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Andrea Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura
a cura di Laura Barile e Ginevra - Bompiani, Roma, Nottetempo, 2007

Luca Lenzini

 

Di cosa parla Andrea Zanzotto in Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura? L’intervista raccolta nel 2006 da Laura Barile e Ginevra Bompiani assomiglia, in realtà, ad un lungo monologo, e non è facile rispondere alla domanda. Si potrebbe citare la Nota introduttiva delle curatrici «… Abbiamo vagato a parole dal vissuto poetico, alla malattia, la psicanalisi, la chiesa, la pubblicità, Ennio e Tasso, Vincenzo Monti, Hölderlin, Sereni, Montale, Ottieri, Zanella, i tempi geologici, il clima, il paesaggio, i deserti dell’Asia, la bellezza sparita, la vecchiaia, il rumore, il silenzio…» (p.6). L’inventario, neppure esaustivo, rende conto della varietà dei temi, altresì identificando alcuni “luoghi” ricorrenti nella scrittura poetica e saggistica di Zanzotto (Montale, Zanella, il paesaggio, la psicanalisi…); ma è forse sul verbo “vagare” che si deve indugiare, per mettere a fuoco il fascino singolarissimo di questo libretto.
Il vagabondare è un piacere proprio della conversazione a ruota libera, certo, di cui qui si dà un caso; ma a ben vedere, un certo abbandonarsi, un apparente cedimento alle derive del pensiero che si fa totalmente assorbire dal proprio oggetto – sia esso un evento, un paesaggio o una lettura – appartiene da sempre al saggismo di Zanzotto, che per originalità e penetrazione non teme il confronto con i suoi colleghi più accreditati (da Pasolini a Fortini o Raboni). Qui però la pluralità degli oggetti affrontati nel giro di poche pagine sembrerebbe precludere la dimensione della profondità, a favore di una ruminazione per flashes e salti che punta ad alcunché che per definizione è incognito e sfuggente (il titolo espone questa aporia nel titolo, con il perentorio «s’ignora»), ma che nondimeno attrae a sé il pensiero in modo cogente. L’inizio parla chiaro (p. 9):

Negli ultimi tempi mi sono trovato a meditare (meditare, non posso usare neanche questa parola perché sono pensieri discontinui, che vanno, vengono, ma hanno una loro necessità).

La discontinuità, quindi, è connaturata al discorso del Trauma; e poco dopo, riferendosi al tema della «devastazione ambientale», osserva Zanzotto (pp. 13-14):

È un discorso serpeggiante tra la sabbia questo qua, io vedo i fiumi dell’Asia centrale che si perdono nei deserti, come i pensieri non solo miei ma di tante filosofie attuali.

Il parallelo tra i pensieri ed i fiumi che si perdono riceve luce dal motivo della catastrofe, il vero centro del testo-monologo. Questo, si noterà, ha nel libretto un doppio versante: quello ambientale ed “epocale”, e quello esistenziale (un incidente domestico), collegato alla vecchiaia; ed al nesso tra i due versanti corrisponde il costante, noncurante trascorrere dal particolare - dal locale, dal privato - all’universale, secondo un’oscillazione che è poi esplicitamente assunta a “metodo” dal poeta, tanto che in chiusa si può leggere (p. 87):

[…] Io poi mi sento stonato nel parlare perché a una certa età si è proprio come su un’altalena, non si ha un punto fisso da cui guardare le cose.

