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Valzer con Bachir
Giovanni Solinas
Tre
giovani soldati, nudi, di notte, nel buio che precede l’alba,
immersi nell’acqua placida e densa di un mare quasi
stagnante, a pochi metri dalla riva. Oltre la spiaggia, la riva
è una strada asfaltata, che, come nelle banchine dei porti,
si raggiunge dal mare salendo pochi scalini di cemento. Al di
là di essa sorgono dei palazzi moderni, molto alti; sono
semidistrutti dalla guerra, e dall’alto guardano verso il
mare.
I militari, giovanissimi ed inespressivi, tengono fuori dal pelo
dell’acqua solo la testa, la punta dei loro piedi, e un
po’ di braccia. Fanno il morto. Lentamente si alzano; portano
con sé dei fucili. Escono dall’acqua,
inespressivi, semmai tristi, in una luce notturna, nitida ed onirica
come tutta la scena, nella lentezza dei movimenti dei sui protagonisti,
e nella solennità delle cose, nel vuoto di realtà
che le iperdefinisce: una luce assieme nera ed arancione, prodotta da
traccianti luminosi che cadono dal cielo. I militari escono
dall’acqua, completamente nudi, salvo per il fucile e la
targhetta di riconoscimento appesa al collo; pian piano si vestono, si
addentrano di poco nella città, e incrociano un gruppo di
donne in lutto e di bambini, che piangono, sciamando via in preda alla
disperazione.
Si
tratta di una delle scene più importanti, sicuramente la
più forte per intensità visiva ed evocativa, di
Valzer con Bachir. Il film è la
cronografia di un percorso di rimemorazione. Nell’Israele dei
nostri giorni un amico del protagonista, suo commilitone nella guerra
del Libano, racconta al vecchio compagno l’inquietante sogno
(un primo sogno, le cui immagini aprono il film) che lo perseguita,
collegato alle vicende della guerra. È come se un coperchio
fosse stato sollevato. Il protagonista si rende conto di condividere
assieme all’amico (e, come si capirà, ad altri ex
combattenti) non soltanto una parziale rimozione, ma anche una sorta di
mascheramento, mnemonico ed immaginario, degli eventi. Ha cancellato
radicalmente ogni ricordo della guerra, ed in particolar modo del suo
apice traumatico: il massacro di Sabra e Shatila, al quale non sa
più dire se abbia partecipato o meno. Dalla sua memoria,
come attivando una sorta di allegoria sostitutiva, emerge soltanto
l’immagine che si è descritto
all’inizio. Ed è quasi unicamente per scoprire se
essa sia realmente accaduta, o se si tratti di un ricordo immaginario,
che inizia la sua indagine a ritroso nel tempo. Contatterà
gli altri commilitoni dell’epoca nel tentativo di ricostruire
l’accaduto e di comprendere quale sia stato il suo ruolo
effettivo nel massacro. Man mano che le testimonianze ed i racconti si
uniscono a comporre un mosaico dal disegno sempre più
riconoscibile, anche l’immagine soggettiva, il ricordo
dell’esperienza vissuta, comincia a riaffiorare alla sua
coscienza, sino alla rimemorazione definitiva ed alla scoperta della
verità.
La dimensione della sequenza cui si è fatto riferimento
è innegabilmente quella del sogno. Come si è
detto, d’altronde, sin dal suo inizio il film getta lo
spettatore uno spazio segnato dalla bruma, o forse, al contrario,
dall’evidenza, dalla necessità della sospensione
onirica: non dalla sua illogicità, ma dal suo accamparsi nel
vuoto di contesto, esterno all’universo motivato della
realtà cosciente, al tempo della vita. In realtà,
per quanto più volte l’allucinazione del
protagonista sia riproposta, è la crudezza della
realtà storica a dominare la vicenda. Eppure è
come se si continuasse a restare imprigionati entro
l’universo superreale del sogno.
