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Pensare dal limite di Massimo Cappitti
Mario Pezzella
Recensione di Mario Pezzella («il manifesto», 22.5.2014)

I saggi raccolti in questo libro di Massimo Cappitti (Pensare dal limite. Contributi di teoria critica, Arezzo, Zona, 2013)pongono a confronto alcuni autori del “comunismo eretico” del ‘900 (come Luxembourg, Korsch, Montaldi) con la scrittura letteraria (Flaubert, De Lillo, Glissant), interrogando il rapporto tra narratività e pensiero politico. I differenti percorsi sono accomunati da una passione del molteplice, come s’intitola il capitolo centrale del libro dedicato a Canetti, e dalla riscoperta dei possibili indecisi e in bilico che caratterizzano un evento storico, prima che i vincitori del momento riescano a imporre la loro tradizione e la loro lettura a senso unico: “L’ordine dei significati appare rovesciabile e le concrezioni di senso –salde solo all’apparenza- perdono la loro presa, cosicché i possibili inespressi e latenti nelle pieghe della storia tornano, leibnizianamente, a rivendicare il loro diritto ad esistere”(Cappitti). Il significato di un evento non è dato una volta per sempre, ma si costituisce in una sorta di futuro anteriore, che proietta la luce selettiva delle lotte presenti sull’immagine irrigidita del passato.

Una polarità non risolvibile attraversa le forme radicali del pensiero critico. La spietata analisi di Anders sulla tarda modernità si conclude in una prospettiva nichilistica: l’asservimento e lo sfruttamento appaiono così omologanti e cristallizzati da non consentire una vera trasformazione dell’essere-in-comune, ma solo atti di rivolta o di tumulto, che si esauriscono in se stessi, che non si danno costituzione e durata.

D’altra parte, sono possibili un esodo e una desistenza dai legami del potere, che non rinunciano ad allargare le crepe della sua labilità e transitorietà, perforando la sua muraglia cinese, apparentemente immutabile. E’ la situazione sognata da Saramago, nel suo romanzo Saggio sulla lucidità, in cui come in una sorta di sciopero generale realizzato, i cittadini di una metaforica città rinunciano a votare e si distaccano dalle loro funzioni abituali. Un simile comportamento rivela immediatamente che solo la servitù volontaria può consentire la continuità del potere, e che questo si affloscia come una maschera, quando non può più contare sulla partecipazione attiva dei dominati. Un’altra figura letteraria, che mostra la potenza della desistenza è il Principe Myskin, dell’Idiota di Dostevskij, che “accenna all’esistenza di una giustizia più alta”, che “nell’istante della sua diserzione, consente a quella giustizia di farsi presente”(Cappitti).

Di fronte al totalitarismo morbido, un concetto che Cappitti riprende da Anders, non si tratta solo di criticare questo o quell’aspetto particolare della legge, ma il suo stesso attuale fondamento simbolico: e cioè la dissimetria violenta su cui si regge ogni sua relazione di lavoro e di rapporto sociale. Anders riferiva quel concetto a un potere che non avrebbe più bisogno di un uso dispiegato della violenza, perché sarebbe sufficiente la seduzione delle merci e l’apparato della tecnica a mantenere stabili i rapporti di subordinazione. In realtà da quando Anders scriveva su questi temi, la situazione pare cambiata: da un lato il capitalismo attuale usa, se necessario, la violenza aperta; dall’altro il nuovo potere finanziario globale non usa l’arma soft della seduzione consumista, ma quella dello strangolamento economico di ogni resistenza. Per cui oggi è più opportuno interpretare la realtà considerando la coesistenza di forme e tempi diversi del dominio. E’ in tal senso che Cappitti riprende –in una versione assai radicale- il pensiero di M. Foucault: “Modalità di esercizio del potere storicamente date non tramontano mai definitivamente, bensì coesistono con le successive. Nell’economia del dominio, nulla si perde”(Cappitti). Così il potere governamentale e quello disciplinare possono convergere in modo inedito nella configurazione della situazione presente.

L’ibridazione culturale, l’intreccio di temporalità storiche molteplici e diverse, può essere però intesa anche nel suo senso positivo, come avviene nei saggi su Montaldi e Glissant. Innanzitutto Montaldi costituisce un esempio dell’incontro tra la scrittura letteraria e quella politica, che è un tema costante del libro. Nei racconti di Autobiografie della leggera la micrologia della storia individuale si confronta dialetticamente con quella collettiva, e ciò può avvenire solo all’interno di un linguaggio narrativo. La domanda principale che ci pongono questi racconti è se si possa identificare una legge unica evolutiva della storia, dalle società premoderne e “senza stato”(Clastres), fino a quelle del capitalismo moderno, e se così avvenga uno sviluppo progressivo: o se invece un’idea di comunismo libera da ogni determinismo non richieda l’intersezione di tempi e forme di vita comunitaria non contemporanei fra loro, anche se appartenenti a società precapitalistiche. Questa ambivalenza non appartiene al solo Montaldi, ma è viva nel dibattito del comunismo eretico e rivela la contraddizione “tra una concezione lineare e progressiva della storia, per cui lo stadio successivo ingloba e supera il precedente”, e una visione che constata “la pluralità di tempi che, tra loro, coesistono confliggendo, elidendosi oppure potenziandosi”(Cappitti).

È in Glissant e nel suo elogio della creolizzazione che questa positiva passione del molteplice trova la sua espressione migliore (e ripudia il provincialismo rancido di ogni concezione razzista). In una concezione “rizomatica” del rapporto tra le culture, non è possibile determinare identità esclusive le une delle altre, affermare sé per negazione e ripudio dell’altro “nemico”; i Caraibi di Glissant divengono il simbolo geografico immaginario di una compresenza di origini diverse, di cui nessuna può vantare il privilegio dell’autenticità, denunciando le altre come irrilevanti. Se non si dà un’essenza unica ed eterna del linguaggio e della civiltà, esistono però i numerosi possibili che le culture soffocate e disperse possono riattivare nel corso della storia; allora “il passato irrompe nel presente” colmo “di possibilità latenti e irrealizzate”(Cappitti).


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[23 maggio 2014]
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