visti pochi, per le assenze, variamente motivate, di Luzi, Zanzotto e Franco Loi. Di Luzi è stato letto un intervento piuttosto interessante, nel quale il poeta fiorentino coglie una caratteristica che è del Fortini critico, e in particolare critico di poeti a lui coevi. Scrive Luzi: “Sapeva davvero apprezzare i pregi fattuali di un testo e spesso cogliendo i movimenti interni. Questo fece più volte con me, mai però lo trovai disposto a darmela buona tutta quanta”4.
La comprensione di Fortini è comunque ‘antagonistica’, in particolare verso poeti quali Luzi o Pasolini, per lui confutabili in sede di poetica o di ideologia (ma non di poesia, naturalmente).
Eccellente, visto che di poeti stiamo parlando, l’intervento di Jean-Charles Vegliante, forse insieme a quello di Massimo Raffaeli il più riuscito dal punto di vista retorico e dei contenuti. Credo, senza entrare nel merito dell’intervento, che Vegliante, grazie alla sua magistrale capacità di lettura ‘scandita’, abbia voluto rilevare l’elevato grado di auto-coscienza di Fortini poeta, e appunto l’impianto ritmico che questo straordinario teorico della metrica tesse in sede di composizione, “questo continuo oscillare tra soddisfazione e delusione di una serie di attese ritmiche” che – cito dall’intervento – “è troppo sistematico per essere creduto casuale”; c’è un carattere sociale del metro, una scarto tra gli scopi e gli intenti della prosa e quelli della poesia5, un senso del distinguere gli opposti senza pietrificarli che separa Fortini da Pasolini, e poi da tanta tradizione poetica italiana novecentesca.
Sulla poesia di Fortini, o meglio su Maestri e compagni nell’opera in versi di Fortini, la relazione di Massimo Raffaeli: maestri e compagni non sono molto numerosi nella poesia di Fortini e, laddove sono presenti, sono insieme ‘figure’ e ‘spettri’, con ovvi riferimenti ad Auerbach (e Dante) e Lu Hsun. I nomi sono quelli di Sereni, Vittorini, Pasolini, “scrittori che avvertiva nello stesso tempo fraterni e lontani, quasi parti scisse e rimordenti di sé”6.
Diverso e significativo il caso di Raniero Panzieri. Fortini gli dedica più componimenti poetici, nonché una prosa dell’Ospite ingrato primo. Cito dalla poesia Raniero: “Che cosa tu avessi davvero voluto non so./ Quale la distrazione, la deriva./ Che biologia ti costringesse ... Ci siamo solo io e tutti gli altri/ a metà del non esistere”7.
Solo in un caso questa separazione sembra superata, in poesia, secondo Raffaeli. Il testo si intitola Lukács, nome di un maestro e compagno, forse poco pronunciato in questo convegno. “Le scarpe pesanti il gomito sui libri/ il sigaro spento non per il dubbio/ ma per il dubbio e la certezza/ nell’ultima foto/ dall’altra parte del vero/ occhi smarriti guardandoci.// Alle sue spalle guardiamo i libri deperiti/ i tappeti il legno gotico/ del San Martino a cavallo/ che si taglia il mantello/ per darne metà al mendicante.// Gli uomini sono esseri mirabili”8.
Ciò che c’è in Lukács di più integro e prezioso, aveva scritto qualche anno prima Fortini, è “la proposta imperterrita di misurarci con le massime dimensioni della storia umana e con le massime possibilità dell’uomo, di rinunciare all’apparenza per preservare quella sostanza che può tramutare noi, il nostro lavoro, e la società che fa tutt’uno con esso e con noi.”9.
Ad una puntuale e densa relazione di Pietro Cataldi, dal titolo Il sonno e la veglia, è seguita la relazione di Guido Mazzoni intitolata Fortini e il presente, sulla quale sarà opportuno fermarsi, non tanto per la brillante analisi che della poesia di Fortini, Il Presente, tratta da Questo muro, Mazzoni ha compiuto, quanto per le conseguenze di ordine generale che lo studioso ne ricava rispetto al problema ‘Fortini oggi’. Mazzoni ha ragione nel dire che questa poesia ci parla né più né meno che della ‘storia del mondo’; il presente è compresenza di morti e venturi. La poesia Il presente è distante da noi quanto un inno sacro, ed è Fortini stesso, il suo modo di intendere e pensare il reale, ad essere intraducibile, a non trovare più lettori e ‘seguaci’. Gli ultimi trent’anni lo avrebbero escluso da ogni possibile ricezione. Gli scritti degli ultimi anni di Fortini confermerebbero questa lettura, quando il saggista si attesta, secondo Mazzoni, su posizioni di ‘disperazione orientata’.