Se allo spettatore di
Valzer con Bachir (uno spettatore dotato di una discreta dote
di ambizione esegetica) venisse chiesto di tracciare una sorta di
diario della propria esperienza di fruizione, egli dovrebbe
senz’altro partire da questa prima sensazione: la
difficoltà a liberarsi –a svegliarsi- dal mood
onirico in cui è stato gettato sin dalla prima sequenza del
film; perché? A causa, certo, della forza allucinata delle
immagini dei sogni, delle visioni, delle derive immaginative entro cui
ripetutamente si trovano immersi il protagonista ed i suoi vecchi
commilitoni, e che propagano il loro effetto (alle volte generando una
temporanea confusione fra illusorio e reale) sul resto del racconto.
Non soltanto, però. Responsabile di questa impressione
sembra essere soprattutto la stessa specificità formale del
disegno animato. Lo spettatore potrebbe proseguirebbe il proprio diario
testimoniando di come quasi subito si sia trovato a interrogarsi sul
perché una vicenda che narra di eventi storici e persone
reali sia stata raccontata nella forma del cartoon.
La prima risposta che potrebbe essersi dato (senz’altro
è l’ipotesi che, d’acchito, ho formulato
io, per poi correggermi) è questa: il cartone animato
è uno strumento di creazione assolutamente libero, capace di
prescindere da ogni limitante ossequio alla logica
dell’esistente. È pittura, ha il potere di rendere
visione l’inaudito, l’allucinazione della mente,
l’ingigantimento della realtà,
l’associazione illogica di cose, tempi, spazi; ed
è in grado di dare effettività –anche
se soltanto visiva, soltanto segnica- ad eventi mai visti, a fatti
avvenuti dei quali non si ha testimonianza sensibile. Certo, quale
altro linguaggio usare in un film che non è soltanto un film
sul vuoto della memoria, sulla rimozione di un evento traumatico, ma
anche sulla deformazione che, nel ricordo, le immagini legate a
quell’evento subiscono, (oltre che, infine, sulla
verità di quell’evento)? Un evento di cui, per di
più, nessuna immagine ha reso testimonianza, per lo meno nel
momento in cui accadeva.
E invece no. Il motivo che presiede alla scelta del linguaggio
è ben diverso. Non risiede nella
volontà della totale impregiudicatezza creativa, ma quasi
nel suo opposto. Nell’impossibilità,
cioè, di raccontare il fatto senza filtrarlo, senza prendere
le distanze dalla sua realtà, senza proteggersi dalla sua
evidenza impietosa. Forse la possibilità stessa di metterlo
in discorso, di farlo diventare racconto, richiede di non guardarlo in
faccia. Man mano che procede, il
cartoon diventa sempre più semplice ricalco di
immagini reali: l’inviato di guerra intervistato secondo la
tipica modalità televisiva, le immagini dei giganteschi posters
propagandistici sui quali campeggia il volto-icona di Bachir, i volti
polverosi dei profughi, superstiti del massacro: ormai il disegno si
limita a ripassare a matita ed imbrunire dei suoi chiaro scuro figure e
forme tratte da fotografie o da riprese con tutta evidenza reali. Lo fa
quel tanto che basta per depositare su di esse la patina, il velo del
disegno d’animazione. Sinché il racconto non
finisce con le immagini vere –immagini televisive, di
repertorio- dei cadaveri di Sabra e Shatila. O forse finisce
perché devono essere mostrate quelle immagini.
Quelle immagini sono la fine dell’invenzione, della
configurazione narrativa (che, per quanto chiamata ad evocare eventi
realmente accaduti, è comunque costruzione finzionale) allo
stesso modo in cui la rimemorazione dell’evento ha
rappresentato per il protagonista, che lo aveva rimosso, la fine delle
allucinazioni, delle finzioni pietose della mente.