«Stonato»: sarebbe questo, insomma, il registro del Trauma, il segno della frattura che sul piano biografico doppia il collasso prodotto su scala planetaria dal dominio dell’economia, i cui esiti nefasti a buona ragione assillano il poeta. Se allora la catastrofe occupa il centro del discorso, lo fa però in modo tale da fare del discorso un girare attorno, o un guardare ora da sopra e ora da sotto, senza fissa dimora e magari a tentoni, riproducendo un moto aperto e inconcluso. Ma non è, l’esser stonato, soltanto il frutto di uno stato d’incertezza o infermità:  l’assenza di un fondamento stabile produce uno straniamento, un’inquietudine che ha anche un tratto positivo, quasi fosse un’ebbrezza che nella divagazione trova una forma adeguata alla propria natura, e che riproduce in sé un elemento intimamente “saggistico” (nel senso di Montaigne), di chi si prende la libertà che vuole. Un tratto anarchico, d’altronde, è caratteristico della vecchiaia dei grandi artisti, che della “catastrofe”, a sentire Adorno, han fatto non tanto il tema, quanto il principio strutturale delle proprie opere estreme: qualcosa che si può ben avvertire anche qui, per quanto trattato con garbo veneto e senza alcuna enfasi, e che va preso sul serio e per nulla come una chiacchiera poetica.
Il tema dell’«estinzione» percorre tutto il monologo di Zanzotto, sospeso come una tergiversazione conoscitiva nella fenditura tra due tempi: il tempo lungo, biologico, della specie, e quello breve dell’individuo nella storia. Non è forse un caso che nelle prime battute del libro faccia la sua apparizione – appena nominato, ma ben presente - il nipotino dell’autore, ovvero il rappresentante di una generazione il cui futuro si pone al di là dell’orizzonte temporale di chi parla: anche questo è un tratto tipico dei vegliardi, il rivolgersi (segretamente o meno) all’in-fante scavalcando contemporanei e diretti discendenti, mentre si va ragionando di ere geologiche e possibili apocalissi. Osservare il mondo da un’altalena, infatti, non vuol dire rinunciare a porre la questione dell’eredità, nel senso più ampio del termine, e proprio per questo un non celato accento “civile” è caratteristico di queste pagine.
Dove la “catastrofe” rivela però il suo nucleo dialettico è quando Zanzotto dal vissuto volge l’attenzione – sempre en passant, ma come riferendosi ad un sottofondo continuo del pensiero – alla poesia. Dopo aver accennato al motivo del «peccato originale» e della morte «come salario del peccato» (p. 32), all’esplicita domanda dell’intervistatrice: «Laicamente che cos’è questo sbaglio iniziale?», egli così risponde:

Il fatto che si è finiti e non infiniti. È una situazione in cui ci si trova, la situazione limitata che è la stessa per cui la poesia nasce e muore in una sola lingua. Le traduzioni sono tutte discutibili. Ma c’è anche qualcosa di più. Questa posizione lascia aperto alla poesia un ruolo abbastanza indipendente ed evidente, quello di tener aperta questa corsa all’autoidentificazione, al poter dire io.

A questo brano sembra sotteso una specie di scambio tra Lingua e Vita: la finitezza umana ed il vincolo della poesia all’unicità di una lingua sono assimilati e posti come condizione inaggirabile e universale, segno di una radicale intraducibilità: sbaglio, peccato originale, ma anche fatto originario e propulsivo, in quanto la presenza del limite invalicabile costituisce la premessa che paradossalmente autorizza la soggettività a dichiararsi, a prendere la parola (in poesia), a «dire io» (nella storia, dentro la non-infinitezza). La possibilità di una «autoidentificazione» che cos’è, se non un processo di riconoscimento (del limite) e di legittimazione di una forma (la lirica) che ogni volta rinnova la propria “indipendenza”? Tanto più è vicina al limite, tanto più la vecchiaia torna a ribadire il carattere affermativo ed utopico dell’arte, la sua aspirazione alla durata. Da questo punto prospettico s’intende meglio perché il lettore dell’intervista era invitato sin dall’inizio a stabilire un nesso tra la «lesione» fisica occorsa al poeta e la successiva «riabilitazione», da una parte, e dall’altra tra «il vissuto della poesia» ed i «vari tentativi di ricevere un’ondata positiva e comunque creativa» (p. 18). I testi inediti anticipati nel libro (Altri 25 aprile, Giorno dei morti 2 novembre 2003, De senectute) son lì a testimoniare questo passaggio critico e vitale, e non c’è che rallegrarsi ed esser grati a Zanzotto per l’energia e l’intelligenza che, ancora una volta, emana dalla loro poesia.

 

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