Non riconoscere un cambiamento negli ultimi scritti di Fortini sarebbe da ciechi. C’è un mutamento di destinatari, il clima è certamente diverso. ‘Disperazione orientata’ non mi sembra però rendere a pieno il senso del lavoro fortiniano di quegli anni. Il problema peraltro non è principalmente questo.
Fortini, notava ancora Mazzoni a proposito del poeta (ma il discorso si può estendere al saggista), è scrittore difficile, non oscuro. Cerca i suoi interlocutori. Si tratta di riconoscerlo senza chiudersi nell’asfittica gabbia della propria generazione.
Secondo questa logica cosa fare allora di quella tradizione ‘forte’ cui Fortini fa continuo riferimento, che va da Marx a Lukács, da Brecht a Gramsci? La distanza generazionale non giustifica la rinuncia a comprendere, in una prospettiva politica, questi autori. Si tratta di riconoscere nel processo di produzione e riproduzione di uomini associati la genesi della formazione di tradizioni e gruppi intellettuali in rapporto ai problemi posti dal loro tempo, e insieme gli originali apporti a cui gli uomini di cultura diedero impulso e formulazione. Fra questi Fortini, e con rigore. Se si pensa che gli ultimi anni siano una cesura insuperabile, che il Novecento inteso come paradigma di un certo modo di intendere la politica e la lotta nella realtà sia tramontato, allora è vero, lo sforzo è inutile, mettiamo via Fortini.
Si tratta però di una tendenza alla rimozione che chi legge l’ultimo Fortini, su cui Mazzoni è giustamente tornato - o anche altri autori, per uscire da questo circolo vizioso fortiniano rispetto al quale il consiglio di prudenza di Riccardo Bonavita sul ‘buon uso della distanza’ mi sembra quanto meno opportuno - , potrebbe chiaramente riconoscere come funzionale alla rimozione del conflitto, necessario a sua volta agli interessi della controparte di classe.
La posizione espressa da Mazzoni ha immediatamente movimentato il dibattito. L’oggetto del contendere ha riguardato la possibilità o meno di cogliere nel pensiero di Fortini una filosofia della storia, quella supposta ‘marxista’, il cui tramonto renderebbe secondo Mazzoni illeggibile gran parte dell’opera di questo autore.
Assolutamente contrario a quest’idea si è dichiarato Tito Perlini, che ha anticipato parte delle sue riflessioni, poi riprese in occasione della tavola rotonda, sostenendo che in Fortini non v’è traccia di filosofia della storia. Che non ve ne sia addirittura traccia credo tuttavia che sia eccessivo, se non si adombra in essa un’accezione deteriore. Viene fuori, ritengo, la necessità di uno studio rigoroso e sistematico che proceda alla verifica delle fonti teoriche e filosofiche di Fortini, in primis Hegel, Marx, Benjamin e Lukács, specie se di filosofia della storia stiamo parlando10.
Prima di parlare dell’ultima giornata del convegno è opportuno fare riferimento ad una occasione meno ‘accademica’, e tuttavia non meno seria ed interessante. Enzo Salomone, con l’accompagnamento musicale di Gaetano Munno, si è cimentato nella lettura di alcuni testi poetici di Fortini, di alcuni dei suoi più celebri epigrammi ma anche di una scelta di versi ‘seri’. L’apprezzato spettacolo ha permesso di cogliere alcuni aspetti della poesia di Fortini, per un verso così legata alla dimensione pubblica, orale, d’occasione e a un tempo di così difficile lettura.
La tavola rotonda Intellettuali e presente è tornata ad occuparsi di molti dei temi emersi nei due giorni di convegno, nel tentativo di individuare i luoghi e i modi di una necessaria ripresa di azione politica e culturale, delle forme anche nuove che essa potrà e dovrà assumere.
Edoarda Masi, la prima ad intervenire, ha sottolineato la difficoltà odierna del formarsi di raggruppamenti e solidarietà profonde e trasversali. Le aggregazioni non sono che illusorie, svuotate di quella coscienza di classe che permetterebbe ad una opposizione di uscire dai condizionamenti di un contesto ideologico che tende ad assorbirla.
Fortini ha rappresentato per tutta la vita, riconosciuta la centralità della lotta delle classi, la necessità di collocarsi da una parte del fronte. E se le sue parole possono sembrare lontanissime, esprimono una distanza che va superata, una necessità di farsi parte consapevole di uno scontro il cui mancato riconoscimento è punito nei fatti. Altrimenti si finisce per rispecchiare o ripetere lo stesso oggetto criticato.
Certo che l’eredità è di difficile trasmissione, ha sottolineato nell’intervento successivo Perlini: Fortini ha sempre guardato con ironia ad una idea lineare di trasmissione, a coloro i quali dimenticano che le biblioteche non sono mai sottratte alle eventuali minacce che possono essere portate dalla critica ‘roditrice’ dei topi11.