Lo si capisce poco a poco, man mano che si procede nella visione: in
qualche modo il percorso interpretativo dello spettatore, nel suo
costituirsi come cammino di approssimazione al significato, che procede
attraverso l’accavallarsi successivo di ipotesi sempre
più nitide, ricalca il meccanismo narrativo del film: un
percorso a ritroso nel tempo, che è avvicinamento coraggioso
all’accadimento originario nella sua nudità; uno
stringersi graduale del cerchio attorno al realmente accaduto, che
corrisponde al diradarsi successivo della nebbia,
all’eliminazione dei simulacri, delle immagini sostitutive,
delle maschere che la memoria frappone fra la coscienza e il fatto
bruto.
Ed in questa sorta di gioco di sponde, se l’esperienza dello
spettatore è il riflesso indiretto di quella del
protagonista, l’esperienza di quest’ultimo diventa
lo specchio dell’esperienza di una coscienza collettiva,
quella, si potrebbe dire, del popolo di Israele.
In una scena del film, lo psicanalista amico del protagonista mette in
diretto collegamento le due condizioni psichiche che, come presupposti
emotivi inconsapevoli, organizzano a livello profondo la coscienza e la
percezione di sé del protagonista e del suo popolo:
l’acqua –sostiene lo psicanalista-
è immagine della paura e del sentimento, e la
paura è il prodotto di un trauma drammaticamente
raddoppiato: nella mente di Ari il confronto diretto con il
massacro del campo profughi di Sabra e Chatila si è sommato
a quello, indiretto ma comunque devastante, con l’esperienza
dei massacri nei campi di concentramento nazista in cui sono morti i
suoi genitori. L’angoscia generata dal secondo è
stata reinnescata e potenziata dal primo.
Di fronte a un simile eccesso di violenza la mente non può
che mettere in atto la sua più radicale strategia difensiva,
quella della rimozione, della cancellazione mnemonica, o quanto meno
della cancellazione del ricordo cosciente. E l’acqua, in
seconda battuta, diviene anche immagine di simile sepoltura, il segnale
che il ricordo è stato affogato, silenziato
nell’elemento liquido. Si tratta di una lettura convincente,
ed è in qualche maniera la spiegazione verso cui lo stesso
autore sembra indirizzarci. Ad essa, però, si ha la
tentazione di affiancarne un'altra; c’è infatti un
dato palese che, forse proprio perché così
esteriore ed evidente, l’interpretazione dello psicanalista
sembra ignorare: l’inversione di segno che si dà
fra le due esperienze traumatiche: in entrambi i casi, infatti, ci si
trova di fronte al ricordo di un eccidio, ma mentre il primo lo si
è subito, del secondo ci si è resi complici. Non
è forse plausibile supporre, allora, che a mescolarsi,
nell’animo del protagonista, siano la condizione mai
totalmente riscattabile della vittima della Shoah, e quella,
anch’essa dolorosa, del carnefice, di chi, cioè,
ha partecipato militarmente ad una guerra di occupazione e si
è reso complice passivo di una strage?
In questa prospettiva la fortissima rilevanza di quel motivo acquatico
che trova la sua espressione più estrema proprio nella scena
descritta all’inizio possiederebbe un’ulteriore
senso: anziché rappresentare unicamente
l’angoscia, la sfera dell’acqua, della
liquidità, sembrerebbe l’immagine del narcotico
annebbiamento cui induce il contrastarsi ed il confondersi, in una
sorta di indistinto stato fluido, delle due sensazioni: essere vittime
ed essere carnefici.
I
tre militari sono immersi sotto la superficie marina per la quasi
totale interezza del loro corpo. Sono placidi, inespressivi, fusi
all’elemento acquatico. Chi ha vissuto l’esperienza
di trovarsi immerso nell’acqua del mare di notte sa che
l’oscurità è resa ancora più
profonda dalla sensazione di sentire il proprio corpo assorbito da un
elemento liquido, che lo fascia. Lo spazio non
c’è, è negato. Perché il
buio lo inghiotte, letteralmente, cancella l’idea stessa
della distanza. Il buio, però, non è soltanto
l’assenza di luce, il non vedere (del resto
l’impossibilità della visione, se da un lato
annienta lo spazio, dall’altro, verrebbe da dire, lo
amplifica, lo rende vertigine, pura possibilità, pura
scommessa). A creare il buio, il profondo pozzo di oscurità
che lo determina, è soprattutto il sentire l’acqua
che nega al corpo la libertà del vuoto. Lo spazio non
c’è non solo perché non si
vede il vuoto che separa le cose, ma soprattutto perché
non si sente il vuoto attorno al proprio corpo. E dove
ciò manca non può esistere la distinzione, la
capacità di percepire i confini delle cose, la loro
distanza, e la distanza che le separa da chi le considera.
