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G.C. Ferretti - E. Zinato Volponi personaggio di romanzo
Manni Editore, Lecce 2009, € 13,00

 

 Gabriele Fichera

 

Il volume Volponi personaggio di romanzo è costituito da tre inediti volponiani e da due studi introduttivi a cura di Gian Carlo Ferretti e Emanuele Zinato, due nomi legati allo scrittore di Urbino da una “lunga fedeltà”. Il primo legge gli inediti inserendoli nel percorso professionale e intellettuale dello scrittore; nel suo intervento Zinato cerca invece di interpretarli come documenti che aiutino a comprendere meglio «lo statuto del personaggio nella scrittura romanzesca» volponiana.
La stesura dei tre inediti si colloca in un decennio, quello fra 1972 e 1983, che è stato cruciale tanto per i destini privati dell’autore quanto per quelli pubblici dell’Italia di allora. Nei primi due si percorre la strada dell’autoritratto intellettuale e professionale. Il terzo è una lettera di risposta, peraltro mai spedita, a Franco Fortini, preceduta dalla missiva con cui il saggista si congratula per la recente elezione dell’amico a senatore del PCI.
«Più accetterà di servire e più rivoluzionari […] saranno i libri che scriverà». Così V., riferendosi a se stesso, conclude il primo dei tre testi del libro. E la clausola è felice, dal momento che miracolosamente compendia i motivi conduttori essenziali di questi scritti: la contraddizione irrisolvibile, l’inestinguibile senso di colpa, l’ansia invincibile di compensazione.
C’è dunque almeno un elemento che accomuna questi lavori: il continuo insistere, da parte dell’autore, sulla propria insufficienza sia letteraria che politica e, specularmente, l’ansia incontrollabile e quasi ossessiva di doversi giustificare agli occhi degli altri per una qualche colpa irreparabile. Il primo scritto è datato 1972, si presenta in forma di appunti, ed è redatto in terza persona. È questo il testo in cui il suddetto senso di colpa acquista i toni più marcati. Ed è probabilmente anche il lavoro più rilevante dei tre per le considerazioni di poetica che vi sono, seppure frammentariamente, esposte. Volponi mette in atto una profonda autocritica sia letteraria che politica; un’autocritica in cui, è fondamentale comprenderlo, i limiti politici si connettono a quelli letterari e viceversa. Volponi ad esempio presenta la sua prima stagione creativa come quella di un poeta intimista e decadente e collega questo modus scribendi alla sua primitiva condizione sociale di possidente che proviene da una società rurale. Già qui, sottotraccia, comincia ad agire quell’intima contraddizione, di marca “pasoliniana”, che si sviluppa tra una personale “ragione semirivoluzionaria” e un “cuore da possidente” che vive di rendita. Questa lacerazione conduce inoltre lo scrittore a dichiarare come nel suo libro – Memoriale –  sia osservabile non solo la non organicità dell’autore con la “classe” rivoluzionaria, ma anche il deciso rifiuto di ogni operazione letteraria che confonda «gli uomini […] nell’anonimato urlante seppure cosciente della classe».
Il duplice sentiero dell’autocritica volponiana, politica e artistica, può trovare un punto visibile di convergenza e di raccolta nella questione del realismo. Volponi sembra confrontarsi, in modo molto originale, con la nota dicotomia lukacciana fra “narrare” e “descrivere”. Egli mostra di comprendere infatti come la strada del realismo sia sempre minata dal pericolo di due opposti eccessi: il distacco neutro dello scrittore naturalista che vuole semplicemente “descrivere” la realtà e il lirismo soggettivo di un io che, ingigantendo a dismisura le proprie dimensioni artistiche, finisce per scindersi dal reale. Di conseguenza lo scrittore tenta di abbozzare un’idea affatto peculiare di “realismo”, capace di scegliersi un sostrato di tipo etico: sta qui l’idea per cui a modello della mimesi letteraria si debba porre la “pietà” e una profonda capacità di compenetrazione nei mondi interiori altrui. Volponi però sa individuare, molto lucidamente, anche il limite di questa “pietà”: il considerare cioè le situazioni altrui sempre in termini personali, «nell’intimo di una colonna “psico-biologica”». Non lo convince il fatto che la rappresentazione della realtà sia condannata a scaturire da un nefasto processo di riduzione che fa assomigliare il mondo al «contorno di un foglio dal quale appunto uno ritagli la sagoma di un uomo». Una rappresentazione del reale che nasce, quasi e contrario, da quella di un “io” irrelato, non può che condurre appunto ad una realtà posticcia, simile al fondale di carta di una quinta teatrale, che rimanga scissa però dallo spettacolo in primo piano che si svolge nell’interiorità dell’individuo. Questa fase letteraria sommamente imperfetta è identificabile con quella di Le porte dell’Appennino (1960), come si evince dal riferimento che Volponi fa all’ambito culturale e politico della rivista «Officina». Ma lo scrittore vuole andare oltre nello sforzo di individuare i termini di una via narrativa che non coincida esattamente né col “narrare” né col “descrivere” lukacciani. Ed è così che da una parte posiziona il suo sguardo in un punto opposto rispetto a quello dell’algida “osservazione” dei naturalisti; dall’altra pone all’origine della sua creazione narrativa un “moto interno” di compenetrazione simpatetica ben dissimile dalla «partecipazione completa, mimetica a un caso» e che al limite prescinde da una cristallina «coscienza storica, marxista, scientifica, comunque ideologica». Proprio nella stesura di Memoriale Volponi individua quella svolta che gli permette, senza cadere nelle secche della “descrizione”, di superare i limiti della “pietà”, confrontandosi con la «verità del tema» trattato, col