Il patrimonio di saperi dei classici non è garantito, la storia è anche storia di selezioni, perdite e scomparse.
Eppure tutto ciò non autorizza ad assumere posizioni catastrofiste rispetto a un pensiero, ad un modo di intendere il reale che è solo momentaneamente oscurato.
Eredità significa capire che le nostre scelte culturali non sono mai neutre, meno che mai questioni di gusto. Fortini diceva, a proposito dell’opposizione Leopardi-Manzoni che sceglie Leopardi chi pensa che per conoscere il mondo sia necessario prima conoscere se stessi. Fortini ha sempre sostenuto il contrario, e cioè che per conoscere se stessi sia prima necessario conoscere il mondo, in polemica e scontro col sempre ritornante soggettivismo contro cui polemizzava già Hegel.
Per Perlini la cifra unificante dell’esperienza fortiniana sta nel suo valore di testimonianza di una verità alla quale è doveroso tenere fede. Un inedito di Fortini, pubblicato su Il Manifesto del 14.10.2004, avvalora questa posizione: “Chi ha visto una verità non può esserle infedele. Se lo fa, è perduto.”
Si sono alternate, parlando di Fortini, diverse posizioni intorno al modo in cui una sinistra radicale possa uscire dalla propria crisi, individuando diversi soggetti politici potenzialmente antagonisti. Sergio Bologna ha parlato della lower middle class, in costante aumento, e della necessità di agire sui grandi sistemi, l’istruzione, la sanità, sull’attuale organizzazione del lavoro.
Luperini facendo una rapida rassegna delle filosofie e delle forme di pensiero debole degli ultimi anni ha sottolineato alcuni aspetti della visione del mondo di Fortini da cui non possiamo congedarci. Non si può fare a meno di una elaborazione ideologica coerente, che deve essere invece ‘patria’ per l’intellettuale, il suo luogo vitale. L’intellettuale trova le linee di frizione del presente, si pone per Fortini - in ciò erede della Terza Internazionale - all’interno di un fronte, non combatte mai fuori delle parti.
Il problema, il compito specifico non mandarinale è quello di lavorare praticamente ex novo agli strumenti critici, di inventarsi gli interlocutori, per ripartire in una lotta che non può essere finita perché oggettivamente non ne sono rimosse le cause.
Roma
Gli incontri fortiniani organizzati dal Centro hanno avuto un seguito con il seminario svoltosi presso la ‘Casa di Goethe’, a Roma. Roberto Venuti, germanista dell’Università di Siena, ha tenuto una conferenza dal titolo: Franco Fortini e Cesare Cases. La traduzione del Faust. Com’è noto, e com’è ampiamente documentato nel volume de L’ospite ingrato sulla traduzione, Fortini si avvalse, durante gli anni in cui tradusse il capolavoro goethiano, del lavoro di revisione di Cesare Cases, con un intensificarsi dello scambio epistolare fra i due che merita l’attenzione che gli è stata data. Preferirei, piuttosto che ripetere quanto Venuti ha detto e scritto con grande chiarezza, accennare al significato che quest’opera di Goethe ha avuto nell’immagine di Fortini della letteratura moderna, come termine di confronto con altre tradizioni, stabilendo dei collegamenti fulminanti e ingegnosi, ad esempio con l’opera del grande Lu Hsun, della quale scrive: “... pur lottando contro la tradizione, testimonia come nei livelli anche infimi della vita arcaica e contadina, nella ‘morte che vive’ dei villaggi e della propria stessa memoria è contenuta una verità irrinunciabile che può e deve essere restaurata man mano che ci si venga liberando dall’oppressione, pietà filiale insomma che si deve esprimere simultaneamente alla distruzione della casa paterna. Chi avesse difficoltà a capire questo discorso, rammenti che nella poesia occidentale la più tragica figurazione di questa verità è nel dialogo del viandante con Filemone e Bauci, al quinto atto del II Faust”12.
Pietà filiale e distruzione della casa paterna. Ma anche contemporaneità fra generazioni e popoli. In una nota della sua traduzione del Faust Fortini cita, per la scena di Filemone e Bauci, gli studi su Goethe di Lukács: “la Fenomenologia dello spirito poetica si chiude con lo sviluppo reale delle forze di produzione, con quella potenza cioè che ci porta dalla esistenza fantasmagorica del feudalesimo, nel mondo dello svolgimento reale delle capacità umane. Il carattere diabolico della forma capitalistica di tale progresso non è ... per nulla attenuato; ma nello stesso tempo Goethe mostra come soltanto qui si apre il vero campo della prassi umana.”13
Firenze
A partire dal 18 novembre l’Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti” di Firenze ha ospitato una mostra, curata da Luca Lenzini ed Elisabetta Nencini, dal titolo: 1917-1941 “Nella città nemica” Fortini a Firenze. All’inaugurazione della mostra è seguito un incontro al Gabinetto Viesseux, con interventi su Fortini, ed in particolare sugli anni della sua formazione.