Quest’ultimo si trova avvolto, quasi abbacinato, in una sorta
di tutto continuo.
Credo che la valenza metaforica dell’elemento acquatico
consista proprio in questa negazione della facoltà
distintiva, della capacità stessa del giudizio, del
ri-conoscimento.
La percezione dell’essere vittime si mescola, in un certo
senso assorbendola, alla colpa per l’essersi sentiti
carnefici, e la rende invisibile, indistinguibile, non più
analizzabile: in qualche maniera la neutralizza e la disperde: le
impedisce di emergere, appunto. L’idea non va, certo, confusa
con l’ipotesi rozza secondo la quale la memoria del massacro
nazista diventa una sorta di impianto giustificativo, di condizione
inestinguibile di credito che rende ammissibile qualsiasi azione
violenta perpetrata dall’ex-vittima. La questione sollevata
dalle immagini del cartone è molto più complessa
ed ha a che fare con il modo in cui, nell’animo dei
protagonisti coinvolti nella guerra, si sia generata una bruma, o se si
vuole un elemento molle, avvolgente, in cui i confini reali dei due
sentimenti hanno finito per perdersi, inducendo la coscienza del
protagonista a galleggiare passiva, incapace di mettere a fuoco.
È forse questo la principale declinazione del tema del sogno
entro il film. Ed è il segreto ultimo della figura formale
che l’estetica allucinata ed impietosa delle sue immagini
restituisce: lo stato di sospensione, di latenza della
lucidità nel confronto con il reale. A riprodurre, nella
forma, ciò su cui costantemente sembra appuntarsi il
racconto del veterano di guerra, se letto nelle sue pieghe: la perdita
della memoria avvenuta dopo, a distanza di anni,
non è che una forma più estrema di quello stato
di confusione in cui il giovane militare viveva allora,
durante la guerra. Già allora la sua ragione cercava una
fuga in quella sorta di stato di vacanza e di confusione protettiva (il
confondersi dei torti nelle ragioni) di cui è immagine
l’abbraccio amniotico dell’acqua nella scena
immaginaria. In qualche misura, dunque gli eventi raccontati non sono
stati veramente vissuti dal protagonista mentre accadevano, mentre
hanno finito per acquistare consistenza ed effettività
soltanto nel momento in cui sono stati raccontati. La psicoanalisi, del
resto, lo insegna: l’evento diventa veramente tale, diventa
qualcosa di cui si esperisce l’essere, solo nel ricordo,
nella rievocazione che gli attribuisce un senso. La rievocazione, qui,
si dà nella forma dell’opera,
dell’artefatto estetico, ed il senso che essa sembra
suggerirci non si esaurisce nella presentazione di un caso di
rimozione, di cancellazione mnemonica conseguente al senso di colpa.
Pare invece voler mostrare come, al tempo in cui i fatti si sono
svolti, il senso di colpa non sia mai sorto. O meglio come,
incredibilmente, la banale capacità di individuare la
responsabilità di un fatto, semplicemente
riconducendo l’azione all’agente (il ri-conoscersi
origine di quell’azione auoattribuendosela), non si sia data,
persa in quello stato mentale cui forse lo scontro fra il proprio stato
presente di aggressori e la propria condizione storica di vittime ha
indotto. Così come, ancora una volta, avviene nel sogno,
quando ciò che nella mente sopravvive della
razionalità diurna percepisce l’incongruenza ed
assieme piacevolmente accetta, perché inevitabile e
necessaria, la tirannia della deriva onirica, dunque la propria assenza.
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