mondo dell’oggettività. Questa verità non si pone sulla superficie, ma negli strati più riposti della realtà rappresentata. Essa «trapela dalle bende della nevrosi, del paesaggio, del solipsismo e denuncia la ferita che vi è sotto, purulenta». In questo romanzo infatti il milieu industriale non è più un fondale esterno alla recita dell’io, ma prende forma da una visione circostanziata di «fatti aziendali […] sentiti e restituiti per il dolore del loro peso e della loro incidenza più che descritti naturalisticamente o sociologicamente nelle loro strutture e nei loro meccanismi “esterni”» (corsivi miei). Qui Volponi anticipa quella polemica verso il “descrivere” naturalista che poco dopo espliciterà a chiare lettere, indirizzandola contro i modi, a volte eccessivamente meccanici, in cui Vittorini e Calvino intesero i rapporti fra letteratura e industria. Ma, una volta delimitati e circoscritti i rischi del “descrivere”, come fa Volponi a superare quelli antitetici della “pietà”? La risposta è individuata nell’elaborazione poetica della forma, nei termini di una mimesi “naturale”. Per lo scrittore pietà e comprensione, per loro natura, aiutano a trovare strumenti – lingua e struttura narrativa – che sono «inventati nelle profondità della mimesi e fusi nel naturale lirismo». Tutto questo può aiutare a porre le basi per la nascita di un’opera letteraria nuova e vera.
Nella lettera a Fortini del 1983 si ripropone ancora, in una formulazione molto convincente, la necessità, e la complessità, dell’intreccio che sussiste tra agire politico e modalità della mimesi letteraria. Dice infatti Volponi, a proposito del rapporto peculiare che egli instaura con il Partito: «e ogni mio rapporto con il Pci, è proprio da scrittore pensare e tentare di organizzare e far parlare una verità sociale come romanzo o poema: che si esprima e si riconosca fino a strutturarsi e ad agire secondo il proprio concetto, lingua, liberazione». Ma questa lettera è importante anche perché indica chiaramente di che natura sia il “peccato originale” da cui Volponi vorrebbe purificarsi. Si tratta dei rapporti compromissori che intrattenne col potere, precisamente con i due “principi” moderni con cui ebbe, in modo diverso, a che fare: l’Industria e il Partito.
Il titolo del libro in questione accosta al nome di “Volponi” la formula “personaggio di romanzo”. Il suggerimento è tratto dal saggio introduttivo di Zinato. In esso lo studioso si concentra sulla scelta volponiana di scrivere di sé in terza persona e di allontanarsi così dalle spire di un “io” narrativo ipertrofico e narcisista. Si tratta di una scelta che anticipa certe soluzioni espressive future, fra Corporale e Le mosche del capitale. La reazione volponiana alla crisi del “personaggio-uomo” sarebbe data quindi, secondo Zinato, dal mettere in scena se stesso come “personaggio”. Questo immetterebbe l’autore nei territori della autofiction, e costituirebbe per lo scrittore d’Urbino una vera e propria “svolta autofinzionale”. Il critico parla, non a torto, di pseudo-autobiografismo. Ma c’è un punto che andrebbe approfondito: la tensione espressiva verso la terza persona narrativa, e quindi verso l’oggettivazione, va collocata infatti, per Volponi, in un contesto che non può essere solo di tipo formale o solo concernente il problema del genere letterario. La scelta va vista anche nell’ambito della naturale, per Volponi, politicità dell’io. Si tratta di una questione cruciale per uno scrittore che continua a riallacciarsi ad una visione marxista della società e a riflettere criticamente sulla questione del realismo. Alla formula “personaggio di romanzo” andrebbe quindi accostata quella di certo non meno calzante di Volponi “scrittore politico”.
Ed infatti, tornando all’aut aut lukacciano, nel Taccuino, un inedito del 1980, appare evidente come la visione della vita di Volponi non si faccia racchiudere nei confini angusti di una distaccata “osservazione”, ma si incammini sui binari della più appassionata “partecipazione” alla vita sociale. E quando la nostalgia per i perduti negotia politici lo attanaglia in modo veemente, il timbro di questi appunti finisce per lambire i territori di una dignitosissima malinconia: simile a quella del Machiavelli che, in esilio da Firenze, mostrava, nella famosa lettera XI a Vettori, di aver imparato a fare di necessità virtù, alternando le vesti del lavoro quotidiano, fatte “di fango e loto”, con i “panni reali e curiali” dello studio sui classici: estremo rifugio comunque concesso a chi è stato escluso dall’agone politico. Il Volponi allontanato dall’industria e dai suoi poteri, quindi dai luoghi in cui era solito prender parte alle discussioni collettive e alle decisioni, si volge verso la terra natale, verso la campagna di Urbino, con un sentimento ambivalente di piacere e terrore, splendidamente testimoniato dall’inconfondibile, barocca anamorfòsi, che sorprende lo scrittore nell’atto di osservare la piazza urbinate e la vita sociale che ivi si svolge: «mi appare evidente, ossuto e smembrato, lo scheletro del corpo sociale di Urbino, morta da più di tre secoli». Così l’autore finisce per cedere alla marea dei ricordi, assalito come è da «un’ansia accanita di uscire e di andare a fare, di entrare in luoghi pubblici e deputati di iniziative e di operazioni, di decisioni e di scambi». E finalmente si appresta a congedarsi dal lettore, non senza prima aver agitato però l’ennesima, necessaria, contraddizione, nella forma consolatoria della confidenza amicale. All’accusa, da lui stesso formulata, di essere stato succube del potere industriale, Volponi infine risponde: «Ho servito, ma non ho obbedito».

 

[15 dicembre 2009]

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