Il titolo della mostra fa riferimento ad una poesia di Fortini del 1939, intitolata per l’appunto La città nemica, esemplare dei sentimenti ambivalenti, di estraneità e di esclusione, più che di appartenenza ed adesione, alla vita cittadina e al mondo culturale della Firenze degli anni Trenta, con le sue miserie provinciali ma anche con le sue ricchezze monumentali e artistiche, con le sue biblioteche, nelle quali il giovane Franco Lattes si forma.
La mostra, divisa in sezioni temporali, ha offerto testimonianze e documenti vari, ritratti e autoritratti, libri, rivelanti di certi gusti e di certe predilezioni, foto (come quella di Dostoevskij presente nella camera da letto di Franco), facendo luce su un periodo dello scrittore fiorentino probabilmente meno conosciuto; o ancora lettere ad amici, quali Valentino Bucchi, una caricatura riportata nell’invito alla mostra dove sono rappresentati, oltre allo stesso Fortini, che ne è anche l’autore, Giorgio Spini, Giampiero Carocci, Alceste Novellini, lo stesso Valentino Bucchi e accompagnata dal motto “Vivitur ingenio caetera mortis erunt” (L’intelligenza vive, il resto è mortale), emblematico del velleitario ed in parte snobistico tentativo di questi giovani di separarsi dal profanum vulgus dei coetanei, ma anche del rifiuto della coeva dominante culturale dell’ermetismo fiorentino.
E poi le testimonianze del decisivo rapporto con Giacomo Noventa, alcune raccolte di Luzi, il libretto universitario ed una copia della tesi su Rosso Fiorentino.
Nell’incontro pomeridiano Giuseppe Nava ha tracciato un percorso della biografia intellettuale di Fortini, sottolineando il decisivo rapporto con Noventa, l’approdo, momentaneo, ad un realismo cattolico come superamento del soggettivismo, per poi giungere ad una classificazione di tipologie di intellettuale alle quali Fortini non è assimilabile. Ma su questo punto del discorso di Nava tornerei parlando del convegno di Catania, dove lo studioso ha riproposto l’importante questione.
Di grande spessore l’intervento di Michele Ranchetti su una delle figure più importanti, ma in qualche modo perturbanti, della vita di Fortini: mi riferisco a Don Lorenzo Milani. Ranchetti, a proposito degli scritti di Fortini su Milani, quelli dei “Quaderni Piacentini” del 1967 e insieme l’intervento del 1980, al convegno fiorentino sul Priore di Barbiana, ha mostrato il carattere spiccatamente autobiografico di questi testi, tutto sommato inusuale in Fortini, mostrando notevoli affinità ma anche inconciliabili distanze tra i due. All’intervento di Severino Saccardi è seguito quello di Davide Dalmas, che in maniera documentata e meditata ha proposto una ricostruzione delle letture e dei debiti culturali del giovane Lattes nei riguardi, fra gli altri, di Kierkegaard. Proprio dagli studi di Dalmas su questi rapporti bisogna partire, se è vero che certi elementi torneranno prepotentemente nell’ultimo Fortini.
Cagliari
Meritoria l’iniziativa che a Cagliari l’università locale ha promosso in collaborazione con il Centro Studi. Quattro giornate – tra una conferenza-spettacolo, la proiezione di un film, una tavola rotonda e un recital- riunite sotto il titolo significativo Un dialogo ininterrotto.
Il primo incontro ha visto una presentazione complessiva della figura di Fortini da parte di Giovanni Solinas dell’Università di Firenze, alla quale è seguita, il 25 novembre, la proiezione del film di Straub-Huillet Fortini/Cani. A seguire un intervento di Marianna Marrucci che ha parlato della scrittura diaristica in Fortini, riferendosi in particolare al ‘diario in pubblico’ fortiniano che presto sarà edito col titolo Un giorno o l’altro, e che peraltro era stato presentato al convegno di Siena da Valentia Tinacci.
La Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari ha poi ospitato una tavola rotonda dal tema Franco Fortini e la cultura italiana alla quale sono intervenuti Sandro Maxia, che ha parlato della prima saggistica fortiniana e cioè di Dieci inverni, Giuseppe Nava, che ha tracciato un profilo intellettuale di Fortini, Riccardo Bonavita e Fabrizio Podda, il cui intervento Autunno occidentale ha chiarito in quale senso vada correttamente intesa la distanza generazionale da Fortini, come constatazione e presa di coscienza di ciò che ci separa da lui, ma che non ci esime dalla comprensione. A conclusione è stato rappresentato uno spettacolo ispirato ai versi di Fortini dal titolo Una volta per sempre, con evidente riferimento alla raccolta poetica fortiniana, e che è stato accolto con apprezzamento.
Catania
L’Università di Catania ha infine organizzato, per iniziativa del prof. Felice Rappazzo, un ulteriore incontro, il 9 e 10 dicembre, dal titolo fortiniano Proteggete le nostre verità: memoria, eredità, generazioni.
Si è insistito, in molte delle relazioni, sull’importanza che il tema della memoria, della trasmissione dell’eredità fra generazioni ha assunto, sempre più col passare degli anni, nella riflessione di Fortini, in particolare nella saggistica (ma importanti accenni sono stati rilevati nella produzione poetica, in particolare nella raccolta Composita solvantur). La relazione iniziale di Romano Luperini ha immediatamente posto i termini della questione. Eredità per Fortini è frutto di selezione e di scelta, risultato di una capacità mediatrice ed educatrice che si confronta con le tradizioni del passato, unica via al passaggio di saperi, esperienze, memorie fra generazioni, unico mezzo per fuoriuscire dalla minorità intellettuale contemporanea; né questa sembra essere così innocente, come si vuole fare credere, specie da quando negli ultimi decenni ha prodotto generazioni di eterni adolescenti. In Fortini tutto ciò è passato attraverso una dimensione pubblica dell’agire, attraverso anche quell’attività di docente ed educatore che ha un ruolo centrale nella sua, pur varia, vicenda intellettuale (su questo l’intervento di Allegra – Giustolisi, su Fortini, l’insegnamento e la formazione).
Edoarda Masi nella sua relazione ha passato in rassegna, servendosi di alcuni splendidi scritti di Fortini sulla Cina, le immagini di questi cosiddetti ‘paesi allegorici’, luoghi lontani eppure non indicibili, anzi traducibili nel nostro linguaggio, figure più estreme ed evidenti delle contraddizioni che ci lacerano - altra parte del vero che illumina e chiarisce il groviglio di relazioni false ed inumane nelle quali ci dibattiamo.
Santarone si è invece cimentato su uno dei testi meno noti di Fortini, non fosse altro che per le difficoltà di reperirlo, La statua di Stalin, tratto dal volume del 1963 Tre testi per film. “Antistalinista” ante litteram, verrebbe da dire, eppure mai superficiale liquidatore della Rivoluzione d’Ottobre, critico impietoso di certi sviluppi del socialismo reale in Unione Sovietica, Fortini affermerà sempre la necessità di un confronto, riconosciuta l’appartenenza a questa grande storia anche in ciò che di tragico essa contiene. Recuperare la storia del Movimento operaio ed insieme riferirsi ad una teoria della quale appropriarsi consapevolmente, questo, fra gli altri, il senso dell’intervento di Santarone14.
Il dibattito seguito a questa prima giornata di incontri ha offerto degli spunti che mi sembrano davvero importanti per l’immagine che di Fortini è venuta fuori.
Luperini, muovendosi tra Timpanaro e Fortini, ha voluto sottolineare che della dimensione biologica dell’uomo, della sua finitudine, sia individuale che di specie, si debba tenere conto, consistendo la dimensione sociale, del vivere associati, in una razionalizzazione, una ‘grammaticalizzazione’ dell’irriducibilmente biologico. A partire dall’uso del termine e del concetto di reversibilità, titolo baudeleriano di una poesia di Fortini, si è sviluppata anche grazie ad alcuni interventi del pubblico una discussione che, al di là di quanto si è detto a Catania, ci impone di chiarire alcune delle fonti del pensiero di Fortini: da Marx all’ultimo Lukács, quello chiaramente dell’Ontologia dell’essere sociale. Testo, quest’ultimo, a cui si è riferito, nel corso del suo intervento, lo studente Francesco Costa. Scrive Lukács: “...queste peculiarità biologiche dell’uomo in ultima analisi sono prodotti della società... Sono le nuove, grandi richieste, derivanti dalla socialità, cui si trova di fronte colui che sta diventando uomo (positura eretta, linguaggio, idoneità al lavoro, ecc.), che rendono necessaria questa lentezza dello sviluppo, e la società crea in conformità le condizioni perché esso abbia luogo. Il fatto che siano occorse molte decine di migliaia di anni affinché ciò potesse fissarsi biologicamente, non vuol dire che questa genesi non abbia avuto carattere sociale, né che, una volta fissatasi questa peculiarità biologica dell’uomo come patrimonio genetico, lo stato ‘compiuto’ non possa spostarsi sempre più in avanti, a causa delle crescenti richieste dell’essere sociale, senza che ormai avvengano mutamenti biologici specifici.15
Bisognerà chiarire, allora, i termini in cui si configura in Fortini il rapporto tra natura e storia. In riferimento ai limiti biologici, “l’uomo è uomo e non esce da se stesso”: questa è secondo Luperini una traccia del pensiero di Timpanaro ben presente in Fortini. Ma questa compresenza dell’essere biologico e dell’essere sociale nell’uomo si trova già in Aristotele, Marx e Lukács, senza che il primo termine, le cui leggi continuano ad operare, venga obliterato: solo che legalità qualitativamente nuove, senza precedenti in natura, emergono con l’arretramento delle barriere naturali. Il passaggio da natura a storia è, in questo senso, un salto irreversibile.
È pensabile parlare di reversibilità, che nella poesia fortiniana era posta come metafora, ha precisato Luperini, sia in riferimento alla funzione mediatrice ed educatrice che Santarone metteva bene in luce, sia anche al tema dell’irriducibilità del biologico, cioè ai motivi della morte, della vecchiaia, della malattia, reversibili nella coscienza che ne serba memoria e oggetto di trasmissione di quella mediazione concreta di cui si è riconosciuta la centralità16 .
Il giorno successivo la relazione di Luca Lenzini, dal titolo Interpretare i vuoti, ha cercato di cogliere a partire sia da testi in prosa che in poesia il rapporto tra la pienezza della trasmissione ed il vuoto, la mancanza. Un rapporto, quello col nichilismo, avversato da Fortini quale ricettacolo di errori etici e filosofici, per alcuni aspetti tuttavia controverso. Ne viene fuori una sorta di ipertesto fortiniano che potrebbe avere come titolo ‘istruzioni per un buon uso dei vuoti’. Praticare il niente per poi tornare pieni al proprio posto. Lenzini ha citato la poesia di Fortini Da Brecht: “Se al vuoto anzi tempo mi volgo/ ricolmo rientro dal vuoto./ Quando pratico col niente/ torno, il mio compito, a saperlo...”
Vari aspetti meno conosciuti di Fortini hanno trovato spazio in altre relazioni; da un intervento di Fortini a Catania del 1964 nella relazione di Anna Carta, con un testo sui limiti dell’antifascismo che in parte confluirà nel di lì a poco edito Verifica dei poteri; al Fortini paroliere di un buon numero di canzoni, da Quella cosa in Lombardia alla splendida versione dell’Internazionale, nella relazione di Giuseppe Traina; al fondamentale Fortini antologista di Profezie e realtà del nostro secolo in quella di Andrea Manganaro.
F. Rappazzo è poi tornato sul problema dell’eredità, sul tentativo fortiniano di dare vita e forma ad un soggetto collettivo, definibile secondo categorie etico-pratiche: un noi più che un io, al quale è destinata una scrittura saggistica che non intrattiene né persuade ma pone di fronte delle scelte; un linguaggio figurale e pedagogico, fatto di moralità e a tratti apodittico più che dialettico.
Davide Dalmas ha concluso intervenendo sul ritorno della gioventù nell’ultimo Fortini, sulla sua ‘religiosità’, ma anche e soprattutto su una pratica di riscrittura e montaggio evidente ad esempio in Attraverso Pasolini.
Nelle sue conclusioni Giuseppe Nava ha voluto fra le altre cose ripetere quanto già detto in occasione del convegno di Siena, dal quale cito, a proposito della figura di intellettuale alla quale è accostabile Fortini. “...Una figura di intellettuale che non si può ricondurre né all’intellettuale filosofo, ... né tanto meno all’intellettuale tradizionale di area italiana, ... e neppure all’intellettuale organico della Terza Internazionale, ... o all’intellettuale militante, caro al Sessantotto...”. Seppure Fortini sia stato per certi aspetti vicino a queste figure, il suo modello di intellettuale rimanda, secondo Nava, da un lato alla tradizione francese dell’ ‘impegno’, da Zola ai surrealisti, fino soprattutto a Sartre, dall’altro alla prassi e all’elaborazione politico-culturale dei gruppi che fanno capo alle riviste “Ragionamenti” e “Arguments”.
Mi chiedo, ma lascio aperta la risposta, in che maniera Fortini, che mai disconobbe il suo rapporto con Sartre anche quando il filosofo francese divenne fuori moda, potesse concepire la nozione di engagement, sulla quale cominciò a riflettere ai tempi de Il Politecnico.
Domenico Losurdo, in un suo scritto, sottolinea l’ambiguità dell’appello all’engagement, riconoscendovi un precursore nel Fichte de La missione del dotto e mostrando strane vicinanze fra Sartre e Heidegger. L’ambiguità consiste nel richiamo forte alla soggettività, nell’idea che gli intellettuali incarnino il momento della ‘negatività’. “ [Per Sartre] l’oggettività è di per sé inerte e può ricevere il movimento esclusivamente a partire dall’iniziativa, dal dover essere, dal ‘pour soi’, in ultima analisi dalla coscienza critica dell’intellettuale il quale, dunque, viene di fatto a rivendicare una posizione privilegiata e di guida dell’intero movimento. Una posizione insostenibile [ se si pensa, come scrive Fortini in Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, “all’illusione tipica dell’intellettuale, che cioè per incarnarsi la storia abbia scelto proprio il suo cervellino”] nell’ambito della tradizione hegeliano-marxiana che, sottolineando la negatività già insita nell’oggettività sociale, conferisce una posizione centrale ai bisogni reali, rispetto ai quali l’intellettuale interessato alla trasformazione ricopre sì un ruolo attivo e importante, ma solo nella misura in cui riesce a svolgere la funzione di interprete e organizzatore di quei bisogni sociali di massa, i quali rinviano, a loro volta, a contraddizioni oggettive” 17.
In che maniera il lavoro intellettuale di Fortini affronta questo problema? In che maniera il recupero della soggettività agisce in Fortini in polemica contro ogni visione del marxismo che ignori la dimensione della problematicità e del rischio, e si affidi al ‘mito della oggettività’?
Si tratta di questioni enormi, che qui mi limito a riproporre registrando il fatto positivo che in questi incontri siano state sollevate senza incorrere nel gusto vano per la celebrazione e la mummificazione.
Milano
La giornata di studi tenuta presso l’Università Statale di Milano il 17 marzo 2005, dall’impegnativo titolo Poesia e utopia: l’eredità di Franco Fortini, non è stato il solo omaggio che questa città abbia dedicato al proprio illustre figlio adottivo. A precederla ci sono stati i cinque incontri organizzati dal Punto Rosso nel corso del 2004, sui quali tuttavia non è necessario soffermarsi perché già editi e recensiti18 .
Il valore delle relazioni e l’importanza dei temi affrontati hanno portato all’idea di integrare questa rassegna, inizialmente pensata e scritta per gli incontri del 2004, con il breve resoconto che segue.
Organizzatore e moderatore dell’incontro del 17 marzo è stato Giovanni Turchetta, che nella sua introduzione ai lavori ha sottolineato, fra le altre cose, come nel dispiegarsi dell’attività intellettuale di Fortini alla dimensione della razionalità e della mediazione, insostituibili, si sia sempre accompagnata un’attenzione alla concretezza del singolo, le cui istanze finivano per rimanere fuori da costruzioni rigide e stupidamente progressiste, mascherate sotto qualche etichetta ‘marxista’. Ed ancora e per nulla secondario, nel discorso di Turchetta, il richiamo all’aspetto istituzionale della critica ed in generale delle attività intellettuali, le quali, e molto spesso lo si dimentica, si esercitano nei luoghi, nelle istituzioni. Esiste un carattere cerimoniale dello scrivere, una distinzione non meramente formale fra i generi: tutto questo è parte integrante dell’insegnamento di Fortini.
L’intervento di Edoardo Esposito ha tracciato una problematica ricostruzione della produzione poetica fortiniana, così profondamente intrecciata alla produzione saggistica, coi suoi momenti pedagogici ed oratori, ma insieme ed irriducibilmente altro; forma di falsa coscienza ed insieme menzogna che dice la verità.
Luca Lenzini ha invece parlato dell’ultimo testo pubblico di Fortini, la Lettera all’assemblea “Per la libertà d’informazione”19, svelandone una notevole complessità, cogliendo acutamente la compresenza di toni ironici e tragici, di umiltà e orgoglio. Lenzini ha poi collegato il testo ad altri luoghi dell’opera fortiniana, isolando il motivo del congedo, che diventa figura di separazione e di non sintonia; vedendo l’ironia come arma di risposta all’utopia negativa del Niente. Una disappartenenza, quella di Fortini, che benjaminianamente può fare lampeggiare tracce di un altro tempo nel nostro.
Paolo Giovannetti ha voluto invece inserire, con esiti egregi, le riflessioni e gli studi di Fortini sulla metrica da una parte nella costruzione di una fisionomia intellettuale coerente ed unitaria, dall’altra all’interno della tradizione metrica italiana e della produzione poetica più recente. Ne viene fuori la novità degli studi di Fortini, il sostanziale rifiuto della cultura poetica italiana di accettarne le proposte, fondamentalmente per la difficoltà di quest’ultima di isolare realtà ritmiche a prescindere dalla fisionomia sillabica. Possibilità, come è noto, presente nella poesia anglosassone o tedesca, cui Fortini certamente guarda. O ancora il fatto che egli abbia inaugurato la tendenza a riutilizzare forme metriche antichissime in una prospettiva che non è certamente neoclassicista e che Giovannetti definisce, spero provocatoriamente, postmoderna.
Come già al convegno di Siena, Emanuele Zinato, nella sua relazione, è partito dalla raccolta Paesaggio con serpente, questa volta per un’interrogazione radicale a partire dai versi di Fortini, dei nessi decisivi fra storia e inconscio, violenza e società, macerie e rovine, distruzione e costruzione. Ne viene fuori il carattere irriducibilmente tragico della visione fortiniana della Storia, che però non è una semplice contemplatio, ma posizione dell’azione intellettuale e politica a partire dalla consapevolezza della velenosità del “dente della storia”, dal riconoscimento che “Una feroce / forza il mondo possiede”, come aveva scritto nell’Adelchi il suo Manzoni.
Sull’attualità di Fortini vorrei chiudere. Studiare, parlare, occuparsi, scrivere su un autore (o non farlo) non è e non può essere operazione innocua. Tende, che se ne si sia consapevoli o meno, ad un progetto più o meno condiviso, anche di conferma e giustificazione dell’esistente. Fortini lo ha insegnato per anni. La sua opera non è superata o confutata. Per chi se ne voglia servire è lì, da studiare, luogo di una elaborazione ideologica, di una lucidità raggiunta da nessuno dei grandi saggisti del secondo Novecento italiano. Essa è semmai rimossa, ed è cosa diversa, e come tale può tornare a svolgere il suo lavoro di separazione e divisione delle false concordie per spingere ad altre e superiori unità.
Per le più o meno giovani generazioni valga quanto scritto da Fortini nel ’93, riconoscendo la possibilità che l’eredità non si trasmetta, ma anche con l’orgoglio di chi ci attende perché nella sua opera si parla di noi e del domani: “E a uno o due di quei giovani anche vorrei dire: come si impara una lingua straniera, cercate di capire la lingua nostra, solo in apparenza simile a quella che ogni giorno impiegate conversando o pensando. Se ritenete che non valga la fatica, chiudete in fretta i nostri libri e l’età che li produsse; e buona fortuna”20.
1. Il dolore della verità: Maggiani incontra Fortini, a cura di Erminio Risso, Lecce, Piero Manni, 2000, p. 59.
2. Dieci inverni senza Fortini. 1994-2004 Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa, a cura di Luca Lenzini, Elisabetta Nencini e Felice Rappazzo, Quodilibet, Macerata, 2006.
3. Franco Fortini, Prefazione a Questioni di frontiera. Scritti di politica e letteratura 1965-1977, Torino, Einaudi, 1977, p.VI.
4. Mario Luzi, I nuvoloni di Franco Fortini, “L’Unità”, 14. 10. 2004.
5. Cfr. Franco Fortini, Il passaggio della gioia, in Verifica dei poteri. Saggi di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, pp. 215-219.
6. Massimo Raffaeli, Tra seme morto ed erba futura, “Il Manifesto”, 14. 10. 2004.
7. Franco Fortini, Raniero, Paesaggio con serpente, in Versi 1973-1983, Torino, Einaudi, 1984, p. 40.
8. Franco Fortini, Lukács, ivi, p. 21.
9. Franco Fortini, Lukács in Italia, in Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, p. 209.
10.Cfr. Francesca Menci, Dialettica e concezione figurale in Fortini, “L’ospite ingrato”, 2000, pp. 159-181.
11.Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 6: “Il manoscritto [ L’ideologia tedesca] , due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla critica rodente dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi.”
12. Franco Fortini, Lo spettro cinese, in Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, pp. 290-291.
13. Gyorgy Lukács, Goethe e il suo tempo, Milano, Mondadori, 1949, p. 265.
14. Cfr. Alessandro Mazzone in Classe lavoratrice, sindacato, Storia del Movimento Operaio, “Proteo”, n. 1, 2003: “La teoria è un’arma. (Di ‘armi più raffinate e decisive’ parlava Gramsci nei Quaderni del carcere.) Forse mai come oggi è stato così. Non solo perché, anche qui, l’avversario ha messo in opera una gigantesca macchina (anti)culturale, tendente a distruggere nei lavoratori, e nei cittadini in genere, ogni consapevolezza teorica – anche e soprattutto nella formazione delle nuove generazioni. Ma perchè è una superstizione, e nulla più, che la teoria nasce dall’ ‘intelligenza’ di qualche testa. È vero il contrario: l’intelligenza nasce dalla teoria... ‘Studiate, perchè avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza’ era, non per nulla, un motto dell’ Ordine nuovo di Gramsci, nell’anno rivoluzionario 1919.”
15. Gyorgy Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 336-337.
16. Ma, per l’intero dibattito, si rimanda necessariamente agli atti del convegno, nonché alla poesia Reversibilità.
17. Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi. Fortuna e tramonto di una categoria nella cultura italiana, in “Prassi. Come orientarsi nel mondo”, Urbino, QuattroVenti, 1991, pp. 111-112. Cfr. Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida a un buon uso dell’alfabeto¸ Milano, Est, 1968, p. 22.
18. «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, a cura di Paolo Giovannetti, Milano, Edizioni Punto Rosso 2004.
19. Franco Fortini, Lettera all’assemblea “Per la libertà dell’informazione”, in Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, 2003, p. 1755.
20. Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. X.
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